venerdì 7 dicembre 2012

Precarietà o morte! 

 Eugenio Orso



Le mie analisi pregresse, sviluppate nell’arco di un decennio, mi hanno portato a indentificare con sufficiente chiarezza il possibile profilo neocapitalistico riservato ai membri della classe pauper dominata, molto diverso, se non opposto, al profilo che il capitalismo del secondo millennio riservava ai subalterni. Il profilo in questione è quello del precario/ escluso, che si contrappone al novecentesco produttore/ consumatore, modificando integralmente il panorama sociale e il valore attribuito al lavoro. Il precario deve accettare l’umiliazione dei contratti a termine, d’incerto rinnovo, in un continuo gioco a ribasso delle retribuzioni, per non scivolare nella drammatica situazione dell’escluso, che incide negativamente su tutte le relazioni, sociali, umane e private del soggetto, e persino su quelle più intime di natura affettiva. L’ampio respiro della precarietà non limita i suoi effetti alle cosiddette relazioni industriali, alle quali deve soggiacere il lavoratore flessibilizzato, ma abbraccia l’intera dimensione esistenziale. Per molti anni Luciano Gallino, sociologo ed economista, ha scritto contro la precarizzazione dei lavoratori, introdotta in dosi sempre più robuste nel sistema produttivo italiano e nelle pubbliche amministrazioni, ma trattandosi di una voce assolutamente isolata, benché accademica e prestigiosa, le sue critiche ai modelli neocapitalistici nutriti di lavoro flessibile e precario sono cadute nel vuoto. 
Da un punto di vista politico, la precarietà è stata accettata come destino inevitabile, per i lavoratori, sia dallo spettro destro sia da quello sinistro dell’Unico Partito della Riproduzione Neocapitalistica, che in pari misura hanno contribuito a diffonderla. Tiziano Treu, del centro-sinistra, con la legge 196 del 1997 detta “Pacchetto Treu” e Maurizio Sacconi, del centro-destra, esponente del governo che ha varato la legge 30 del 2003 (detta anche Maroni o Biagi), convergevano entrambi su un comune obiettivo: flessibilizzare il più possibile il lavoro in Italia. I sindacati, sempre più subalterni nei confronti del sistema e sempre più lontani dagli interessi dei lavoratori, non hanno combattuto la precarietà con la dovuta forza, e dunque l’hanno accettata come inevitabile, necessaria e ineliminabile. Tutt’al più, si è detto che la democrazia oggi si ferma davanti ai cancelli delle fabbriche, lasciando intendere che all’interno l’uomo non è più cittadino nella pienezza dei diritti, ma esclusivamente fattore-lavoro da impiegare nei processi produttivi. Questo è un discorso ingannevole, fatto da sindacalisti gialli mascherati e da falsi antagonisti, poiché implica il pieno riconoscimento degli inconsistenti diritti liberaldemocratici, la richiesta del loro ingresso nelle fabbriche e nelle entità produttive di ogni ordine e grado, e quindi l’accettazione acritica di quel sistema davanti al quale ci si prostra. Tutto è stato inventato a livello contrattuale per intensificare e diversificare la precarizzazione dei lavoratori, fin dal loro ingresso nel mondo del lavoro. Accanto ad una precarietà occupazionale, che riguarda la limitazione del tempo di lavoro per contratto secondo le esigenze della parte imprenditoriale più forte, c’è una precarietà prestazionale che investe le mansioni espletate anche nel tempo indeterminato. I contratti atipici sono stati diversificati al massimo, dai co.co.pro. alla somministrazione e al lavoro accessorio, prevedendone per legge una cinquantina, o quasi, molti dei quali abbondantemente praticati. Ci sono voluti un paio di decenni, dall’inizio processo d’incubazione della flessibilità a oggi, per ribaltare una situazione che dagli anni sessanta del novecento è stata di crescita dei diritti dei lavoratori e di stabilizzazione generalizzata, con picchi di tutela come la legge 300/70 eretta a Statuto dei Lavoratori. La struttura del mercato del lavoro è stata investita in pieno, nello sviluppo di questo processo regressivo, al punto che le esigenze riproduttive di un capitalismo qualitativamente diverso dal precedente hanno favorito la differenziazione di tre grandi mercati paralleli: quello del lavoro stabile, indeterminato e tutelato, che ha avuto i suoi capisaldi nella grande industria e nell’impiego pubblico oggi sotto attacco euromontiano, quello del lavoro flessibile e precario per anni in costante crescita e ormai metabolizzato, e quello del lavoro nero, che presenta il massimo possibile della flessibilità occupazionale, prestazionale e una piena libertà di licenziamento. 

La precarizzazione del lavoro, fin dal suo innesco, ha favorito e accelerato la trasformazione sociale imposta dal nuovo ordine neocapitalistico, dando un contributo di rilievo alla trasformazione antropologica e culturale dell’uomo da produttore/ consumatore stabilizzato, con una certa internità al sistema, a precario/ escluso dimentico dei diritti del passato. Per tali motivi, e per la rilevanza dei cambiamenti imposti al lavoro, destinati a sconfinare in tutti gli altri ambiti della vita umana, questo processo è all’origine della costruzione sociale dell’uomo precario. Così, quello che è stato definito lavoro non standard, come se avesse dovuto rappresentare un’eccezione alla regola, principalmente per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, tende a diventare sempre di più la regola stessa, assorbendo la maggioranza delle nuove assunzioni in tantissimi settori. La precarietà rappresenta, nello stesso tempo, un destino individuale gramo e uno status sociale degradato che sarà condiviso, in futuro, da intere generazioni. L’alternativa alla precarietà sarà sempre di più, nei prossimi anni, l’esclusione, che significherà emarginazione, povertà, inutilità, la perdita irreparabile di relazioni sociali e affettive e, in un certo senso, la morte. A questo punto, può essere utile presentare qualche dato, in relazione all’occupazione, alla precarietà e alla disoccupazione, ragionando brevemente sui dati stessi. Facciamo un raffronto fra le stime Istat del 2007 e i dati della recente trimestrale, sempre dell’Istat, in merito al lavoro temporaneo, per capire qual è la tendenza per il lavoro flessibilizzato in periodi di significativa e crescente disoccupazione. Se nel 2007 i lavoratori temporanei (compresi occasionali, co.co.co e lavoro a progetto) erano circa 2.759.000, nel terzo trimestre 2012 sono diventati (“collaboratori” compresi) 2.877.000 circa, quindi sono significativamente aumentati a fronte di un dilagare della disoccupazione e dell’inattività. Già nel 2007, quando l’esplosione della cosiddetta crisi globale era nell’aria, si prevedeva che quasi la metà dei precarizzanti non avrebbe potuto contare su un reddito sufficiente per mantenere se stessi e la propria famiglia. Sul fronte del lavoro part time, nel terzo trimestre dell’anno in corso, secondo l’Istat vi sono ben 3.847.000 lavoratori. Si tratta di soggetti che per oltre la metà non riescono a trovare un impiego decente, a tempo pieno. Se teniamo conto che i disoccupati ufficiali sono quasi tre milioni (ultimo dato Istat a ottobre 2012 2.870.000 unità), che vi è oltre un milione e mezzo di non attivi in età lavorativa che nascondono altrettanta disoccupazione (volendo essere prudenti), che le ore di cassa integrazione autorizzate, a settembre di quest’anno, sono cresciute in totale fino a 86 milioni, sommando Cigo, Cigs e Cassa in deroga, abbiamo il polso della disastrosa situazione del lavoro in Italia. Se gli occupati, a ottobre 2012, secondo l’Istat erano circa 22.930.000, nel secondo trimestre dello stesso anno raggiungevano quota 23.046.000, e quindi in pochi mesi c’è stato un decremento di 116.000 unità, con una perdita valutabile a circa un mezzo punto percentuale. Sommando ai disoccupati gli inattivi che nascondono altrettanta disoccupazione, tenendo conto degli occupati a tempo determinato, del part time e dei lavoratori in cassa integrazione, si sfonda abbondantemente il tetto dei 10 milioni di unità. Precarietà, sotto-occupazione e disoccupazione la fanno sempre più da padroni, in Italia. Se il tempo determinato, compresi i “collaboratori”-falsi autonomi, il part time e la disoccupazione sono in costante aumento, si riduce progressivamente l’area che corrisponde al mercato del lavoro “tradizionale”, a tempo indeterminato e pieno, in cui vi è ancor oggi – ma non sappiamo per quanto tempo ancora – la maggioranza dei lavoratori occupati. La situazione dei cassaintegrati, infine, è diversa dalle precedenti. La cassaintegrazione può corrispondere a un periodo trascorso in purgatorio, sottopagati o addirittura a zero ore, se alla fine si rientra in fabbrica o in ufficio mantenendo il contratto a tempo pieno e indeterminato, oppure può rappresentare l’anticamera per la precarietà e/o la disoccupazione di lungo periodo. 
 
Morale della favola, questo è l’esito concreto, più tangibile, dell’inesistente “Cresci Italia” di Monti, che avrebbe dovuto far seguito al rigorismo estremo, fondato su tagli alla spesa sociale e sulle tasse, degli interventi governativi “Salva Italia”. Ma come abbiamo appreso di recente, proprio per bocca del presidente del consiglio intervistato dagli arabi, è niente di meno che l’austerità ad essere la ripresa, e così le due cose si compenetrano e si sovrappongono, confondendo le idee. Sempre di più, con l’avanzare del lavoro a termine, del part time e della disoccupazione effettiva (quella ufficiale sommata agli inattivi scoraggiati) ci appare chiaro che l’alternativa futura, per i lavoratori, sarà fra la precarietà e l’esclusione, o meglio, in ultima analisi, fra la precarietà e la morte, se l’esclusione rappresenta una forma di morte sociale.

martedì 20 novembre 2012

La Guerra sociale della classe globale 

 

di Eugenio Orso

Presento oggi un saggio sulla Guerra Sociale in corso, diviso in tre capitoletti, del quale metto a disposizione il pdf completo e riproduco, di seguito, il testo integrale.

La Guerra Sociale in atto
Dovrebbe essere evidente alla gran maggioranza dei lavoratori dipendenti del pubblico e del privato che in Italia siamo entrati nella fase finale dell’Attacco Neoliberista al Lavoro. Dopo il “modello” di relazioni industriali di Sergio Marchionne, pensato per scardinare il sistema della contrattazione nazionale e bypassare lo statuto dei lavoratori nell’industria, dopo la parentesi relativamente “soft” di Maurizio Sacconi (Libro bianco, o verde, contro i lavoratori) e Renato Brunetta (tornelli di controllo per il pubblico impiego), ministri nel precedente governo, l’affondo finale contro i lavoratori è stato affidato, dalle Aristocrazie finanziarie, al direttorio di Monti che Lor Signori hanno insediato in Italia. Ciò che non hanno capito, tutti quelli che nell’autunno 2011 hanno festeggiato, in piazza, l’estromissione di Berlusconi e l’avvento di Monti, è che ora si fa sul serio, quanto a Lavoro, pensioni, salari e diritti. Men che meno hanno compreso che siamo in guerra, che lo scontro è ineguale, a “senso unico” e questa volta non si fanno prigionieri. Monti e Fornero hanno potuto andar oltre Berlusconi, Sacconi e Brunetta, grazie all’appoggio, palese od occulto, dei sindacati ascari e della sinistra ammaestrata, realizzando qualche obiettivo importante (riduzione delle pensioni, scardinamento dell’art. 18, compressione del pubblico impiego). L’ultima novità, in ordine di tempo, sono gli interventi pianificati, da concordare con le solite “parti sociali” condiscendenti, per gli esuberi nella pubblica amministrazione centrale dello stato, e quindi per favorire una drastica riduzione, nel tempo, degli organici e degli occupati. Dopo il settore privato tocca al pubblico, e dopo la precarizzazione del Lavoro si passa ad aggredire una volta e per tutte l’impiego stabile, anche in quelli che furono i suoi più inattaccabili “santuari”. Decisa con la “spending review” di Monti e Bondi una riduzione generalizzata della spesa pubblica attraverso tagli lineari, con la scusa del suo contenimento a parità di servizi (cosa che è praticamente impossibile), si sono create formalmente le premesse per ridimensionare l’occupazione nel settore pubblico. Negli anni precedenti, la lunga fase preparatoria ha comportato l’avvio di una campagna mediatica e propagandistica, addirittura diffamatoria, contro i lavoratori dell’amministrazione pubblica centrale e locale, descritti sparando nel mucchio come dei pesi morti e degli autentici “fannulloni”. I Nullafacenti, pessimo elaborato del professor Pietro Ichino, sinistroide ex comunista vendutosi al liberismo, ha avuto una grande eco (mediatica) e ne è una prova evidente. Lo stesso ex socialista berlusconiano Renato Brunetta si è dato da fare, contro i lavoratori, scrivendo e pubblicando La fine della società dei salariati (comparso nel 1994). Alla criminalizzazione dei dipendenti statali hanno contribuito giornali, televisioni, economisti ed esponenti politici, preparando il terreno per i futuri interventi nel settore. La riduzione delle dimensioni occupazionali del pubblico impiego procederà a braccetto con la compressione delle dimensioni economiche dello stato sociale. E’ ovvio che si tratterà di una riduzione secca di posti di lavoro, per altro ammessa senza falsi pudori da molti “organi d'informazione” sistemici. L’obiettivo potrebbe essere quello di sopprimere mezzo milione di posti nel pubblico, di qui al 2014 o al 2015. Nelle condizioni attuali, destinate ad aggravarsi il prossimo anno e gli anni successivi, il settore privato non sarà in grado di “creare” nuovi posti di lavoro in alternativa al pubblico, arginando il dilagare della disoccupazione giovanile, che si dichiara furbescamente di voler combattere. Le politiche neoliberiste imposte al paese non mirano a quel risultato (come spesso affermano ministri, politici, economisti e giornalisti per nascondere la realtà), cioè alla sostituzione dei posti di lavoro pubblici, e impieghi in aziende decotte, con nuova occupazione nel privato in quadro di “competitività sul mercato globale”, sostenendo e incrementando in tal modo l’occupazione complessiva, ma rivelano scopi esattamente opposti. Per molto tempo l’apparato ideologico-massmediatico e accademico ha diffuso allarmismi (in sé giustificati) sui livelli di disoccupazione nel paese e sulla caduta degli indici di produzione nazionali, imputandoli all’inevitabile, ossia vendendoli come una conseguenza “naturale”, addirittura destinale, di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari chiamata globalizzazione e pilotata autoritariamente dall’alto. E’ ormai ovvio che hanno mentito sapendo di mentire, per non far comprendere alla classe dominata quali sono i reali scopi del “libero mercato” e qual è la sua vera natura. Non ci sono destini inevitabili in atto e non c’è un orizzonte futuro di democrazia globale e di crescita a vantaggio dei popoli, raggiungibile soltanto se si entra nelle logiche globaliste operando le dovute “riforme” e favorendo le necessarie “liberalizzazioni”. Al contrario, sono state proprio le politiche neoliberiste, le controriforme, le privatizzazioni e le liberalizzazioni finora applicate a portarci fino a questo punto, con il rischio di scivolare sempre più in basso. Hanno mentito anche sul ruolo internazionale dell’Italia, perché la “crescita” non arriverà mai, soprattutto continuando con le politiche neoliberiste, e al paese, nei contesti della sedicente economia globale, è riservato fin d’ora un ruolo di secondo o terzo piano, fino alla sua irrilevanza più completa. Perciò, com’è addirittura banale da comprendere (tanto più, con il senno di poi), tutte le vecchie litanie riflesse dai media e recitate dai politici liberaldemocratici, come il “ce lo chiede l’Europa!”, o i discorsetti propagandistici in difesa dell’euro, celavano la volontà della classe dominante di applicare ovunque, a qualsiasi prezzo per le popolazioni, i precetti e gli schemi dell’economia neoliberista. Giacché l’imbroglio ha funzionato e ha dato ottimi frutti, tutto ciò continuerà, anche se pochi collaborazionisti politici e giornalistici, oggi, si azzardano a ricorrere all’ormai trito e ritrito “ce lo chiede l’Europa” come ad una formula magica. I tassi d'impopolarità raggiunti dall’unione europide, dall’euro e dalla politica di matrice liberaldemocratica, in Italia e altrove, non costituiranno però un vero ostacolo all’applicazione concreta di tali politiche, che potrà proseguire fino alle estreme conseguenze, raggiungendo un punto di non ritorno. Ciò sarà possibile in assenza di segnali consistenti di una diffusa e destabilizzante reazione popolare. In altri termini, per ora il Nemico di Classe e di civiltà sta camminando sul velluto e spera di poterlo fare anche nei prossimi anni. Questo drammatico discorso non riguarda soltanto l’Italia, o la Grecia, ma è destinato ad assumere sempre di più una dimensione europea, fino a investire paesi come la Francia e la stessa Germania, complice nello “sfruttamento” dei popoli d’Europa più esposti alla pressione del debito e alla minaccia dello spread. Fin tanto che non vi sarà una vera opposizione, fuori dai castranti schemi liberaldemocratici, fin tanto che vi saranno soltanto “utili idioti” indignados (già morenti), sindacati gialli che di tanto in tanto sbraitano a vuoto per imbonire i lavoratori, simpatici grillini in ascesa che aspirano al parlamento liberale, vecchi comunisti in discesa fermi alla seconda o alla terza internazionale, o peggio, i dannosi esaltati di alba dorata che aggrediscono immigrati, gay e barboni come se fossero i veri responsabili dei disastri sociali, la stabilità del sistema di potere in essere e gli interessi sovrani della classe dominante non correranno alcun reale pericolo. Tanto più che si vieta tassativamente ai governi sottomessi di interferire con le dinamiche finanziarie, e di spostare i carichi fiscali dal Lavoro alla finanza, colpendo in modo efficace le rendite e la creazione del valore azionario, finanziario e borsistico. L’ultimo esproprio in un ordine storico, quello attuale neocapitalistico, è rivolto principalmente contro il Lavoro, i ceti medi morenti e in generale le vecchie classi subalterne in via di dissoluzione, e questo proprio nell’occidente “sviluppato”, che fu il cuore di una limitata ma significativa promozione sociale. Appropriarsi il patrimonio pubblico, sottomettendo definitivamente gli stati, è una prassi neocapitalistica che procede con la “globalizzazione dei mercati” e la compressione del Lavoro. Si presti la dovuta attenzione alla circostanza che le ostilità non sono rivolte soltanto contro la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo – in questo momento sotto bombardamento continuo – ma anche contro il popolo americano, ed in particolare contro l’estesa “middle class” che popola quel paese e che si avvia verso il declino. Nella stessa Germania i redditi popolari, pur ancora alti rispetto ai nostri o a quelli dei greci, da tempo stanno perdendo terreno. Anche in Germania hanno preso piede il lavoro temporaneo e quello precario, e la nazione tedesca è costretta a misurarsi come tutte le altre con l’”economia globale”,  a subire la doppiezza di governi controllati, o almeno influenzati, dal Libero Mercato. Non c’è paese che possa sottrarsi agli attacchi globalisti contro il Lavoro e i Lavoratori. La Guerra Sociale della classe globale combattuta contro di noi, negli ultimi decenni, fa tornare alla mente il lungo assedio di Sarajevo, in cui gli assedianti sparavano dalle creste dei monti contro una popolazione quasi completamente inerme, beneficiando della loro posizione strategica e del monopolio delle artiglierie.


La Guerra Sociale, le prospettive e il Lavoro
Nei prossimi mesi, anche se si verificheranno disordini, con un accenno di reazione più consistente ed estesa delle masse-pauper, non dobbiamo aspettarci che le Aristocrazie finanziarie, i loro sub-dominanti e i loro collaborazionisti locali allentino la presa, fino a togliere l’assedio, proprio ora che siamo entrati nella fase finale dell’Attacco al Lavoro. Prioritaria, per la classe dominante, è la completa vittoria nella Guerra Sociale “a senso unico”, per giungere rapidamente alla soluzione finale del problema dei lavoratori e dei loro diritti. In Italia, esaurita la fase finale di attacco i tre “mercati del lavoro” esistenti, in via di ulteriore trasformazione – lavoro stabile tutelato, lavoro precario flessibilizzato e lavoro nero o informale – si appiattiranno sull’unico modello neoliberista, che implica progressive svalutazioni economiche dei redditi da lavoro e la completa rinuncia ai diritti per lavorare e sopravvivere. Questo è il target globalista, quasi raggiunto in Grecia e facilmente raggiungibile in Italia. Leggendo distrattamente in rete negli ultimi giorni, ho appreso che i capi di stato maggiore delle armi greche, al netto di eventuali indennità, percepiranno uno stipendio netto mensile inferiore a quello di un comune impiegato tedesco! Meno di duemila euro per il capo di una delle tre armi e poco più di duemila per il capo di stato maggiore delle tre armi. Naturalmente per loro ci saranno le indennità, a rimpinguare la paga, ma la cosa è oltremodo significativa. Non parliamo poi del lavoro intellettuale, degli stessi professori universitari, e per quanto riguarda la massa anonima dei lavoratori greci ancora occupati, cinque o seicento euro mensili potranno bastare e avanzare. Evidente, in questo, una rapida “cinesizzazione” del fattore lavoro destinata a estendersi al resto dell’Europa occidentale. C’è da credere che si arriverà a una tale situazione anche in Italia, dopo la Grecia, e non ci vorranno di certo decenni per raggiungere il punto di non ritorno. Ecco un risultato importante, atteso dai dominanti globali in occidente e parzialmente conseguito, che testimonia l’approssimarsi della vittoria sui dominati nella Guerra Sociale scatenata dai neoaristocratici. Per quanto riguarda specificamente il Lavoro, in Italia vi sono state tre fasi di attacco, limitandoci al periodo che va dai primi novanta a oggi: (a) l’introduzione dei contratti di precarietà per flessibilizzare il fattore e abbatterne il costo aggirando la legge 300, (b) i tentativi (in buona parte di riusciti) di bypassare lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e neutralizzare l’art.18 anti-licenziamenti dello stesso, nel settore privato, onde flessibilizzare il lavoro stabile a tempo indeterminato, e attualmente (c) le ostilità rivolte contro i lavoratori pubblici, per demolire gli ultimi “templi” della stabilità lavorativa e comprimere la spesa dello stato. Libertà di licenziamento, contrattazione individuale (a scapito del più debole, cioè del lavoratore), applicazione generalizzata dei contratti a termine e della precarietà sono altrettante parole d’ordine neoliberiste per “mettere sotto” definitivamente i lavoratori, spostando risorse in quantità crescente dal Lavoro al Capitale Finanziario. Per sconfiggere il Lavoro e annichilire la socialità, non è stato però sufficiente procedere a colpi di controriforme dirette contro i lavoratori. Si è reso necessario aggredire la sovranità nazionale, politica e monetaria, degli stati trasferendo altrove le decisioni strategiche in termini di politica monetaria, economica e sociale, perché la precondizione necessaria per la realizzazione della giustizia sociale, per il sostegno all’occupazione e ai redditi popolari, per la stessa emancipazione di massa (che teoricamente dovrebbe supportare e rendere possibile la democrazia) risiede proprio nella piena sovranità degli organismi statuali. In senso anti sovranista ha agito l’”europa dell’unione” che nei primi novanta ha sostituito la comunità europea, attraverso la moneta unica, le sue istituzioni, i trattati e la banca centrale privata. Una concezione sovranista positiva, nei termini prima descritti, non ha a niente che vedere con l’ideologia nazionalista otto-novecentesca, o con la volontà di potenza imperialistica, ma si armonizza con la socialità e con la volontà di emancipazione del Lavoro e delle masse. E’ proprio contro questi valori e questi principi che è stata diretta l’azione ventennale dell’unione europide in mani globaliste. Nei piani elaborati per il pieno successo nella Guerra Sociale in atto, è previsto l’”accanimento terapeutico” nei confronti dei paesi dell’Europa meridionale e mediterranea in difesa dell’euro. Anzi, l’”accanimento terapeutico”, che a prima vista, superficialmente, può sembrare insensato, crudelmente inutile, frutto di un cumulo di errori pregressi che non si vogliono ammettere e correggere (compiuti fin dalla nascita della moneta unica), fa parte a pieno titolo delle dinamiche neocapitalistiche dell’epoca, e perciò non è un errore, ma una necessità riproduttiva, un’arma utilizzata per piegare definitivamente il Lavoro e le entità statali. Lo stesso euro, moneta straniera sotto controllo privato che ci imprigiona in una “camicia di forza”, non è un errore da correggere, una “svista” clamorosa alla quale si può rimediare rivedendo e implementando poteri e funzioni della BCE, ma è uno strumento di dominazione elitistica che funziona a dovere, raggiungendo gli scopi assegnati. E’ proprio la “terapia” imposta a paesi come la Grecia, la Spagna e l’Italia a favorire l’esproprio di risorse neocapitalistico, la colonizzazione degli stati e la riduzione a un’impotenza sottopagata del fattore-lavoro. Tornando alla metafora del lungo e sanguinoso assedio di Sarajevo, l’”accanimento terapeutico” in difesa dell’euro può essere ben simboleggiato da una batteria di obici che spara da lontano, su un nemico ridotto all’impotenza, senza subire il fuoco di controbatteria.

Aspetti non economici della Guerra Sociale
La stessa idea del Conflitto Sociale, della Lotta di Classe in termini marxisti e marxiani, e quindi delle possibili alternative al sistema, è stata accuratamente distrutta disarticolando le vecchie classi dominate per romperne la compattezza, passivizzarle e favorire la nascita di un nuovo ordine “compatibile” con il neocapitalismo. La conclamata morte dell’idea del Conflitto fra i membri delle classi subalterne disarticolate favorisce le Aristocrazie finanziarie dominanti nella Guerra Sociale neocapitalistica, inibendo le reazioni delle vittime e avvicinando a grandi passi il momento della vittoria finale. Possiamo concludere che la Guerra Sociale oligarchica del presente – ineguale confronto fra un’Acropoli trionfante e un’Agorà ridotta all’impotenza – non ha soltanto scopi economici, che si sostanziano in un assoluto prevalere, nella distribuzione del prodotto, del Capitale Finanziario sul Lavoro, ma consente ai dominanti di raggiungere importanti obiettivi di diversa natura, primo fra tutti l’affermarsi, in tempi brevi, di un nuovo ordine sociale compatibile con le dinamiche neocapitalistiche e la superiorità, su tutto il resto (politica compresa), dei Mercati e degli Investitori. Si è scritto, nel recente passato, che gli obiettivi di politiche come quelle montiane non sono solo ragionieristico-economici, ma anche antropologici, per una trasformazione dell’uomo che le subisce in individuo adatto a vivere il presente e il futuro, nella permanente instabilità generata dall’affermazione del Nuovo Capitalismo. Così la pensa il filosofo Costanzo Preve, e così la pensa anche il sottoscritto. Trattasi di una grande verità, e in effetti, dal punto di vista della riproduzione sistemica complessiva e degli interessi sovrani che questa nasconde, è la manipolazione culturale e antropologica dei dominati a rendere possibili gli espropri oligarchici senza provocare tensioni sociali “distruttive” e insostenibili. Si potrebbe persino affermare, con cinica ironia, che sono proprio la manipolazione antropologica e la distruzione accelerata del vecchio ordine sociale (e di riflesso delle classi dominate novecentesche) a favorire la “sostenibilità” complessiva del modello neocapitalistico. La svalutazione economica del Lavoro, inoltre, ha richiesto una parallela svalutazione culturale dello stesso, che ha reso possibile e addirittura “accettabile”, da parte di chi la subisce, la progressiva riduzione del potere d’acquisto di salari e stipendi verificatasi negli ultimi due o tre decenni. Ma la Guerra Sociale ci rivela anche un altro importante scopo non economico: quello di “temprare” i membri della classe neodominante, per renderli adatti ad affrontare con la dovuta durezza minacce provenienti dal fondo della piramide sociale, nonché i pericoli esterni rappresentati da entità statali non ancora sottomesse o da residuali formazioni di resistenti. In questo ordine d’idee rientra la stessa guerra infinita al terrore (ancora in corso, nonostante il “soft power” obamiano), proclamata dopo l’11 settembre 2001 da G. W. Bush e dalle oligarchie finanziarie che lo manovravano. E’ con la guerra infinita al terrore di Bush junior e dei neocon che la guerra tradizionale esterna (Afghanistan, Iraq), nell’intero occidente si è affiancata minacciosamente al Conflitto Sociale interno, integrandolo in difesa del neocapitalismo. Uno stato di guerra permanente e la “mobilitazione” dei dominanti in difesa del modo storico di produzione prevalente, infine, contribuisce a dissolvere le dimensioni culturali pregresse della vecchia borghesia spodestata, in guisa tale che i membri della nuova classe “alta” non possano maturare alcuno spirito critico nei confronti del Nuovo Capitalismo – come accadde a molti borghesi, almeno fino alla svolta del Sessantotto, nei confronti di “quel” capitalismo – e quindi pregiudicare dall’interno la stabilità del sistema. In seno alla Global class è arduo immaginare che possa nascere, oggi, un Marx, o anche soltanto un Keynes. Inutile descrivere in questa sede i numerosi strumenti di dominazione non economici, non monetari e non finanziari impiegati contro le masse dai dominanti nel corso della Guerra Sociale (politicamente corretto, pacifismo strumentale e “fede” liberaldemocratica, frammentazione territoriale e categoriale delle lotte, divide et impera sociale mettendo i gruppi di lavoratori l’uno contro l’altro, eccetera), perché l’ho già fatto in molte altre occasioni, in diversi articoli, post e saggi rintracciabili in rete. E’ però chiaro che le armi a disposizione del nostro Nemico di Classe in questa guerra, manovrate sapientemente dai suoi mercenari e dai collaborazionisti locali, sono numerose ed efficaci, e soprattutto che gli scopi perseguiti nel conflitto non sono esclusivamente economici. Perciò, chi pensa di poter contrastare il nemico globalista soltanto sul terreno dell’economia – ad esempio rievocando la riforma capitalistica keynesiana attraverso la Modern Money Theory, restituendo così una “funzione propulsiva” ai deficit del bilancio statale e alla spesa pubblica – pur essendo in assoluta buona fede ed essendo lodevoli le sue intenzioni (far conoscere l’economia al popolo come necessaria “presa di coscienza” della situazione), sbaglia nell’analisi e nella prospettiva. In questo caso, si crede possibile il ritorno a un passato economico sepolto, che avrebbe appoggi politici inesistenti, resuscitando così com’erano formazioni sociali novecentesche e modelli di capitalismo ormai defunti. Parimenti, chi crede che l’unico e il solo motivo per cui le masse e il Lavoro sono stati costretti in un angolo è la caduta del saggio medio di profitto capitalistico, ben visibile fra gli anni sessanta e ottanta del novecento, cade in errore offrendo una visione soltanto parziale del problema. Vi è ancora l’eco delle teorie del crollo novecentesche (il saggio di profitto in declino sarà la pietra tombale del capitalismo) e una visione del sistema che si limita ai meri aspetti macroeconomici. Ancor peggio, chi crede nella possibilità di una “riforma neocapitalistica” senza pregiudicare la struttura in essere, ma mettendo semplicemente sotto controllo la finanza per ridare un po’ di ossigeno (cioè di risorse) al Lavoro e al sociale, se non è un imbroglione politico, sindacale o accademico in aperta mala fede, muove da una prospettiva completamente sbagliata, perché il sistema è “irriformabile” per ragioni strutturali, e la creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, progressivamente accelerata, è una sua colonna portante irrinunciabile. Se l’economia politica timidamente critica, interna al sistema, non è certo una rarità (pensiamo a celebri premi nobel “liberal” come Paul Krugman), ciò che manca è una Nuova Critica complessiva, articolata su molti piani, dell’Economia Politica Neoliberista – sulla scorta della Critica dell’Economia Politica operata a suo tempo da Karl Marx, nei confronti del primo capitalismo industriale, dall’alienazione umana nei rapporti di produzione alla teoria del valore – ed è questa, soltanto questa, che potrebbe costituire un’arma nelle mani dei pochi resistenti, alimentando una futura ideologia di legittimazione rivoluzionaria. Mentre impazza la Guerra Sociale senza quartiere voluta dalle Aristocrazie dominanti, una cosa che non dobbiamo fare è cadere nella “trappola economicista”, cercando disperatamente di muoverci su un unico terreno, quello economico, un campo minato in cui la superiorità nemica è ormai incontrastata. Fuor di metafora e di teoria, ci sono altri terreni sui quali potrà svilupparsi concretamente, con qualche efficacia, la controffensiva, e ci sono i punti deboli del sistema di potere nemico che già oggi possiamo osservare con sufficiente chiarezza. La vulnerabilità, ad esempio, dei sub-dominanti politici locali, più facilmente e produttivamente attaccabili, più raggiungibili nell’immediato, nonché protetti da difese più deboli di quelle riservate alle Aristocrazie finanziarie. La prima linea del fronte di conflitto, quella per noi perfettamente visibile, è rappresentata proprio da loro, assieme ad altri sub-dominanti e collaborazionisti locali (sindacalisti gialli, accademici prezzolati, banchieri indigeni, alti industriali, opinionisti dei giornali, anchormen televisivi, economisti, politologi e sociologi “di grido”, eccetera, eccetera). Saranno costoro a subire, un giorno, il primo, furibondo contrattacco, quando si inizierà a fare il vuoto intorno ai dominanti globali, per cercare di interrompere i flussi della globalizzazione neoliberista e incidere sulla riproduzione sistemica. Su questo posso ancora nutrire qualche speranza. Chi vuol capire capisca … di più non posso scrivere. 


 http://pauperclass.myblog.it/archive/2012/11/19/la-guerra-sociale-della-classe-globale-di-eugenio-orso.html

martedì 9 ottobre 2012

PER UN NUOVO MOVIMENTO ANTICAPITALISTA





Costruire le Consulte Popolari


di Francesco Salistrari*


«Il riformismo, come movimento filosofico, politico e culturale, ha esaurito la sua funzione storica. Il fatto che la sinistra mondiale, in quanto espressione culturale e politica generale, abbia completamente abbandonato la propria prerogativa anticapitalista per “approdare” a posizioni uniformemente e sostanzialmente liberal-liberiste, dopo la caduta del cosiddetto “socialismo reale”, rappresenta una delle ragioni principali e fondamentali della deriva che il mondo oggi sta vivendo. La messa al bando, da parte di quasi tutte le formazioni politiche del mondo, di un progetto e di un programma anticapitalistico, se ha rappresentato per molti aspetti un qualche vantaggio nel rimuovere l’egemonia che di questa prerogativa ideologica avevano usufruito e abusato le formazioni degenerate del socialismo reale, dall’altra parte sono stati derubricati dall’agenda politica di tutte le formazioni, un’analisi e una proposta di soluzioni alternative per la costruzione di un modello sociale ed economico sostanzialmente diverso da quello capitalista.

Il fatto che dopo il crollo del socialismo reale, tutti i partiti comunisti si sono dissolti insieme al “monolite” sovietico o hanno cambiato pelle riciclandosi nell’agone elettorale (soprattutto in occidente), non ha comunque esentato le formazioni politiche e sociali che si presuppongono un miglioramento delle condizioni di vita nel mondo, dal proporre un modello ed un progetto di alternativa al capitalismo. Il venir meno del comunismo come base teorica e politica per un modello alternativo di società e di economia, non ha significato altresì il venir meno anche della necessità di un progetto di cambiamento delle basi socio-economiche del sistema vigente e questo per ragioni che non hanno nulla a che fare con le idee, ma molto con la prassi e la vita degli uomini, la sostenibilità ambientale del sistema, la sua tenuta dal versante energetico.

Il Sud America è vero, sperimenta situazioni diverse e potrebbe rappresentare un esempio su molte questioni, ma nè l'Argentina nè il Brasile, per fare due esempi, possono dirsi paesi non capitalisti. Il welfare e il keynesianesimo che praticano e predicano NON è anticapitalismo, ma forme di sviluppo sociale che in Europa e nel resto del mondo occidentale sono già state attuate e superate dal neoliberismo dominante. Il problema è che alla lunga anche i paesi del Sud America dovranno fare i conti con la caduta della domanda aggregata mondiale, con la recessione e con la crisi economica, che riproporranno in maniera violenta le dinamiche più cruente della lotta di classe.

Bisogna rendersi conto che è necessario creare i presupposti per un'elaborazione cosciente di modelli nuovi di produzione e distribuzione, utili a creare le condizioni che favoriscano l'unità dei popoli intorno a tali progetti. Abdicare a questo compito che la storia impone, vuol dire arrendersi al "modello unico dominante", al dogma del mercato e dei suoi strumenti e iniquità sistemiche, alla schiavitù perpetua della maggioranza a favore di una esigua minoranza di potenti che governano il pianeta, che detengono il controllo dell'energia, della produzione alimentare, degli apparati militari e industriali, il comparto farmaceutico, l'accesso alle risorse (acqua, petrolio, gas naturale, materie prime).

E' questo il punto NODALE che va compreso! La politica compromissoria di partiti, movimenti e organizzazioni sociali che dovrebbero porsi come catalizzatrici di un nuovo progetto politico, con tutte quelle forze reazionarie e liberiste (esemplificate dall'esempio italiano del PD) sarà l'ulteriore pietra tombale sulle aspirazioni sociali a venire a galla, a diventare proposta politica ed il cambiamento sarà una chimera inseguita piegando il capo alle imposizioni e ai diktat di un potere sempre meno democratico e sempre più dispotico.
In questo contesto, la politica attuale (dal 1989 ad oggi) della sinistra mondiale diventa, consapevolmente o inconsapevolmente, un potente aiuto alla vittoria definitiva di quella Neoaristocrazia che governerà il pianeta per il prossimo secolo.

I pericoli insiti in questa nuova conformazione sociale che sta emergendo, sono immani. E le convulsioni di questa crisi sono essenzialmente determinati dalle forze vive in campo che spingono verso l'affermazione definitiva di questa nuova conformazione sociale che vede, indubbiamente, nella democrazia in quanto tale solo un ostacolo e un impedimento.
La compressione degli spazi democratici e lo spostamento dei centri decisionali di rappresentanza democratica verso nuove istituzioni oligarchico-tecnocratiche, sono un aspetto non marginale delle dinamiche in corso e si collegano strettamente alla questione delle sovranità nazionali. L'erosione della base democratica dei vari contesti nazionali, diventa strumentale al funzionamento dei meccanismi economici e finanziari, alla gestione e allocazione delle risorse, alla circolazione e accumulazione monetaria (capitali). La messa in discussione della modellistica dello Stato Nazione, assume così un aspetto inquietante.
La costruzione economica Europea, sotto il vessillo della moneta unica, ne è l'esempio più lampante. Ma tali dinamiche si affermano su scala globale attraverso tutta una serie di organismi sovranazionali il cui potere decisionale (non democratico) negli ultimi decenni si è enormemente accresciuto. Parlo dell'FMI, del WTO, del OMS, dell'ONU, delle Banche, delle Corporations, ognuno nei propri ambiti di intervento.

E' per questo che la discussione intorno alla conquista democratica della sovranità nazionale da parte dei popoli, particolarmente in quei contesti dove la questione appare più urgente e gigantesca (paesi della cintura mediterranea, Medio Oriente, Sud America, Russia, Cina, Africa Centrosettentrionale, Sud Est Asiatico), diventa il punto iniziale dal quale procedere al fine di favorire la formazione di un movimento internazionale (e internazionalista) capace di mettere al centro l'essere umano e la dignità umana, proponendo soluzioni alla questione sociale e democratica, ambientale, dei diritti sociali.
E' in questo contesto che i termini della questione sono totalmente mutati rispetto al passato, anche recente. Oggi la nazione, la sovranità nazionale, si pongono nei confronti dei processi economici, politici e sociali in atto, come una difesa, come un baluardo, nei confini del quale proteggere tutta una serie di interessi sociali, di diritti e di tutele, che vengono pesantemente ridimensionati e messi in discussione.

E' dunque a partire da una battaglia democratica nei vari contesti nazionali che si costruisce il cambiamento più generale del sistema socio-economico che veda la reimpostazione dei criteri con i quali si affrontano la questione ambientale, i problemi economici; gli obiettivi produttivi e di consumo; l'accesso alla e la redistribuzione della ricchezza; la stratificazione sociale; la divisione mondiale del lavoro.
Bisogna pertanto partire dall'esistente e costruire aggregazione sociale intorno a tutte quelle realtà associative, ai movimenti, ai partiti, alla società civile nel suo complesso, che si pongono come obiettivo principale il cambiamento.

E' dunque necessario creare unione intorno ad alcuni punti fondamentali e che si esca fuori dagli schemi classici della rappresentanza propriamente partitica. E' chiaro che non si possono inventare forme nuove di aggregazione dal nulla, così come per esempio nel caso italiano, ha fatto il Movimento 5 Stelle e che da questo punto di vista pagherà scotto in un prossimo futuro. Alcuni principi di organizzazione, figli della “tradizione” partitica vanno comunque salvati, ma è necessaria una elaborazione collettiva innovativa.
Infatti, intorno ad un nucleo valoriale e di idee fondamentali, è possibile creare attraverso l'attivismo sociale una “rete” tra tutte le associazioni e i movimenti emergenti (o già esistenti e pienamente radicati) in modo tale da favorire la nascita di embrioni territoriali (“Consulte Popolari”) che ad ogni livello elaborino e discutano l'azione politica. Queste unità territoriali, legate tra di loro in tutte le forme possibili, potrebbero contribuire alla nascita di un movimento nazionale con un programma centrale, una struttura democratica definita, un radicamento sociale che rappresenti gli interessi primari della maggioranza delle popolazioni di tutti i contesti nazionali.

L'indizione di quelle che potrebbero essere definite “Assemblee Costituenti” che vadano in questa direzione, appaiono oggi, più che mai irrinunciabili.

E' da qui che si parte per creare i presupposti di un vero cambiamento radicale delle forme di convivenza su questo pianeta. Un cambiamento che presuppone la messa al bando di divisioni razziali, religiose, ideologiche e sociali artificiali, artificiose e controproducenti.
Aldilà di qualsiasi schema culturale, appare evidente che dinnanzi alle sfide che l'umanità ha oggi di fronte, sia urgente mettere al centro della discussione e dell'azione politica cosciente della società nel suo complesso, i bisogni e le esigenze dell'uomo, attraverso la condivisione di una serie di valori universali incontestabili che faccia perno sui principi della conservazione, del rispetto, della qualità e della dignità della vita umana».
dell'ONU, delle Banche, delle Corporations, ognuno nei propri ambiti di intervento.

E' per questo che la discussione intorno alla conquista democratica della sovranità nazionale da parte dei popoli, particolarmente in quei contesti dove la questione appare più urgente e gigantesca (paesi della cintura mediterranea, Medio Oriente, Sud America, Russia, Cina, Africa Centrosettentrionale, Sud Est Asiatico), diventa il punto iniziale dal quale procedere al fine di favorire la formazione di un movimento internazionale (e internazionalista) capace di mettere al centro l'essere umano e la dignità umana, proponendo soluzioni alla questione sociale e democratica, ambientale, dei diritti sociali.
E' in questo contesto che i termini della questione sono totalmente mutati rispetto al passato, anche recente. Oggi la nazione, la sovranità nazionale, si pongono nei confronti dei processi economici, politici e sociali in atto, come una difesa, come un baluardo, nei confini del quale proteggere tutta una serie di interessi sociali, di diritti e di tutele, che vengono pesantemente ridimensionati e messi in discussione.

E' dunque a partire da una battaglia democratica nei vari contesti nazionali che si costruisce il cambiamento più generale del sistema socio-economico che veda la reimpostazione dei criteri con i quali si affrontano la questione ambientale, i problemi economici; gli obiettivi produttivi e di consumo; l'accesso alla e la redistribuzione della ricchezza; la stratificazione sociale; la divisione mondiale del lavoro.
Bisogna pertanto partire dall'esistente e costruire aggregazione sociale intorno a tutte quelle realtà associative, ai movimenti, ai partiti, alla società civile nel suo complesso, che si pongono come obiettivo principale il cambiamento.

E' dunque necessario creare unione intorno ad alcuni punti fondamentali e che si esca fuori dagli schemi classici della rappresentanza propriamente partitica. E' chiaro che non si possono inventare forme nuove di aggregazione dal nulla, così come per esempio nel caso italiano, ha fatto il Movimento 5 Stelle e che da questo punto di vista pagherà scotto in un prossimo futuro. Alcuni principi di organizzazione, figli della “tradizione” partitica vanno comunque salvati, ma è necessaria una elaborazione collettiva innovativa.
Infatti, intorno ad un nucleo valoriale e di idee fondamentali, è possibile creare attraverso l'attivismo sociale una “rete” tra tutte le associazioni e i movimenti emergenti (o già esistenti e pienamente radicati) in modo tale da favorire la nascita di embrioni territoriali (“Consulte Popolari”) che ad ogni livello elaborino e discutano l'azione politica. Queste unità territoriali, legate tra di loro in tutte le forme possibili, potrebbero contribuire alla nascita di un movimento nazionale con un programma centrale, una struttura democratica definita, un radicamento sociale che rappresenti gli interessi primari della maggioranza delle popolazioni di tutti i contesti nazionali.

L'indizione di quelle che potrebbero essere definite “Assemblee Costituenti” che vadano in questa direzione, appaiono oggi, più che mai irrinunciabili.

E' da qui che si parte per creare i presupposti di un vero cambiamento radicale delle forme di convivenza su questo pianeta. Un cambiamento che presuppone la messa al bando di divisioni razziali, religiose, ideologiche e sociali artificiali, artificiose e controproducenti.
Aldilà di qualsiasi schema culturale, appare evidente che dinnanzi alle sfide che l'umanità ha oggi di fronte, sia urgente mettere al centro della discussione e dell'azione politica cosciente della società nel suo complesso, i bisogni e le esigenze dell'uomo, attraverso la condivisione di una serie di valori universali incontestabili che faccia perno sui principi della conservazione, del rispetto, della qualità e della dignità della vita umana».

* Fonte: memorandum di uno smemorato

martedì 31 luglio 2012

Dell'inutilità in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale

 

Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve

(Tedeschi) L’avanzare e il perdurare della crisi economica europea, sta progressivamente destrutturando la società. La recessione e i decrementi del Pil hanno determinato la fuoriuscita dalla produzione di rilevanti quote di manodopera dal sistema produttivo. Si allargano a macchia d’olio la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero. Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani è diventato assai difficoltoso. La nostra società diviene sempre più decadente, per il venir meno del ricambio generazionale e la mobilità sociale. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi, della cultura di massa, quali fenomeni scaturiti dall’avvento della globalizzazione, si rivelano miti virtuali, destinati ad essere smentiti dal disfacimento degli equilibri sociali provocato dalla crisi incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del primo decennio del XXI° secolo, dovremmo rilevare che l’avvento della società globalizzata ha avuto solo la funzione di distruggere l’eredità sociale e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo, si sono rivelate elementi di una strategia di ascesa al potere di una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito della masse sempre più escluse dai processi produttivi. L’emarginazione sociale coinvolge interi popoli; esclusione ed emarginazione sono fenomeni conseguenti al tramonto di un sistema economico basato sulla produzione e di una società fondata su equilibri ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriuscita dal mondo del lavoro determina negli individui un senso di inutilità esistenziale, di estraneazione sociale, che conduce alla perdita della autostima di se stessi, ad un non senso della propria individualità, ormai non più compatibile con le prospettive di sviluppo di una società elitaria, basata sulla generalizzata esclusione delle masse non più integrabili nei processi evolutivi della società globalizzata. La coscienza della inutilità è coeva quindi alla defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione umana riflette quindi la struttura fondamentale dei rapporti sociali nella società capitalista. L’individuo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruolo produttivo nel contesto economico, altrimenti la sua vita è condannata alla emarginazione, alla stregua di un prodotto obsoleto e quindi privo di valore economico. La funzione produttiva e il ruolo consumistico sono le sostanziali fonti di riconoscimento nella società capitalista. Dobbiamo allora credere che è il mercato, con i suoi rialzi e ribassi a dare senso alla vita di ognuno. Il lavoro è merce di scambio in un mercato che si evolve in una prospettiva selettiva di progressiva esclusione dei lavoratori dalla produzione, mai di espansione. La disoccupazione diffusa è però un fenomeno che rivela la sottoutilizzazione di risorse umane disponibili. Il paradosso dell’economia liberista è proprio questo: l’attuale capitalismo genera recessione per la propria incapacità di allocazione e razionalizzazione della risorse produttive disponibili.

(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile. Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che 1’ateismo non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosale” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura, perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’unica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridicità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e della sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria. Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”, oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quotidiana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka appare un sobrio epistemologo popperiano. In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapito delle masse sempre più escluse dai processi produttivi. In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantottini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza) che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati” i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli. Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in linguaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di trapasso”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali (non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione, essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto, diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo” o meglio ancora “populismo”, eccetera. In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità” demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record. Il cattolico Formigoni si tuffa da yacths di speculatori milionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sionisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfrontatamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora meglio degli scimpanzè e degli oranghi. E’ infatti assolutamente insensato pensare che una società possa riprodursi sulla base del mercato, con i suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della natura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a prendersela con lo spettro del comunismo, nel frattempo defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peggio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”, agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e tutti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semicolti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di pensosi intellettuali illuministi.  Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

(Tedeschi) Il mercato globale si è affermato attraverso il dominio del mercato finanziario sulla economia produttiva: la crescita economica non è la sua ragion d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale contesto, lo sviluppo produttivo si manifesta nei tempi e nei luoghi determinati dalle strategie della speculazione finanziaria. Quindi esso è di per sé un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui poi fanno riscontro crisi e sottosviluppo non risolvibili secondo i canoni delle dottrine economiche novecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro causa nei cicli economici ricorrenti, ma semmai nelle bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei alle dinamiche della produzione. La globalizzazione ha prodotto insieme ai mercati globali, anche problemi e crisi globali, data l’interconnessione tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La attuale crisi sistemica ha generato decrementi di produzione e di consumo assai rilevanti, decrescita degli investimenti e rarefazione della liquidità. Certo è che la fine del welfare, il lavoro precario, le delocalizzazioni produttive, hanno profondamente inciso sulle capacità di consumo e di risparmio delle masse. Pertanto, nel prossimo futuro sarà di attualità il problema della esistenza di masse non più utilizzabili nella produzione e non più dotate di capacità di consumo. La condizione di inutilità degli individui si va estendendo alle masse globali di lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro di M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui, Koiné Nuove Edizioni 2010”. Infatti, mentre nei secoli passati l’incremento della popolazione era incentivato dai sovrani di stati che necessitavano di soldati, agricoltori e cittadini produttori che pagassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione mondiale, unito alla recessione produttiva e al decremento delle risorse naturali, ha creato una nuova categoria antropologica: quella dei popoli superflui. Superflui perché non integrabili nel sistema economico e bisognosi di mezzi di sostentamento, in tempi di destrutturazione dello stato sociale. Al di là delle ipotesi catastrofiste (per fortuna poco praticabili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie provocate allo scopo di decrementare la popolazione mondiale, altre soluzioni mi sembrano credibili. E’ infatti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussidi minimi di sostentamento per assicurare, assieme alla sopravvivenza materiale delle masse, anche quella del mercato, garantendogli un adeguato livello di consumi. In tale tragico scenario, gran parte dell’umanità vivrebbe in una condizione di dipendenze economico - esistenziale assimilabile alla schiavitù. Ma la situazione descritta sarebbe possibile qualora si prestasse fede al dogma liberista della autoreferenza totalitaria della economia capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizione di perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono incapaci di rivoluzioni, qualora le cause dei fenomeni rivoluzionari fossero solo di ordine economico. Al contrario, i motivi del mancato riconoscimento sociale, e della ribellione verso un ordine costituito perché moralmente ingiusto, sono di ordine politico - sociale, perché nascono dalla volontà comune di partecipazione politica e dalla visione (magari utopica), di una diversa strutturazione della società che sia in grado di sviluppare risorse, onde creare una più equa e diffusa ripartizione della ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia di ispirazione anglosassone è quella di un ordine che non può e non vuole sviluppare risorse, perché il suo scopo ultimo è quello si preservare un sistema finanziario di per sé condannato al fallimento. 



(Preve)Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipotesi, da prendere certamente in considerazione, che questa radicale incapacità trasformatrice (non importa se riformista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo ad una salarializzazione spinta della società, ma proprio al suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale, dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure parassitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli chiede con una punta di malignità se sia ancora “comunista”, Hobsbawn risponde: “Il comunismo non esiste più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se non credo che succederà più. Non so se basta per essere comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà stabilità finchè il capitalismo non si trasformerà in qualcosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La Stampa, 1/7/12). A proposito del fatto che il comunismo non esiste più mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il modello politico-sociale del comunismo storico novecentesco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”) non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni assolutamente endogene (un pò come il regime signorile feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi “socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’intero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il comunismo storico novecentesco è stato l’espressione di una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi sociali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali negli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legittimazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la dicotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato. Il “comunismo ideale eterno”, per usare un termine di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pensava che il comunismo fosse un prodotto processuale immanente allo stesso sviluppo del modo di produzione capitalistico. In termini popperiani, questa legittima e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non riconoscerlo apertamente. L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vicini, in quanto devono maturare delle condizioni globali ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia denominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base della rivendicazione di un profilo commista di estrema sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di costoro, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del sistema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analogia con un periodo storico trascorso. La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitalistica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globalizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”, che possono anche abbattere governi dispotici precedenti, ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel sistema economico internazionale, che agisce in funzione di ricatto permanente. E’ questa impensabilità che fa da sottofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si concretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità stessa fino a quando non saranno finalmente visibili socialmente passi in avanti nella limitazione di questo capitalismo cannibale.

(Tedeschi) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quotidiana, svuotando di senso le nostre certezze. La progressiva espropriazione della vita comunitaria, familiare, intimo - personale, provocata dal dominio del mercatismo, che invade la società e la coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di una condizione esistenziale sempre più instabile e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidiano della recessione economica, della disoccupazione, dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico di una crisi più profonda, che coinvolge totalmente la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere dipendente da un sistema economico e politico in progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazione della situazione politica, il dirigismo burocratico e cinico della UE (assieme al governo tecnico di Monti), perché fenomeni di ribellione e dissenso al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano i movimenti minoritari e velleitari quali il grillismo e altri similari europei. Lo stesso astensionismo massificato assume più il significato di una estraneazione collettiva dalla politica, assai più vicina alla resa senza condizioni, più che quello di un dissenso di massa. Costatiamo quindi che nella società è assente una presa di coscienza comune di una situazione di emergenza sia economica che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi sistemica, che può solo produrre altre crisi, quando alla destrutturazione di un sistema non fa riscontro alcuna alternativa, magari futuribile, ma possibile. Si manifesta nella odierna società una coscienza collettiva di tipo adattativo alla situazione di precarietà materiale ed esistenziale, ad uno stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una condizione di perenne instabilità in cui si possa solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo in cui, da una parte le classi più elevate tentano di integrarsi in un processo di trasformazione da cui vengono progressivamente escluse, dall’altra, quelle più deboli si affannano a sopravvivere alla crisi. Tutti tentano di “imbucasi” ad un simposio a cui non sono stati invitati dalla global class. La società è prigioniera dell’eterno presente. Si eternizzano in una sfera astorica e asociale le condizioni individuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire dei giovani, gli affetti personali, i rapporti sociali, vengono vissuti come se questa condizione di crisi fosse una condizione perenne, in trasformabile, data l’impossibilità di sviluppi e mutamenti rispetto alla quotidianità ottusa di questo granitico, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla luce dell’etica individualista su cui si è costruita la psicologia collettiva del mondo contemporaneo. Il culto dell’individualità odierna, è il risultato di un atteggiamento narcisistico collettivo, più o meno inconscio, di personalità che hanno coscienza di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento, in primis in base alla loro funzione svolta nel sistema economico, e dalla condizione sociale che ne deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere di avere riconoscimento, e di preservare le proprie meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diverso chissà? Non si considera che l’eterno presente è conseguenza della mancanza di senso della storia. L’economia attraversa fasi di stagnazione e recessione, ciclica. La storia, al contrario non ammette periodi di stagnazione, né tanto meno è concepibile una sua recessione al passato. L’eterno presente è una falsa coscienza della storia imposta da un ordine capitalista ormai fuori della storia. La storia invece continua a produrre mutamenti, a generare nuove situazioni di cui occorre prendere coscienza. Interpretare l’avvenire alla luce dell’eterno presente è un non senso. La storia non ha altri fini che quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo come essere storico a determinare il superamento della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo nell’eterno presente. Da quanto precede, si comprende anche la necessità storica della presente crisi, quale momento di superamento di un presente che è “eterno” perché non è storico.

(Preve)Non sono un esperto di politologia o di sociologia elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non intendo unirmi a1 coro gracchiante dei “responsabili” aderenti ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la pistola alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fatto che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia, dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento. In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esiste una sorta di giunta militarizzata di economisti con garante un ex-comunista disilluso del comunismo, che in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse essere una società “alternativa” al mercato capitalistico. Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di strategico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientarsi sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel continuare ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bisognerebbe ricordarlo ai politologi. E’ quindi inutile condannare moralisticamente gli astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo. Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità della tensione politica. Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come possa continuare nel tempo e riprodursi una società tenuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esistere. Per il momento questa è una relativa novità storico-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del genere è la prima società umana completamente priva di “grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato che potesse esistere una “nazione civile senza metafisica”. Benchè abbia insegnato storia e filosofia nei licei per trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di capire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la mescolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente anticipato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni, cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a vantarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”. L’attuale globalizzazione senza metafisica è comunque intrecciata al messianesimo americano vetero testamentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco, ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista. Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità sociale ascendente e discendente, sostituita da una mobilità individualistica senza alto né basso, al di fuori della capacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la grande ideologia di legittimazione della borghesia classica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mercantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato comunitario della vita è integralmente sostituito dalla capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità lavorative. Come ho già fatto notare in precedenza, il vero problema non sta nel constatare questo processo, che è sotto gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccanismi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospettare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India, Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di decenni una crisi generalizzata di senso storico e politico. Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una koinè che può essere definita, in termini di scetticismo sofisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tranquillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può veramente saperlo.



(Tedeschi) La coscienza dell’inutilità sociale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione massificata di un mondo economico e politico virtuale che rivela nella crisi il vuoto di senso, cioè la sua incontestabile inutilità. Così come inutile si è dimostrata la classe politica,  acquiescente e complice delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E’ una moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni economiche e politiche dei paesi della UE, una valuta imposta da una BCE senza uno stato che ne garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una BCE composta da organismi tecnici non elettivi, non rappresentativi della volontà popolare. L’euro è stato definito da alcuni non una moneta unica, ma un  sistema di cambi fissi, dato che  nell’Eurozona, la valuta è comune, mentre il debito pubblico grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro? Con l’euro si è fermato lo sviluppo economico, si sono dimezzati il potere d’acquisto e i risparmi dei cittadini, si è imposta una politica di austerity che ha distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà del lavoro. Sono state distrutte le conquiste sociali, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha incrementato la speculazione finanziaria che sta determinando il fallimento degli stati. L’euro, anziché integrare i popoli, li ha condannati ad una competizione sfrenata che ha condotto ad enormi sperequazioni economiche tra popoli del nord e del sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla speculazione finanziaria, utile ai propri profitti, ma inutile e dannosa ai popoli. Gli stati sono stati incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare ala propria economia, e classi politiche corrotte hanno goduto del consenso di masse anestetizzate da un benessere virtuale e precario. Farla finita con l’euro però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non dispongono di classi politiche adeguate a tali eventi di emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono tuttora impensabili per la stragrande maggioranza degli europei.




(Preve) Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri perché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco niente”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo già parlato, in genere molto negativamente. Continuare testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non sono specialisti di economia. Personalmente, pur non dominando la materia, mi riconosco nelle opinioni di economisti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quotidianamente dalla televisione e dai giornali, che annunciano apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o minacciano soltanto? Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamenti, politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le stesse del 1915, e del 1940. Sarebbe troppo lungo scendere nei dettagli di questi elementi di continuità che vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il regime liberale, il regime fascista ed il regime democratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sulla continuità della geopolitica di espansione nei Balcani nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli italiani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel 1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la terza volta. Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore storico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria “fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché. Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia. Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per borsisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Cecoslovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unione Sovietica) non insegnino proprio nulla? Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avviso non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipocrite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandiere, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivostok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica. Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare. L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di salvarlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione europeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra nazioni europee erano migliori quando non si era ancora creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle nazioni virtuose. E’ già difficile far passare l’idea della solidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione (il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Repubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e lo smantellamento progressivo degli elementi di welfare. Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed il modo di uscirne sarà il principale indicatore storico-politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui nessuno di noi potrà sottrarsi.