martedì 31 luglio 2012

Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale

 

Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve

(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione della risorse produttive disponibili.

(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi.  Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

(Tedeschi) Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato al fallimento. 



(Preve)Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella limitazione di questo capitalismo cannibale.

(Tedeschi) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.

(Preve)Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei “responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.



(Tedeschi) La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe politica,  acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un  sistema di cambi fissi, dato che  nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati. L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza degli europei.




(Preve) Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.

mercoledì 25 luglio 2012

Hamas: chi sono e per cosa combattono

di Stefano Zecchinelli



Riflessioni su Hamas e la sinistra palestinese davanti la destabilizzazione di uno Stato Sovrano ed Indipendente: la Siria.
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a La Siria governata dal Partito Ba’th è, dopo la caduta della Libia di Gheddafi, l’ultimo Stato laico e nazionalista (patriottismo di sinistra) del mondo arabo. Le così dette ‘’primavere arabe’’, in realtà, non hanno fatto altro che riproporre il contrasto fra il panarabismo laico ed il pan-islamismo.
Spicca quindi il ruolo della Fratellanza Musulmana, creatura dell’imperialismo inglese, fondata da Al-Banna nel 1928, che è servita prima agli inglesi e poi agli Usa ed al sionismo per controllare il mondo arabo e contrastare i movimenti di liberazione nazionale.
I Fratelli Musulmani si oppongono alla creazione di Stati nazionali, forti ed indipendenti (come la Siria o come lo fu l’Irak di Saddam), in difesa dalla patria islamica, la Umma.
Davanti la crisi siriana, che – come hanno notato esperti osservatori – ripresenta il ricorso ai Contras  sul modello di guerriglia anti-sandinista nicaraguense, è interessante la posizione di Hamas, il movimento di liberazione islamico della Palestina.
Nonostante Damasco abbia ospitato la sede di Hamas ed appoggiato questo movimento (il Ba’th siriano è un baluardo della resistenza palestinese), questa si è schierata a favore dei ‘’nuovi’’ Contras ‘’siriani’’ (in realtà vengono dalle petro-monarchie del golfo e dalla Libia occupata) spostando la sua sede ad Ankara, in Turchia.
In questo articolo mi soffermerò sulla involuzione politica di Hamas (cercando di discutere le ragioni di questa involuzione), e rapporterò ciò (seppur brevemente) a l’attuale conflitto inter-imperialistico.
Prima però è necessaria una precisazione.

2.  Con buona pace dei cripto-sionisti europei che parlano di Intifada siriana riporto le posizioni dei principali leader della sinistra palestinese (la Siria gode di ottimi rapporti con i Fronti popolari di liberazione palestinese).
Ahmed Jibril, del Fronte popolare di liberazione palestinese Commando, ha di recente dichiarato che “Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Hezbollah e l’Iran si schiereranno al fianco del regime di Damasco in caso di aggressione ‘esterna’ contro la Siria” (intervista rilasciata alla televisione siriana e pubblicata dal quotidiano al Quds al Arabi).
Secondo Jibril ‘’ il regime siriano è ancora solido all’interno ma deve fare i conti con le vili pressioni provenienti dall’estero’’.
Interessante anche la posizione del Fronte democratico di liberazione palestinese che, in visita a Cuba a fine febbraio, rilascia queste dichiarazioni ‘’ Un fattore molto importante per la soluzione pacifica e negoziata della situazione è la composizione etnico-religiosa della popolazione siriana, che ha quasi 30 milioni di abitanti, in gran parte arabi sunniti, ma anche sciiti, alawiti, drusi e cristiani. Uno scontro armato potrebbe contribuire a destabilizzare il paese e fargli perdere l’armonia e la coerenza che è sempre esistita in questa nazione. Questo potrebbe evolvere in situazioni estremamente violente come quelle che abbiamo visto in Iraq e ora in Egitto’’.
Quindi continua Walid A. Nur ‘’ Per i palestinesi e il Libano, la situazione è molto complessa tenuto conto del numero di persone che vivono in Siria e il supporto che Damasco ha sempre offerto alla giusta causa dei palestinesi’’.
Gli aspetti su cui riflettere sono almeno due: (1) che cosa sarebbe della sinistra palestinese senza la Siria ? Le dichiarazione dei leader in questione non fanno pensare a nulla di buono; (2) gli attori che gli Usa mettono in campo sono, quasi sempre, gli stessi.
Il secondo aspetto (‘’ gli attori che gli Usa mettono in campo sono, quasi sempre, gli stessi’’) deve essere argomentato, cosa che farò con un paragrafo aggiuntivo.

3.       Nel gennaio 2011 Robert Ford vola a Damasco accompagnato, niente poco di meno, che da John Negroponte.
John Negroponte creò gli squadroni della morte anti-sandinisti ‘’ operando con il sostegno di Washington, [essi] assassinarono centinaia di oppositori del regime appoggiato dagli USA.” (Vedasi Bill Vann, Bush Nominee linked to Latin American Terrorism, Global Research, novembre 2001)
Nel 2005 Negroponte andò in Irak dove il governo Usa ‘’ stava considerando la creazione di squadre d’assalto di combattenti curdi e sciiti, da indirizzare contro i leader della rivolta irachena, in un cambiamento strategico preso a prestito dalla contro-guerrigliera statunitense in America Centrale di 20 anni fa“. (El Salvador-style ‘death squads’ to be deployed by US against Iraq militants – Times Online, 10 gennaio 2005).
Una strategia studiata a tavolino che ora culmina con l’Operazione Vulcano in Siria; infatti Thierry Meyssan in un suo recente articolo ha denunciato ‘’ 40-60000 Contras, soprattutto libici, sono arrivati in pochi giorni nel paese, il più delle volte dal confine giordano. La maggior parte di loro sono aggregati all’esercito libero “siriano”, struttura paravento delle operazioni segrete della NATO, posta sotto il comando turco. Alcuni sono affiliati a gruppi di fanatici, tra cui al-Qaida, posti sotto il comando del Qatar o della fazione della famiglia reale saudita dei Sudeiri. Tra l’altro, hanno preso alcuni posti di frontiera, e poi si sono trasferiti nella capitale, dove hanno seminato confusione attaccando dei bersagli casuali che trovavano: gruppi di poliziotti o militari isolati’’ (Thierry Meyssan, La battaglia di Damasco, Rete Voltaire).
La sinistra filo-imperialista europea sarà anche libera di sognare (‘’sognare è la sorte dei deboli’’ diceva Lenin) ma la realtà è molto diversa e l’imperialismo, se studiato con attenzione, ripropone sempre le stesse tattiche.
Passiamo adesso ad Hamas ed al suo voltafaccia politico.

4.       La dirigenza Obama-Brzezinski ha aperto all’Islam moderato, accettando di dialogare con la Fratellanza Musulmana, cosa che la destra repubblicana non aveva mai fatto.
In risposta al discorso di El Cairo di Obama, Khaled Meshaal, il leader di Hamas, ha detto ‘’ Il nuovo linguaggio [di Obama] nei confromti di Hamas - ha sottolineato Meshaal - è il primo passo nella giusta direzione verso un dialogo diretto senza condizioni’’.
Meshall ha ribadito i punti cruciali del programma di Hamas: (1) fondazione dello Stato palestinese che abbia come capitale Gerusalemme e ritorno ai confini precedenti il 1967; (2) fine dell’occupazione militare; (3) Diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
I dubbi di Hamas, sul dialogo da mantenere con l’imperialismo, sono chiari quando il suo leader dice ‘’ Queste condizioni sono senza fine: quando i negoziatori palestinesi ne accettano una, ne vengono imposte di nuove. Ad esempio, dapprima la condizione era il riconoscimento di Israele, adesso è il riconoscimento dell’ebraicità di Israele. Successivamente, che Gerusalemme sia la sua eterna capitale, che si rinunci al Diritto al Ritorno, che si accetti il permanere dei blocchi di colonie. Poi [i Palestinesi] non solo dovranno abbandonare la resistenza, ma dovranno loro stessi lavorare all’oppressione, alla persecuzione e alla distruzione della resistenza’’.
Per avere più chiara la situazione facciamo un passo indietro ed andiamo al 2006. In una intervista a Silvia Cattori, Moshir Al Masri risponde così ad una domanda: ‘’ Se otterremo la maggioranza nelle elezioni legislative, ci penseremo. Ma, sul piano del dialogo con l'Europa e gli Stati Uniti, Hamas non è ostile verso nessuno, e noi siamo pronti a dialogare con chi vorrà dialogare con noi. Noi abbiamo dialogato con l'Europa, in particolare con dei parlamentari europei, e abbiamo instaurato un dialogo con degli universitari americani a Beirut (ma non si tratta di persone in possesso di qualunque potere esecutivo negli Stati Uniti). Hamas è un movimento aperto a tutto, e certamente non un movimento rigorista né un movimento complessato’’ (Moshir Al Masri, Hamas: chi siamo e per cosa combattiamo, Sotto le bandiere del marxismo).
Hamas è stata presentata per troppo tempo come una organizzazione fondamentalista quando, in realtà, è del tutto sprovvista di un approccio antimperialistico (metodo di analisi dei processi sociale e conseguente azione rivoluzionaria). L’unico problema di questa organizzazione è sempre stato quello di trovare validi interlocutori al di fuori dell’imperialismo israeliano.
Il mio obiettivo è di argomentare in modo eloquente sulle ragioni del filo-imperialismo di Hamas e per farlo risalgo alla nascita di questa organizzazione e segnalo alcuni punti del suo Statuto. Emergono (come il lettore attento adesso vedrà) degli spunti molto interessanti.

5.    Hamas nasce nel 1987 dopo che Ariel Sharon liberò 800 islamisti. Il partito della destra israeliana aveva tutte le ragioni di appoggiare un movimento islamista che avrebbe diviso la sinistra palestinese.
La formazione politica in questione, oltretutto, è una costola della Fratellanza Musulmana ed infatti nel suo Statuto (del 1988) si legge all’articolo 2:

‘’ Il Movimento di Resistenza Islamico è una delle branche dei Fratelli Musulmani in Palestina. Il movimento dei Fratelli Musulmani è un’organizzazione mondiale, uno dei più grandi movimenti islamici dell’era moderna. È caratterizzato dalla profonda comprensione, da nozioni precise, e da una totale padronanza di tutti i concetti islamici in tutti i settori della vita: nelle visioni e nelle credenze, in politica e in economia, nell’educazione e nella società, nel diritto e nella legge, nell’apologetica e nella dottrina, nella comunicazione e nell’arte, nelle cose visibili e in quelle invisibili, e comunque in ogni altra sfera della vita’’.

Nell’articolo 25 l’anti-comunismo di Hamas diventa esplicito:

 ‘’ Hamas rispetta i movimenti nazionalisti, comprende le condizioni in cui si trovano e i fattori che li influenzano e li circondano. Li sostiene, nella misura in cui essi non si alleano con l’Est comunista o con l’Ovest crociato. Rassicura coloro che ne sono membri o simpatizzanti che il Movimento di Resistenza Islamico è un movimento di jihad morale, responsabile nella sua visione della vita e nelle sue azioni verso gli altri. Ha in orrore l’opportunismo e vuole solo il bene degli altri, che si tratti di individui o di gruppi. Non ricerca il guadagno materiale o la fama personale, né chiede premi per sé al popolo. Si affida alle sue stesse risorse, per quanto siano disponibili, così come è scritto: “Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete” (Corano 8, 60). Tutto è fatto per compiere il proprio dovere e conquistarsi il favore di Allah. Non ha ambizioni al di fuori di questa’’.

Interessante l’articolo 28 dove si legge:

‘’ L’invasione sionista è veramente malvagia. Non esita a prendere ogni strada e a ricorrere ai mezzi più disonorevoli e ripugnanti per compiere i suoi desideri. Nelle sue attività di infiltrazione e spionistiche, si affida ampiamente alle organizzazioni clandestine che ha fondato, come la massoneria, il Rotary Club e i Lions Club, e altri gruppi spionistici. Tutte queste organizzazioni, siano segrete o aperte, operano nell’interesse del sionismo e sotto la sua direzione. Il loro scopo è demolire le società, distruggere i valori, violentare le coscienze, sconfiggere la virtù, e porre nel nulla l’islam. Sostengono il traffico di droga e di alcol di tutti i tipi per facilitare la loro opera di controllo e di espansione’’.

Hamas stessa (al contrario di quello che qui dice di se) è una organizzazione filo-massonica, essendo legata alla Loggia di El Cairo. Inoltre è legata alla società segreta degli Assassini che ha combattuto, insieme ai Templari, i nazionalisti musulmani saraceni durante le Crociate.
Quindi siamo davanti una organizzazione islamista (1), anti-comunista (2), e legata allo stragismo del Mossad (3). Questo è un giudizio sintetico ma penso che regga alla prova dei fatti.

6.    La dirigenza Usa ha una interessante spaccatura all’interno della dirigenza democratica: da una parte c’è il progetto Obama-Brzezinski di dialogo con l’Islam moderato e dall’altra la Clinton appoggiata dalla lobby cristiano-sionista La Famiglia.
Nel novembre del 2010 Sam Stein scrive su Soros, collaboratore di Brzezinski, che ‘’ La nuova battaglia politica di Soros è questa: smascherare e sconfiggere la lobby ebraico-sionista che determina la politica americana in Medio Oriente, che influenza democratici e repubblicani e che soffoca la critica. L’ebreo Soros (ma, precisa, “non sionista”) ha elaborato l’atto d’accusa nei confronti della lobby ebraica sulla New York Review of Books, la rivista della sinistra intellettuale newyorchese che a metà degli anni Settanta è diventata la Bibbia del radical-chicchismo americano’’.
Che dire ? Non ci sarebbe modo migliore per l’imperialismo Usa, di arginare Israele, che appoggiarsi all’imperialismo turco (mettendo i due imperialismi in aperto contrasto fra loro). In questo modo Hamas rientrerebbe, a pieno, nel progetto di islamizzazione dell’area secondo il copione delle rivoluzioni colorate. Questa analisi, devo precisare, è vincolata alla situazione interna negli Stati Uniti d’America ed hai gruppi di potere che lì prenderanno il sopravvento.

7.    La cosa più importante, da una prospettiva antimperialistica e di classe, è il sostegno incondizionato di tutte le organizzazioni marxiste ed antimperialista dell’area alla Siria.
Dal Fronte popolare di liberazione palestinese agli Hezbollah, fino al PKK curdo, sono tutte pronte ad impugnare le armi contro una aggressione imperialistica guidata dall’occidente e dai sui stati fantoccio.
La situazione è complessa e di non facile interpretazione, saranno gli avvenimenti successivi a fare chiarezza sul conflitto in atto.

Altri testi consultati:

1)      La scelta di Hamas nell’era Obama: riconoscimento o resistenza, Ali Abunimah, Rete Voltaire
2)      Chi controlla i Fratelli Mussulmani, Dean Henderson, Sito Aurora
3)      Il FDPL respinge ogni ingerenza straniera e chiede che il dialogo risolva i problemi interni, Juan Dufflar Amel, Stato e Potenza
4)      La destabilizzazione del mediterraneo e la guerra di Soros contro Israele, Andrea Fais, Strategos
5)      L’ ‘’Opzione Salvador’’ del Pentagono: l’invio degli squadroni della morte in Iraq e in Siria, Michel Chossudovsky, Sito Aurora


venerdì 13 luglio 2012


La difesa dei lavoratori italiana passa per la difesa della Siria e del legittimo governo di Assad: intervista al compagno Uuday Ramadan




(a cura di Stefano Zecchinelli) 

Nota introduttiva: Ouday Ramadan (detto Soso) è un compagno impegnato, ormai da moltissimo tempo, a contrastare le menzogne imperialistiche contro la Siria e i movimenti anti-imperialisti nell’area Medio Orientale. Inizialmente è stato un oppositore di sinistra al governo Assad, tanto che dovette uscire dalla Siria nel 1983.
Ha militato nel Partito comunista libanese e ha partecipato alla lotta armata in Libano. Dal 1986 è in Italia, dove ha aderito, negli ultimi anni, al Partito dei comunisti italiani.
Rientrato in Siria nel 1994, si è impegnato a difendere il governo del Ba’th dalle menzogne dei media di regime, nonostante non si consideri baasista.
Nel novembre scorso è stato in Siria e, come giornalista operativo sul posto, ha svolto una importante attività di informazione vera rispetto alla vergognosa disinformazione dei giornalisti occidentali.
E’ stato, insieme ad altri compagni, il principale promotore della manifestazione del 16 giugno a Roma ed ora della manifestazione del 14 luglio a Milano.
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1.  D: Come prima domanda le chiederei di inquadrarmi, da un punto di vista storico e geo-politico, il ruolo della Siria nell’area Medio Orientale. Le chiederei di soffermarsi, in modo particolare, sul sostegno che il Ba’th siriano ha dato (e dà) alle resistenze anti-imperialistiche (libanese, palestinese ed irakena) ?

R: La Siria geograficamente è situata nell’area Medio Orientale e confina con la Palestina occupata; la Palestina occupata deve essere considerata come il termometro della libertà e della giustizia sociale.
Con l’arrivo al potere del generale Assad, attraverso il suo colpo di stato bianco, c’è stata la statalizzazione dell’economia siriana, persino gli alberghi sono stati statalizzati.
La Siria ha marcato e sottolineato quale sarebbe stata la sua condotta politica: in primis il totale appoggio alla causa palestinese, la riforma della società siriana attraverso le politiche sociali, il Ba’th ha combattuto l’analfabetismo e ha militarizzato la popolazione.
Nel 1974-1975 scoppiava la guerra civile in Libano e l’esercito siriano entrò nel territorio libanese su richiesta del presidente Sulaymān Farangiyye.
Il Libano era chiamato la Svizzera del Medio Oriente essendo un paese molto difficile da governare, per il numero di diverse etnie che convivevano in quel territorio. Dopo la cacciata dalla Giordania, Arafat cercò di creare in Libano uno stato palestinese.
La Siria, con il suo interveto, fermò il massacro dei cristiani e rimase in Libano fino al 2005.
A Beirut nell’ ’82 sono morti seimila soldati siriani mentre l’OLP aveva dato l’ordine della ritirata.
Arafat venne trasferito in Tunisia nel 1982 e rientrò nel 1984.
La Siria ha sempre appoggiato attivamente la resistenza palestinese e la resistenza libanese.
Senza la Siria di Assad quanto tempo sarebbero durati gli Hezbollah ?
Nel 2003 l’ambasciatore Collin Powell consegnò alla Siria una serie di dictat per riabilitarla: la prima richiesta era la cacciata da Damasco di Hamas, la cacciata degli Hezbollah e la cacciata dei bathisti irakeni rifugiati in Siria.
Da precisare che dal 2003 la Siria ha aperto le porte a due milioni di profughi irakeni e tutt’ora c’è una comunità di un milione e mezzo di profughi irakeni che vive a Damasco e dintorni (a parità di diritti con i siriani!)
Nel 2006, durante l’aggressione israeliana al Libano, la Siria aprì le porte a un milione e mezzo di profughi libanesi curando i feriti, seppellendo i morti, dando vitto ed alloggio ai profughi.
Bashar Al Assad rispose a Powell ‘’ne prendo atto delle tue richieste però noi facciamo le cose in cui crediamo’’.



2. D: La Siria è sicuramente un appoggio preziosissimo per la resistenza palestinese e nell’area svolge un ruolo anti-imperialistico fondamentale. Cosa ne pensi del cambio di posizioni politiche fatto da Hamas: spostamento della sede da Damasco ad Ankara (Turchia) ?

R: Lo spostamento di Hamas è da inquadrare con lo spostamento di rotta della dirigenza Usa.
Contrariamente a Bush, Obama che proviene da una famiglia islamica, ha cambiato rotta introducendo il dialogo con l’Islam padronale.
Una volta gli Usa erano alleati nel suolo dell’Afghanistan con i fondamentalisti islamici, oggi non hanno fatto altro che rispolverare le vecchie conoscenze.
La Fratellanza Islamica è stata riciclata e siccome Hamas è una costola della Fratellanza Islamica ha obbedito alla logica islamista radicale.
La tanto decantata Hamas può spiegarci come mai a Gaza non ci sono armi per combattere il sionismo, ma pullula di droga ed eroina ? Chi impedisce ad Hamas, che appoggia la guerra di dissanguamento contro il regime siriano, di appoggiare una guerra simile contro lo Stato israeliano ?
La Fratellanza Islamica ha detto che il nemico è Israele però oggi il Presidente dell’Egitto rispetta tutti gli accordi con la Comunità Internazionale in primis quelli di Camp David.

3. D: Che rapporti ha la Siria con la sinistra palestinese ?

R: Il Fronte popolare gode di ottimi rapporti con la Siria mentre il Fronte popolare commando gode di eccellenti rapporti.
In Siria vivono circa un milione di profughi palestinesi che hanno gli stessi diritti dei siriani ed hanno anche un esercito chiamato Esercito della liberazione della Palestina.
Inoltre, nel territorio siriano, i combattenti palestinesi svolgono l’addestramento militare.

4. D: Da comunista che critiche faresti a Bashar Al Assad ? Sono stati introdotti degli elementi di economia mercatistica nel sistema economico siriano (che è sempre stato un sistema economico con una fortissima partecipazione statale) ?

R: Da comunista mi oppongo all’introduzione di politiche private e quello che stiamo vedendo oggi in Siria non è altro che la logica conseguenza di ciò.
Critico Bashar Al Assad per aver introdotto le banche e le scuole private su spinta della borghesia e di aver accettato il Fondo Monetario Internazionale e tutti i sistemi della socialdemocrazia.
La cosa peggiore è stata quella di aver inventato il sistema misto pubblico-privato.

5. D: Dopo aver inquadrato storicamente la questione siriana andiamo al conflitto in corso. Penso che l’imperialismo occidentale usi sempre la stessa tattica: negli anni ’80 si affidò, in Nicaragua, a bande armate per destabilizzare il governo Sandinista (i famosi Contras), e questa operazione l’ha ripetuta in Jugoslavia, in Irak, Libia ed ora Siria. Gli imperialisti fanno leva sulle minoranze etnico religiose (come in Irak) o su bande di mercenari (come in Nicaragua). Che cosa ne pensa ?

R: Questa è la strategia più conveniente per gli Usa.
Ha funzionato in Jugoslavia, per il Kosovo, ed in Irak ha avuto comunque successo.
L’impero americano non è altro che la continuazione di quello inglese: ovunque gli inglesi hanno esteso il loro dominio c’è sempre stata una lotta per i confini basata sull’odio etnico e religioso.

6. D: Quali sono i principali centri di disinformazione all’estero ?
R: Tutti i mezzi di comunicazione controllati dalle forze imperialistiche: Arabiya, Al Jazeera, BBC, La Rai, ecc...

7. D: Che cosa significa la Siria per la Russia ? Mi spiego meglio: la stabilità del governo di Damasco è una chiave per fermare la globalizzazione unipolare americana ?

R: La Siria è il confine della Federazione Russa; caduta la Siria, i russi si troverebbero gli islamici in casa, oltre ai ceceni.
Tartus (base russa sul territorio siriano) è l’unico sbocco per i russi nel mediterraneo.

8. D: Molti analisti pensano che la crisi siriana possa porta ad una terza guerra mondiale. Quale è la tua posizione a riguardo ?

R: Sì, la crisi siriana può portare ad una terza guerra mondiale.
La Siria ha dimostrato di sapersi difendere ma la stupidità dell’imperialismo potrebbe portare ad una guerra mondiale.

9. D: Il 16 giugno c’è stata a Roma una importante manifestazione in sostegno del legittimo governo di Bashar Al Assad e la stessa iniziativa ci sarà a Milano il 14 luglio. Quale è il risultato politico raggiunto con la manifestazione di Roma e quale risultato politico possiamo raggiungere a seguito della manifestazione di Milano ?

R: La manifestazione del 16 giugno è stata un grande successo ed ha dimostrato che l’Italia non è allineata agli Usa.
Con la passione, malgrado tutto il boicottaggio, la manifestazione ha avuto un grande successo.
Il risultato politico dovrebbe essere un punto di partenza e non di arrivo.

La difesa della Siria è la difesa dei lavoratori italiani, degli oppressi, dei disoccupati, dell’articolo 18, di ogni valore sociale per cui milioni di uomini e donne nel mondo danno la vita, e va inquadrata sotto quella linea di sangue che va da Parma a Guernica, arrivando a Stalingrado, passando per tutti i decenni fino ai nostri giorni. Per non dimenticare quella linea condotta da Omar Al Mukhtar,  Schulze-Boysen,Mehdi Ben Barka, Ernesto Guevara, Salvador Allende, fino ad arrivare a milioni di famosi ed anonimi martiri della causa anti-colonialista, che hanno lottato per l’emancipazione e la liberazione umana.

 

Considerato che la manifestazione del 16 giugno ha avuto un grande successo auspico che quella del 14 luglio sia sulla solita scia, però vedo che il boicottaggio è arrivato attraverso falsi manifesti, falsi organizzatori, prese di distanze e quanto altro.

Per quanto mi riguarda, io non ho alcun orticello da difendere, una qualche casa editrice o mettere il cappello su qualcuno. A Roma eravamo tutti contro l’aggressione alla Siria e a Milano sarà lo stesso.

Chi vuole venire venga e chi non vuole venire faccia pure, la Siria è al di sopra di ogni orticello.

 

 

 

Ringrazio il compagno Ouday Ramadan per avermi concesso questa importante intervista. Spero che questo lavoro di contro-informazione possa diffondersi fra i movimenti anti-imperialisti fino ad arginare la disinformazione dei media di regime. E’ doveroso per chi sostiene posizioni anti-imperialiste creare un dualismo di poteri anche sul piano informativo e sul piano culturale (Stefano Zecchinelli).