venerdì 26 novembre 2010

Hugo Chavez e l’opinione pubblica mondiale:manipolazione e stratagemmi delle grandi potenze








di Jules Dufour

L’imperialismo non può più sopportare la rivoluzione bolivariana, perché questa costituisce una minaccia reale alle sue ambizioni di dominio e di espansione non solo in America latina, ma in tutti i paesi “oppressi e rivoluzionari”, come ha dichiarato il presidente venezuelano in visita a Teheran la settimana scorsa.

Le grandi potenze si vedono obbligate ad attaccarlo su tutti i fronti e quello della manipolazione dell’opinione pubblica mondiale sembra sempre più il mezzo preferito da loro.

Questa”crociata mondiale “ anti-Chavez che è iniziata in Colombia fa parte di questo movimento.

Le grandi potenze voglio trasformare l’immagine di Hugo Chavez in quella di un nemico comune e cercano di richiamare in questa direzione la percezione della maggior parte della popolazione mondiale.

Hanno perseguito i medesimi stratagemmi con Mouammar Gheddafi,Slobodan Milosevic,Saddam Hussein,Osama Bin Laden,i Talibani e con il presidente Ahmadinejad in Iran.Quello che loro vogliono creare non è solo la “sindrome del nemico” ma anche la costituzione di una piattaforma sulla quale installare i fondamenti per un’invasione armata del Venezuela.

Dopo il fallito colpo di Stato dell’aprile 2002 che mirava al rovesciamento del presidente Chavez, è stata messa a punto una strategia con gli Stati Uniti con lo scopo di radunare i paesi dell’America Latina contro i membri dell’Alleanza bolivariana di Las Americas (ALBA) e di contrastare la grande influenza che questa esercita sull’insieme delle società non solo in America latina, ma anche in un gran numero di paesi in via di sviluppo.Questo raggruppamento non solo non si è concretizzato ma è sfociato nell’emergenza di una presa di coscienza ancora più profonda sulle nefaste conseguenze dell’asservimento dei popoli agli interessi primari dell’impero così come l’adesione di altre nazioni alla rivoluzione bolivariana.Questa rivoluzione ora è arrivata e rappresenta il passaggio che dovranno iniziare senza tardare tutti i popoli del mondo.E’ la lotta contro l’Imperialismo sotto tutte le sue forme.E’ l’instaurazione dei regimi politici democratici e popolari che rispondono ai bisogni essenziali dell’umanità per quel che riguarda l’educazione e la sanità preservando allo stesso tempo i fondamenti delle diversità biologiche terrestre e marina che risultano di cruciale importanza nel fornire come priorità, alimenti di base per miliardi di abitanti che ne sono privi.


I Aumentare le tensioni tra i membri di ALBA e la Colombia

La strategia degli Stati Uniti è quella di aumentare le tensioni tra i membri di ALBA da un lato e la Colombia dall’altro e farne scaturire cosi un movimento d’appoggio a favore di un’invasione armata del Venezuela, generando così un movimento di accerchiamento o di isolamento dei membri di questa alleanza per poter neutralizzare le loro azioni nell’insieme del sub continente.

La messa in opera della Zona di Libero Scambio delle Americhe(Z.L.E.A.) non si è realizzata e questo fatto ha provocato una cocente delusione per le forze imperialiste ed in particolare , per gli Stati Uniti.

D’altro canto, sotto l’impulso del presidente Chavez, la recente creazione di istituzioni votate principalmente agli interessi dei paesi latino-americani come il Banco del Sud, Telesud e l’Unione delle nazioni sud-americane(UNASURI) sono venute ad esacerbare le frustrazioni degli Stati Uniti incitandoli a spiegare nuovamente le sue forze in modo a riprendersi il terreno perduto.


II Piazzare dei dispositivi di provocazione e di aggressione

Il ritorno della Quinta Flotta nel luglio 2008 nel mar dei Carabi e negli Oceani che bagnano il Sud America, il rovesciamento del governo in Honduras,le dichiarazioni di cooperazione tra Caracas e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia(FARC) e il recente accordo firmato tra gli Stati Uniti e la Colombia per l’utilizzo da parte dell’esercito americano di sette basi militari colombiane, sono altrettanti fattori considerati come atti di aggressione diretta contro i popoli latino-americani che vogliono prendere pienamente a carico il loro destino.

Questi elementi contribuiscono a creare un clima d’instabilità il cui scopo è quello di preparare lo scenario per un rovesciamento del presidente del Venezuela sia attraverso la creazione di agitazioni interne al paese stesso, sia attraverso lo sviluppo di un movimento massivo nell’opinione pubblica colombiana in favore di una invasione armata terrestre da parte dei suoi vicini che sono l’Equador e il Venezuela.

Conclusione


Contro la disinformazione e per promuovere l’espansione di ALBA e delle sue iniziative.

Questa “crociata mondiale” anti-Chavez dev’essere contrastata dalla diffusione di notizie sui membri di ALBA e sui risultati dei programmi politici , economici e sociali che questa associazione ha sviluppato negli ultimi anni così come attraverso quelle informazioni sui considerevoli progressi sociali che sono stati ottenuti.

Dev’essere lanciato un appello su scala mondiale affinché tutti gli organismi non governativi(Ong) operanti per la pace e la giustizia diffondano un messaggio per il prosieguo e lo sviluppo dei popoli oppressi di questo pianeta.

La riuscita delle esperienze effettuate dai membri di ALBA sarà anche quella di tutti coloro che lavorano all’impresa del disarmo e all’instaurazione di una pace duratura attraverso un equo sviluppo economico e sociale.




http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=15095

martedì 23 novembre 2010

Gli intrighi di palazzo e le sorti dell'Italia 



di Lorenzo Dorato

Pochi giorni fa il gruppo Fli (Futuro e Libertà per l’Italia) ha ufficialmente dichiarato che lascerà il governo una volta approvata la manovra finanziaria. La crisi politica è esplicitamente aperta. Il 14 Dicembre Berlusconi chiederà la fiducia alle camere, atto formale per sancire (salvo colpi di scena) la mancanza di numeri per governare con l’attuale compagine uscita dalle elezioni del 2008. Dopo due anni di campagne mediatiche scandalistiche, smarcamenti opportunistici e costruzione laboriosa di un gruppo “dissidente” interno, Fini e i suoi hanno realizzato l’intento (di cui non sono null’altro che gli esecutori) di mettere fuori gioco, salvo colpi di scena, Berlusconi e il suo attuale governo. Fin dall’inizio della legislatura Fini ha condotto un’esplicita azione di costruzione d’immagine, fabbricando il personaggio della destra “pulita”, istituzionale, europea, alla Aznar e Sarkozy (come recitano le parole della fondazione Fare Futuro). Di questa costruzione si è poi servito abilmente sia per giustificare (in termini di presunta coerenza morale) il suo distacco formale da Berlusconi, sia per lanciare una formazione elettorale autonoma post-berlusconiana (con altrettanto probabili alleanze centriste).

Ma cerchiamo di capire cosa realmente sta avvenendo consapevoli della difficoltà di un’analisi di questo tipo in una fase di rapidissimi e complessi cambiamenti. Anzitutto è giusto premettere che sarebbe sbagliato analizzare i fatti attribuendo ruoli certi ai singoli personaggi o gruppi di potere implicati. I ruoli cambiano, si alternano e poi ricambiano, secondo logiche e velocità spesso sfuggenti e difficilissime da determinare. Tuttavia alcuni movimenti di fondo possono essere colti e, in ogni caso, ciò che più importa ai fini di quanto scrivo, è comprendere la natura strumentale di alcuni epifenomeni di superficie che nascondono fenomeni guidati da logiche diverse da quelle apparenti.

Comprendere esattamente le ragioni per cui il governo è stato messo da tempo sotto ricatto tramite continue pressioni sul presidente del consiglio di certo non è cosa semplice. L’unica certezza (punto di partenza per ogni ragionamento non viziato alla base) é che, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere, l’attuale instabilità politica non è affatto riducibile a scelte soggettive dettate da divergenze di punti di vista o valori (se così fosse stato gli odierni dissidenti avrebbero avuto mille altre ragioni in passato per smarcarsi dal premier), ma è legata all’esistenza di determinati interessi economico-finanziari interni e internazionali a loro volta legati a rappresentanze politiche che di volta in volta costituiscono fronti, alleanze e ordiscono tradimenti per conto terzi. E’ senza dubbio difficile orientarsi in questo marasma di interessi incrociati. Alcune osservazioni, tuttavia, possono essere fatte, ripercorrendo molto velocemente alcune fasi della recente storia italiana.

Berlusconi ha avuto fin dall’inizio della sua discesa in campo, avvenuta in un pauroso vuoto di potere conseguente alla fine della prima repubblica, importanti nemici interni “non ideologici”, legati al capitalismo italiano delle grandi famiglie storicamente dominanti. Precise vicende lo hanno visto in contrasto con magnati del calibro di De Benedetti (vicenda SME e Mondadori); ma più in generale si può dire che, in quanto politico, sia sempre stato sorvegliato con occhio vigile dagli ambienti imprenditoriali di peso in quanto parvenu troppo intraprendente e orientato a fare affari per proprio conto diretto evidentemente non del tutto compatibili con determinate posizioni di potere consolidate.

A questa particolare posizione interna si sono aggiunte frizioni internazionali a partire dalla legislatura 2001-2006. Campagne di attacchi sono state guidate da riviste come l’Economist, settimanale della finanza anglosassone seguito in breve tempo da giornali come il “New York Times” statunitense “El pais” e “El Mundo” spagnoli e diversi giornali tedeschi. Il tenore delle critiche mosse concernevano inizialmente le incompatibilità del profilo penale di Berlusconi (pluriprocessato) e imprenditoriale (padrone di un impero economico) con il suo ruolo di premier e poi (nell’ultima legisaltura e in forma ossessiva) le sue abituidini sessuali e mondane libertine (oltre che i comportamenti istituzionali poco consoni al proprio ruolo). Sembra difficile immaginare che una così concentrata e ripetuta sequela di attacchi unidirezionali sia esclusivamente frutto di divergenza di opinioni politiche e sincera preoccupazione per le sorti italiane. Almeno in buona parte essi non possono che spiegarsi con l’esistenza di conflitti di interesse materiali e di potere. Berlusconi, infatti, pur identificandosi nella strategia nord-americana bushiana della guerra permanente già dal 2001, assieme agli accoliti Blair e Aznar (con tanto di infame partecipazione alla carneficina irachena nel 2003) ha iniziato ad intessere rapporti, spesso per cointeressanza diretta, con realtà geo-politiche ostili al padrone d’oltreatlantico (in particolare asse nord-africano e Russia). Fu in quella fase che allo storico conflitto intercapitalistico interno (Berlusconi contro parte della vecchia guardia del capitalismo italiano) si aggiunge un conflitto di potere che concerne la scarsa affidabilità di Berlusconi nel gestire senza contraddizioni e imprevedibili salti in avanti gli interessi delle oligarchie capitalistiche europee e nord-americane da sempre capaci di influenzare pesantemente la politica italiana in ordine ai propri voleri. L’instabilità e la scarsa affidabilità di Berlusconi in questo senso, naturalmente, non implicano affatto che egli sia, per contrasto, un difensore degli interessi italiani, quand’anche capitalistici nazionali e che abbia quindi una supposta strategia politica coerente in questa direzione. Berlusconi si muove semplicemente con scarsa predisposizione alla disciplina dettata da determinati centri di potere alternando fasi di integrale sottomissione ad essi a momenti di diversione. Una diversione che, chiaramente, mai ha assunto i tratti di una politica di carattere quanto meno populista, nel senso letterale di “vicina a pur minime istanze popolari”, né si è mai tinta di attitudini realmente critiche verso quelle autorità (quali l’UE) che tengono gli Stati sotto scacco nella loro possibilità di implementare politiche sociali e fiscali realmente autonome. Una diversione, dunque, esclusivamente limitata a temporanee e blande scelte di campo nei confliggenti interessi capitalistici in termini geopolitici (terreno senz’altro importante che comunque non ha visto Berlusconi schierarsi con determinazione in particolari direzioni innovative). Sarebbe quindi un grosso errore vedere in Berlusconi un improbabile campione antiegemonico schierato contro le forze imperialiste occidentali più invasive. Tutt’altro! Il premier italiano è pienamente integrato nella sfera d’influenza occidentale a guida nord-americana e pienamente impegnato nei piani di politica-economica di carattere neo-liberista. Semplicemente svolge il proprio ruolo in maniera troppo ballerina ed eccentrica!

Oggi, un insieme di forze esterne e forze interne (a loro volta influenzate da quelle esterne) non semplici da determinare con esattezza, ma delineabili con approssimazione, hanno deciso che i tempi sono maturi per un cambio di rotta; che Berlusconi, pur avendo servizievolmente favorito i loro interessi a lungo, ha da tempo intrapreso strade non del tutto affidabili e che è ora di sostituirlo con un potere più consono ai propri obiettivi. Questi obiettivi, evidentemente, sono l’accelerazi0ne di processi di svendita del paese in una direzione che vada a favorire determinate cordate economico-finanziarie (e non altre).

Gli eventi correnti, dunque, si configurano come un vero e proprio intrigo di palazzo eterodiretto dagli esiti incerti, così come lo fu con ogni probabilità la caduta del governo Prodi nel 2008, anch’esso probabilmente reo di non aver seguito con alacrità e pienissima dedizione direzioni determinate (vuoi per la presenza di partiti meno allineati che rallentavano il processo, vuoi per iniziali e timide scelte geopolitiche analoghe a quelle in cui si è impantanato Berlusconi).

Simili dinamiche hanno segnato, d’altro canto, l’intera storia repubblicana. E’ noto il fatto che l’Italia é tra i paesi europei più fragili in termini di autonomia politica ed ha subito la pesantissima ingerenza di forze straniere, in primis gli Stati Uniti (che occupano il territorio nazionale con 113 basi militari) e in seconda battuta i paesi europei più influenti. Dalla fine della prima repubblica il restringimento degli spazi di autonomia è andato crescendo simultaneamente alla crescita dell’unipolarismo USA e al processo di integrazione del mercato europeo e la classe politica italiana, spazzata via la corrotta (e sul piano politico infinitamente migliore) classe facente capo alla prima repubblica, tanto nel blocco di potere di centrodestra che in quello di centrosinsitra si è totalmente allineata ai diktat nord-americani mediati quasi sempre dalle tecnocratiche istituzioni centrali europee.

Spesso, tuttavia, tale cieco allineamento cede di alcuni centrimetri, ed è lì che suona l’allarme e i cani da guardia pronti con dossier, scandali, cospirazioni e quant’altro vengono sguinzagliati in libertà, fortificati ovviamente dall’esistenza di concomitanti conflitti di potere interni e conseguenti parti politiche mandatarie cui appoggiarsi.

Affermare che siamo oggi di fronte ad un’infida manovra di palazzo per conto terzi, del tutto estranea a qualsiasi istanza espressa dal popolo sovrano è dunque semplice buon senso (che purtoppo anche le sparute forze politiche sedicenti anticapitalistiche non sanno o non vogliono usare).

Al momento non é chiaro quale sarà con esattezza l’evoluzione degli eventi. I poteri che hanno concorso al rovesciamento di Berlusconi, dapprima con pressioni continue ed ora con un ormai quasi certo rovesciamento, puntano ad un governo tecnico. Le elezioni infatti rischierebbero di riprodurre (anche se non è affatto certo) una situazione identica a quella attuale, o comunque di non configurare un governo “ideale” ai fini dei poteri di cui sopra, vanificando così il piano di sabotaggio. Un governo tecnico potrebbe invece avere un preciso mandato: attuare ulteriori riforme antipopolari favorevoli al grande capitale soprattutto tramite il completamento di alcune privatizzazioni di aziende strategiche in cui lo Stato mantiene ancora residuali posizioni di azionariato e controllo (come ENI, ENEL e FINMECCANICA) e -o liberalizzazioni di diversi comparti economici ancora minimamente protetti per consentire la penetrazione del grande capitale italiano ed estero. Vi è poi un ulteriore margine per il disfacimento del sistema pensionistico pubblico (eleminazione della pensione di anzianità) o della sanità, nonché ulteriori attacchi al diritto del lavoro. Infine in politica estera e commerciale, punto probabilmente importante nella vicenda, si tratterebbe di raddrizzare il bastone verso aperte ed esplicite posizioni estreme atlantiste, chiudendo ogni spiraglio ad accordi economici (in cui ad esempio sono coinvolte ENI e FINMECCANICA) alternativi e (chissà) partecipando a nuove avventure belliche o rafforzando quelle in essere (che recentemente forze come la lega hanno iniziato a trattare con insofferenza, seppur in maniera del tutto innocua). Un governo di questo tipo potrebbe naturalmente assumere diverse forme: presumibilmente potrebbe trattarsi di un centrodestra finiano senza Berlusconi riconfigurato e allargato al centro (UDC, API) e che riceva poi l’appoggio del PD nelle scelte fondamentali. Confindustria, Cisl, Fli, Udc, e Pd sono stati espliciti nel ritenere non auspicabile la soluzione elettorale. Tuttavia l’esito finale della crisi politica non è affatto certo. Non è del tutto escluso infatti che i fedeli berlusconiani e la lega riescano ad imporre, assieme a forze dichiaratesi ambiguamente a favore di questa soluzione (come l’IDV) lo svolgimento di nuove elezioni politiche.

L’unica certezza è che si sta giocando una partita importante e che pertanto interpretare il tutto come una tardiva presa di coscienza da parte dei finiani dell’orrore politico e morale berlusconiano è non soltanto assolutamente riduttivo, ma del tutto sbagliato e carico di gravide conseguenze. Non siamo infatti di fronte a semplice coincidenza tra una presunta volontà soggettiva autentica e una sovrapposta eterodirezione interessata da parte di poteri alieni. Siamo di fronte a un vile e meditato tradimento politico per conto terzi e per scopi completamente antipopolari (tanto antipopolari quanto, e forse più, di quanto sia già antipopolare nei fatti la politica di Berlusconi). Nascondere questo fango dietro l’antiberlusconismo militante è semplicemente indecente, o per lo meno incredibilmente ingenuo.

D’altra parte, una posizione inequivocabilmente contraria all’attuale governo (in primis per le sue scelte politiche in ogni campo ed in seconda battuta per i suoi effetti culturali devastanti) é del tutto compatibile con l’aperta denuncia della “rivolta” delle elites cui stiamo assitendo. Una posizione che sappia smarcarsi dalla presunta necessità di tifare (un tifo che infesta il paese da ormai 15 lunghi anni) tra berlusconismo e antiberlusconismo, tra centro-destra e centro-sinistra. Che sappia comprendere la sostanziale omogeneità politica nelle scelte fondamentali tra Berlusconi e i suoi oppositori. La stragrande maggioranza delle leggi votate dall’attuale governo in termini di politica economica, federalismo fiscale, politica estera (missioni all’estero) sono state apertamente appoggiate dalle opposizioni in parlamento. E queste stesse opposizioni sono le stesse che in una sola legislatura e mezzo (1996-2001), (2006-2008) sono riuscite ad attuare incredibili mutamenti dell’assetto economico-sociale della nazione, privatizzando (a prezzi di svendita spesso) la stragrande maggioranza delle imprese pubbliche, attaccando a più riprese lo Stato sociale, il contratto di lavoro subordinato, e inaugurando (Serbia 1999) la stagione delle nuove guerre umanitarie imperialiste.

Tutto questo, ovviamente, non impedisce di cogliere le peculiarità del potere berlusconiano (incluse le proprie scempiaggini morali che naturalmente disgustano), ma deve obbligare a leggere tali peculiarità all’interno di un contesto complessivo istituzionale, sociale, economico e politico che è stato stravolto, in senso regressivo, con pari responsabilità dalle principali forze politiche che hanno guidato il paese dal 1992 ad oggi.

L’accodamento dei partiti di sinistra (a sinistra del PD) all’accanimento antiberlusconiano infestato da gossip, puttane, moralismi e ipocrisie degne del puritanesimo anglosassone ormai dilagante in Italia, deve far riflettere sulla cronica incapacità di questi partiti di saper assumere una posizione che sia autonoma dal gioco degli specchi del bipolarismo, del progressismo contro il berlusconismo. Un gioco degli specchi che ha reso impossibile la formazione di una terza forza capace, come è oggi il KKE in Grecia, di rimanere su un terreno popolare indipendente dalle logiche di contrapposizione formale e di costume (che non signfica assolutamente disimpegno etico, ma anzi significa riportare l’etica e la morale su un terreno di sostanza liberandola dalla sua forma mediatica strumentale asfissiante).

Anche volendo stare al nucleo principale delle argomentazioni secondo cui Berlusconi rappresenterebbe comunque il male maggiore, è fondamentale impostare il discorso in termini di sostanza respingendo la parzialità con cui viene sempre presentato. Le quattro caratteristiche peculiari del berlusconismo, simulando di mettersi nell’ottica di chi lo ritiene comunque il male maggiore, sarebbero la propensione ad un maggiore sprezzo delle istituzioni e della Costituzione, una cultura ostentata della prevaricazione, dell’arroganza unita a volgarità e machismo, una maggiore tolleranza dell’illegalità ed infine il problema del conflitto di interesse tra la sua posizione di imprenditore e quella di uomo di Stato.

Per quanto concerne il primo punto, bisognerebbe chiedersi quale sia la sostanza della Costituzione italiana. Ebbene essa è l’unità di elementi regolatori istituzionali, politici, economici e sociali. Se la si vuole a tutti i costi limitare ai rapporti formali tra i diversi poteri dello Stato, si sta già accettando il campo di gioco di chi vorrebbe avere il terreno politico spianato per stravolgere il già ampiamente stravolto assetto complessivo dei rapporti economico-sociali del paese. Gli articoli che citano esplicitamente la dignità della remunerazione del lavoro, la limitazione dell’iniziativa privata secondo criteri di pubblica utilità (ovvero il 36 e il 41) sono stati ampiamente stravolti nella sostanza dalle iniziative legislative del centro-sinistra nei suoi catastrofici anni di governo 1996-2001, ad esempio tramite l’invenzione del precariato (legge Treu) e tramite la svendita di gioielli strategici di imprese pubbliche cedute al capitale privato (e spesso estero) in totale contrasto con qualsiasi criterio di pubblica utilità. Sempre l’articolo 36 ha subito una pesante ipoteca dalla rimessa in discussione del sistema pensionistico pubblico fino ad una situazione attuale drammatica in cui gli attuali lavoratori giovani avranno nei casi più fortunati il 40% dell’attuale retribuzione sotto forma di pensione da anziani. Parliamo poi dell’articolo 11 (che impedirebbe il ricorso alla guerra nelle controversie internazionali). Violato esplicitamente dal governo D’Alema ai tempi dell’aggressione con annessi bombardamenti contro la Jugoslavia sovrana (con la scusa della bufala mediatica di un inesistente genocidio di massa); violato ancora nell’ultima legislatura con la prosecuzione dell’illegale guerra in Afghanistan (lautamente rifinanziata) e con l’avallo all’embargo di Gaza, atto di guerra contro una popolazione incarcerata in un fazzoletto di terra.

Se accettiamo il terreno di lettura della nostra Costituzione in termini complessivi, ci accorgiamo facilmente che lo stravolgimento dei suoi cardini e dei cardini politici e sociali del paese è avvenuto in una fase storica con il concorso delle forze politiche eredi del periodo storico di Mani Pulite. Si può anzi dire che in alcuni ambiti fondamentali, quali la privatizzazione a prezzi di svendita del patrimonio pubblico (con veri e propri scandali e pratiche di malaffare) il centro-sinistra assieme ai governi di Ciampi , Amato e Dini, abbia giocato un ruolo preminente.

Veniamo ora al problema culturale. Senza negare i danni culturali del berlusconismo come approccio alla cosa pubblica e alle istituzioni, nonché all’etica collettiva, non si può assolutamente fingere di non vedere che la degenerazione di costume è un fenomeno complessivo che ha investito pesantemente l’intera Europa a partire dagli anni 70-80 con un’accelerazione spaventosa nei terribili anni ‘90. E per costume non ci si deve limitare moralisticamente ai reality show introdotti da Mediaset, alle ballerine e veline che infestano la televisione o alle prostitute del premier, ma ad un complessivo avanzamento delle logiche mercantili, commerciali a tutti piani della società, anche quelli un tempo maggiormente protetti da forme di socialità tradizionali o di gestione pubblica e comune, in un dilagante individualismo pervasivo presentato come unico orizzonte sociale possibile. La trasformazione della scuola avviata da Berlinguer tramite l’autonomia e l’imperversare di logiche di carattere pseudo-pubblicitario; la trasformazione delle USL in ASL (da unità ad aziende sanitarie locali) con conseguente parziale mercificazione della salute; l’aumento esponenziale della pubblicità televisiva e non solo in ogni angolo dello spazio vitale; la degradazione del corpo femminile e maschile ad oggetti di incitamento al consumo; la cultura dello sradicamento, della mobilità, della flessibilità e della competitività; la cultura della liberalizzazione e della privatizzazione come uniche possibili vie per regolare i rapporti economici con la parallela affermazione di una cultura individualistica di mercato.

Sono soltanto alcuni tra i molteplici esempi di fenomeni di devastazione culturale oltre che materiale non certo definibili in via d’esclusiva berlusconiani. Berlusconi, ne è semmai l’effetto grottesco, satiresco e volgare e, in una certa misura, proprio per questo più popolare. Ma la stessa cultura impregna tutte le classi sociali a livelli forse più sofisticati e moderni, ma ugualmente devastanti. E di questa cultura il centro-sinistra non solo è stato impregnato, ma se ne é fatto portatore massimo, apportando una vera e propria trasformazione anche simbolica in ogni ambito del politico, aggiungendo al tutto forti elementi anti-popolari come il disprezzo del proprio paese e la maniacale esterofilia (preferibilmente in direzione anglosassone). La sinistra sedicente anticapitalista ha finto di non vederlo per tanti anni ed anzi si è ritagliata un posto di nicchia in questa divisione dei compiti mercantile, andando a configurare la punta avanzata di una certa liberalizzazione del costume totalmente compatibile ed anzi integrabile nelle dinamiche capitalistiche.

Per ciò che concerne infine il terzo punto, quello della maggiore propensione all’illegalità del potere berlusconiano, ci sarebbe da chiedersi anche in questo caso cosa consideriamo legale (senza assolutamente per questo adottare un punto di vista di tipo estremistico per cui la legge é comunque legge borghese). E’ legale svendere sotto i prezzi di mercato fiori di aziende pubbliche, senza alcuna trasparenza, arricchendo la finanza straniera in un’operazione di proporzioni vastissime? E’ legale e trasparente riempire di denaro della collettività aziende come la Fiat per produrre all’estero? E’ legale sovvenzionare a costi altissimi centri sanitari privati, fondi pensione privati che potrebbero essere gestiti a costi nettamente inferiori dallo Stato? E’ legale la missione in Afghanistan e il sostegno all’occupazione israeliana? A tutti coloro che si occupano con alacrità di legalità, ivi compresi personaggi come Travaglio e Saviano, bisognerebbe chiedere a quale parte del concetti di legalità fanno riferimento.

Sul conflitto di interessi infine, tanto denunciato come anomalia italiana da commentatori anglosassoni ed europei, non si può certo negare che si tratti di un’indecenza. Ma è forse più decente il rapporto di diretta committenza che si instaura tra grande imprenditoria e alta finanza e potere politico nei sistemi capitalistici, rapporto ormai non più mediato da vent’anni a questa parte da forme di mediazione sociale? E’ forse più decente nella sostanza che Prodi abbia per anni servito come consulente la Goldman Sachs e che abbia poi gestito le privatizzazioni italiane, grosso affare in cui la grande finanza americana ha giocato un ruolo determinante?

In definitiva, le supposte peculiarità del berlusconismo, che ovviamente non vanno negate, non possono però condurre ad a-priorisitiche e spesso “estetiche-viscerali” (quando non interessate) teorie del male maggiore. Si tratta del tragi-comico errore politico (frutto di falsi identitarismi autoreferenziali) commesso dai partiti comunisti dopo il 1992, scusabile forse nel 1995-96, ma gravissimo oggi alla luce di quindici anni di esperienza. Un’esperienza che avrebbe da tempo dovuto mostrare come si sia di fronte ad un blocco di potere configgente al suo interno, ma accomunato da identici progetti di annichilimento della società, camuffato da contrapposizioni spesso esasperate proprio al fine di richiamare costantemente la tremenda logica del voto utile, contribuendo a far fuori le ali estreme dal gioco politico elettorale. Sentire oggi Ferrero che prega Nichi Vendola di riunirsi per poi rivolgersi alle altre forze politiche e Diliberto che prega il PD per un’ alleanza neo-ulivista é l’ennesima prova dell’inguaribile subalternità culturale e pratica dei partiti della sinistra a schemi di lettura del reale ridotti a formalismi ideologici o a puro elettoralismo di brevissimo periodo.

L’antiberlusconismo militante, vera e propria piaga culturale e politica, in Italia presenta due manifestazioni concrete: la prima è quella degli oppositori portatori di interessi capitalistici confliggenti con quelli del Cavaliere (antiberlusconismo materiale); la seconda è quella di tutti coloro che, disgustati (a ragione) da alcuni specifici aspetti della politica di Berlusconi, cadendo nella trappola propagandistica, hanno ormai da anni elevato queste specificità a metro di giudizio assoluto e dirimente per le loro scelte di campo: sempre e comunque contro Berlusconi in quanto pericolo autoritario, incarnazione della volgarità estremizzata, calpestatore delle istituzioni, artefice delle leggi ad personam. A tutto questo si aggiunge spesso una carica snobbistica estrema (supportata da vere e proprie centrali di propaganda come il quotidiano la Repubblica, diversi giornali stranieri che presentano macchiettisticamente la politica del belpaese, alcuni nostrani comici “di sinistra”, trasmissioni televisive etc etc). Carica snobbistica che ha stratificato nel tempo una vera e propria cultura soffocante della superiorità morale, che ha prodotto mostruosità concettuali come l’idea di un’Italia divisa in due tra buoni e cattivi, colti e rozzi, amanti delle regole e paraculi, decenti e indecenti; come se davvero lo scontro politico tra centro-sinistra e centro-destra fosse riducibile a queste categorie. Questo secondo tipo di antiberlusconismo di costume è un fenomeno di estrema importanza che ha culturalmente devastato il paese quanto il berlusconismo essendone in definitiva l’altra faccia della medaglia più sofisticata, ma non meno pericolosa. E’ stato cavalcato, per di più da personaggi che contribuiscono a confondere le acque puntando il dito contro fenomeni sì importanti, ma accuratamente selezionati all’interno della complessità dei rapporti sociali. Si tratta di un vero e proprio partito trasversale che é andato a riempire il vuoto lasciato dalle colpe dei partiti comunisti (che brancolano nel buio) e che, pur con tutte le specificità dei singoli, va dalle trasmissioni di Fazio fino a quelle di Santoro, passando per Saviano, Travaglio. Personaggi che al momento opportuno, costruitasi ormai l’immagine pubblica di “affidabili” rivelano tutta la loro integrazione nei peggiori crimini del sistema, mostrandosi (Travaglio e Saviano, non Santoro, su questo punto valida eccezione) complici delle campagne filo-sioniste o imperialistiche di odio contro gli Stati canaglia di turno (si vedano gli sproloqui di Saviano sul caso Neda nel 2009).

Alla luce di tutto questo, la posizione da assumere alla luce degli eventi politici italiani in continuo avvicendarsi, non può essere ipocrita. Per l’ennesima volta il mandato elettorale (di per sé già ridicolizzato a priori dall’oggettiva assenza di sovranità politica e dall’inesistenza di una vera informazione capace di dare minima sostanza alla democrazia) viene in questo paese calpestato a piacimento da poteri economici che se ne infischiano delle scelte popolari, così come se ne strainfischiano delle prostitute del premier, delle leggi ad personam e delle sue vicende giudiziarie. Rifiutandosi di accodarsi alla corte degli antiberlusconiani militanti (interessati, emotivi, viscerali, ipocriti che siano), non si può che denunciare con vigore quanto sta accadendo, senza nulla concedere in termini politici a questo ormai ex-governo di servitori di quello stesso capitalismo sfrenato e antipopolare che i congiurati vogliono servire a loro volta con maggior dedizione preparando nuove strategie di affossamento del paese e delle sue componenti più deboli.

giovedì 18 novembre 2010

BELLO E POSSIBILE
Riflessioni su comunismo e utopia




…non si sogna solo di notte.
Purtroppo o per fortuna, dipende, si sogna anche di giorno

Ernst Bloch, Addio all’utopia

Il comunismo è davvero - come sostengono spesso i suoi critici - una “utopia”
strutturalmente incompatibile con la “vera natura umana” ? E a proposito: esiste
una “vera natura umana” e da cosa essa è - eventualmente - caratterizzata ?
Per rispondere a queste domande probabilmente non basterebbero migliaia di pagine;
tuttavia, qualche piccolo elemento di riflessione è possibile introdurlo anche in
poche righe.
Al comunismo è toccata spesso la sorte di essere considerato “bello e impossibile”,
un’utopia irrealizzabile perché contraddittoria con la “vera natura dell’uomo” -
“lupo”, egoista, individualista -; un’utopia, inoltre, che quando viene proposta come
progetto concreto finisce inevitabilmente per divenire “totalitaria” proprio perché
pretende di violare le regole della “natura umana”.
Insomma, la gamma della critica anti-comunista si svolge entro due poli: quello
della irrealizzabilità del progetto utopico-ideale e quello della realizzabilità solo
della versione totalitaria di tale progetto. Non si sfugge: il comunismo sarebbe bello,
ma non si può fare, oppure si può fare, ma non è bello.
Da lì a dire che i comunisti sono - quando va bene - degli ingenui sognatori o - più
frequentemente - dei potenziali criminali (rigorosamente “stalinisti”) il passo è breve.
Cominciamo, dunque, dall’utopia.
Etimologicamente, utopia sta per “in nessun luogo”1. Nell’accezione comune si dice
“utopico” di qualcosa di magari auspicabile, ma certamente irrealizzabile; insomma,
una definizione che si attaglia perfettamente alla percezione che del comunismo
intendono dare i suoi critici e denigratori.

1 Dizionario etimologico on line: “Utopia = b.lat. UTOPIA composto di U = gr, OY. non e
TOPOS luogo (v. Topino). Voce foggiata da Tommaso Moro, Gran Cancelliere
d’Inghilterra |sec XVII|, che dette questo titolo ed una sua teoria di legislazione e di governo
modello per un paese immaginario, che chiamò Utopia. Progetto promosso da buona intenzione,
ma che non può aver luogo, che non si trova in alcun luogo, cioè, non attuabile”
.

Eppure, chiunque comprende che non necessariamente ciò che non esiste non può
esistere; allo stesso modo, non necessariamente ciò che non esiste non è mai esistito.
Anche quello di “utopico”, come tanti altri, è un concetto storicamente determinato.
Basti ricordare, infatti, che siccome generalmente per utopico si intende “non
realizzabile”, si rischia il paradosso di considerare come “utopiche” (quindi non realizzabili)
anche cose che invece non solo possono benissimo essere realizzate, ma
che addirittura sono già state realizzate.
Probabilmente se oggi noi pretendessimo che tutti i contratti di lavoro fossero a
tempo indeterminato ci sentiremmo rispondere che si tratta di una richiesta “non
realizzabile” (in questo senso, dunque, utopica), non compatibile con le leggi
dell’economia moderna. Eppure, in un passato neppure tanto distante, tutti i contratti
di lavoro erano a tempo indeterminato.
Dunque, ciò che era possibile (anzi reale) in una certa società, in una certa epoca,
è divenuto “utopico” nella stessa società, in un’epoca diversa.
Quella che viene definita come utopica è dunque la pretesa di immaginare ciò che
non è compatibile con l’esistente. E in un esistente dominato dalle leggi dell’autoriproduzione
dei rapporti capitalistici di produzione2 è ovvio che non vi sia alcuno
spazio per pensare una società dove le relazioni sociali non siano basate sul profitto.
Ci mancherebbe altro.
Non soddisfatti di aver decretato l’incompatibilità del comunismo con il presente
gli apologeti del capitalismo ne decretano l’incompatibilità anche con il futuro. E’
il tema della “fine della storia”.
Ma la storia è veramente “finita” ?
Beh, intanto se la fine della storia fosse quella vagheggiata da personaggi come
Francis Fukuyama3 ci sarebbe davvero di che preoccuparsi dal momento che Fukuyama
fa parte di quella schiera eletta di “intellettuali” organici ad alcuni dei più potenti
“think thank” nord-americani4 fautori della guerra infinita e preventiva.
Il fatto è che in ogni epoca la classe dominante ha tentato di descrivere il sistema
politico-sociale vigente come talvolta migliorabile, ma in ogni caso ultimo, insuperabile.
A questa affermazione ideologica i comunisti hanno spesso risposto con una
affermazione specularmente ideologica: il comunismo è il destino ineluttabile
dell’umanità perché “gli uomini tendono naturalmente verso il bene” e il bene è il
superamento reale della disuguaglianza.
E per sostenere l’idea - un po’ hegeliana - di un percorso lineare e progressivo di
sviluppo dell’umanità5 verso il Bene si suggerisce l’esistenza in Origine di

2 Il capitale è innanzitutto un rapporto sociale. L’accumulazione di capitale è dunque al
tempo stesso riproduzione del modo di produzione e del rapporto sociale che gli corrisponde.
3 Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.4 Il Project for a New American Century. Vedi: Statement of principles, 3 giugno 1997.5 Criticata anche da Eric Hobsbawm nella sua Prefazione al testo di Marx Forme economiche
precapitalistiche (Editori Riuniti, pag. 36, 1974) tratto dai Grundrisse.


un’embrionale “uguaglianza primitiva” successivamente superata dalla disuguaglianza
della divisione in classi - dovuta allo sviluppo delle forze produttive - che
sarà anch’essa, prima o poi, superata da un forma superiore di uguaglianza, dalla
società senza classi, dal comunismo appunto.
Alla domanda “il comunismo è mai esistito nella storia dell’umanità ?” possiamo
rispondere che, se per comunismo intendiamo una forma “più o meno sviluppata”
di proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di uguaglianza giuridica tra i
membri della comunità6 allora, forse, qualche embrione di “comunismo” è effettivamente
esistito, o comunque è stato pensato.
Ma bisogna intendersi sulla definizione “più o meno sviluppata”.
Ad esempio, quello che spesso è stato chiamato il “comunismo” platonico7 assomigliava
più che altro ad una sorta di ascetismo comunitario-egualitario di élite che
ammetteva tranquillamente l’esistenza degli schiavi (che anzi rappresentavano la
condizione per la “liberazione dal lavoro” necessaria alla pratica della riflessione
filosofica) e la subalternità dei cittadini a questa élite, subalternità garantita dalla
classe dei guerrieri, tutori dell’ordine generale della società. Questo genere di
“comunismo élitario” può andare benissimo anche ai più convinti anti-comunisti
che dell’elitarismo e della mancanza di uguaglianza in senso universale (da riservare
semmai solo all’élite, ai pari, ai “migliori”) fanno la propria bandiera.
Anche l’uguaglianza comunitaria degli uomini primitivi non era un comunismo
come lo intendiamo noi perché la messa in condivisione dei beni e dei mezzi di
produzione non derivava dalla scelta del rapporto sociale comunista, ma dalle necessità
di sopravvivenza di individui che ad un certo punto iniziarono a cooperare
proprio per affrontare meglio questo compito immediato. E dopo la cooperazione,
la ricerca di migliori territori in cui vivere, lo scontro con altre comunità, la guerra,
la sottomissione e schiavizzazione degli sconfitti, la creazione di classi. E nello
stesso tempo la maggiore specializzazione nelle attività legate alla riproduzione
della vita materiale, la divisione del lavoro e - di nuovo - le classi.
Lo stesso livellamento “egualitario” ultra-capitalistico, che annulla progressivamente
ogni individualità in nome di una generalizzazione del modello di uomoconsumatore
standardizzato, non è certo un tipo di “uguaglianza” da auspicare perché
interpreta la tendenza alla sussunzione reale del lavoro al capitale, la progressiva
subordinazione dei lavoratori alle leggi del modo di produzione capitalistico:
produci, consuma, crepa.

6 Come proposto già da alcuni “utopisti” del XVI, XVII e XVIII secolo, da Tommaso Moro
a Tommaso Campanella, da Morelly a Mably, che avevano vagheggiato forme di società
ideali o “comuniste”, con tanto di abolizione della proprietà privata e ripartizione del tempo
di lavoro tra tutti i membri della comunità. Cfr F. Engels, L’evoluzione del socialismo
dall’utopia alla scienza, Laboratorio politico, pag. 45 e nota 76.
7 Ne La Repubblica Platone divideva la società in 3 classi (governanti, guerrieri, lavoratori);
per la classe dei governanti prevedeva l’eliminazione della proprietà privata, la comunanza
delle donne e dei figli, la parità tra uomo e donna.




Continua:  http://www.antiper.org/approfondimenti/bello.pdf

lunedì 15 novembre 2010


COMUNITARISMO E UNIVERSALISMO: PROSPETTIVE DI ALTERNATIVA E DI RESISTENZA ALL'IMPERIALISMO AMERICANO




Intervista con il Prof. Costanzo Preve: a cura di L.Tedeschi (tratto da ITALICUM, numero 9-10 settembre-ottobre 2004)


D.Gli elementi caratterizzanti l'attuale fase storico politica dominata dall'impero americano e conseguentemente dal capitalismo, non sono più costituiti dalla dicotomia destra/sinistra, bensì dalla contrapposizione tra gli USA e i popoli e le nazioni che si oppongono al dominio americano.
Al modello capitalista si vuole contrapporre il comunitarismo, quale "difesa dello stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non nazionalista, razzista e imperialista". Dato l'attuale "nichilismo nazionale" e la quasi assenza di valori e costumi identitari specialmente in Europa, quali sono i fondamenti filosofici e politici di un comunitarismo inteso quale modello politico e culturale diverso e migliore dell'individualismo liberale?

R.Mentre 1'impero americano ed il tipo di "turbocapitalimo" che esso sostiene ed organizza sul piano geopolitico esistono e sono corpose realtà storiche e politiche, un "comunitarismo" che sappia essere ad un tempo anti-imperialista e democratico non esiste invece ancora, ed in questo momento resta ancora in larga misura un orizzonte astrattamente possibile. Vi è qui dunque una dolorosa asimmetria.
Così come la conosciamo storicamente la dicotomia Destra/Sinistra non è affatto universale come si pensa, ma è prevalentemente europea e latino-americana. In estrema sintesi essa e già passata attraverso tre fasi storiche fondamentali. In una prima fase (I789-1914 circa) questa dicotomia si è sovrapposta al conflitto sociale, politico ed economico fra democratici prima e socialisti poi (sinistra) ed un fronte vario e nobile di conservatori e di liberali (destra). In una seconda fase (1914-1991 circa) questa dicotomia si è sovrapposta allo scontro, prima soltanto sociale e poi geopolitico, fra il comunismo storico novecentesco ed i suoi alleati (sinistra) ed un fronte vario e mobile che ha visto a volte in conflitto ed a volte alleati i fascismi storici ed il liberalismo capitalistico (destra). Siamo però ormai in una terza fase storica, in cui si è formato un "pensiero unico" capitalistico ed imperialistico, cui il "politicamente corretto" di sinistra è quasi completamente subordinato ed asservito. Il vettore culturale e giornalistico principale di questo asservimento, che non è ancora purtroppo colto come tale da gran parte delle classi e dei gruppi dominati, è stato la trasformazione metabolica della sciagurata generazione del Sessantotto. La critica originariamente di "sinistra" al socialismo autoritario, burocratico e gerarchico di tipo sovietico si è dialetticamente rovesciata in appoggio culturale di "destra" all'impero americano, visto come società libertaria e multiculturale delle sconfinate possibilità individuali. La connessione fra queste due posizioni unilaterali rovesciatesi l'una nell'altra è evidente per una coscienza filosofica dialetticamente bene educata, ma non lo è per gli incoscienti educati ai miti operaistici del monoclassismo sociologico proletario rovesciatosi oggi in sciagurato mito imperiale messianico armato e bombardatore. Il "nichilismo nazionale" denunciato nella domanda è reale, ed è a sua volta frutto della confluenza di due componenti, la componente di "destra" del capitalismo cosmopolitico e senza patria rivolto unicamente ai profitti e particolarmente agli interessi erogati dal capitale finanziario transnazionale, e la componente di "sinistra" critica dello stato borghese nazionale in nome di una sintesi di monoclassismo sociologico proletario globalizzato (il che spiega il perché della facile riconversione di questa componente al mito della globalizzazione) e di critica anarchica della morale borghese tradizionale, particolarmente familiare e sessuale (il che spiega perchè costoro stiano oggi in prima fila nell'imporre a colpi di bombardamenti strategici i costumi sessuali occidentali alle renitenti società "musulmane". La Francia (ed in parte i paesi scandinavi) è oggi il solo paese europeo che resiste, sia pure debolmente, al nichilismo nazionale europeo. Dio la benedica. In questa sacrosanta e benemerita resistenza è troppo debole e residuale per innescare oggi una vera inversione di tendenza su scala europea. E qui, in poche parole, risiede il 70% del dramma storico di oggi.

Segue: http://comunitarismo.it/comu_univ.htm

venerdì 12 novembre 2010

Karl Marx Il capitalismo e la crisi Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché

Il capitalismo e la crisiKarl Marx
Il capitalismo e la crisi
Scritti sceltia cura di Vladimiro Giacché
 

Il libro
La crisi ha riportato Marx agli onori delle cronache. La barba del rivoluzionario di Treviri è tornata ad affacciarsi dalle prime pagine di giornali e periodici: dal «Financial Times» a «Foreign Policy», da «Le Point» al «venerdì di Repubblica». Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è fatto fotografare mentre sfogliava Il capitale e il ministro delle finanze tedesco Steinbrück ci ha detto che «in fondo Marx non aveva tutti i torti».
La verità è che sulla crisi attuale Marx ci dice di più di molti economisti alla moda. Può farlo perché rovescia gli assunti della teoria economica dominante. Per Marx la crisi non è un infortunio del nostro sistema economico, ma il prodotto necessario delle sue leggi di funzionamento più elementari. Del modo in cui nella nostra società sono ripartite la proprietà e la ricchezza, del modo in cui si scambiano le merci e si adopera il denaro. È questo modo radicale di affrontare il problema che rende così attuale il pensiero di Marx.

Karl Marx
Vladimiro Giacché (1963) si è laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa. Lavora nel settore finanziario. È autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico, fra i quali Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990), La filosofia. Storia e testi (con G. Tognini, La Nuova Italia 1996) e Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, Laterza 1997). Per DeriveApprodi ha pubblicato Escalation. Anatomia della guerra infinita (con A. Burgio e M. Dinucci, 2005) e La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008).



un assaggio...
Premessa
Immaginiamo di incontrare un tipo che fa discorsi strani. Che dice che la crisi non è un’eccezione, ma la norma. Che questa crisi non è stata causata né da qualche speculatore troppo avido, né da qualche proprietario di casa troppo credulone. E neppure dalla nuova casta dei banchieri, dai governatori delle banche centrali e dagli analisti delle società di rating. E non perché tutti costoro siano innocenti, ma per un motivo più profondo. Perché la crisi non è un infortunio del nostro sistema economico, ma il prodotto delle sue leggi di funzionamento più elementari. Del modo in cui nella nostra società sono ripartite la proprietà e la ricchezza, si scambiano le merci e si adopera il denaro.
Immaginiamo che questo tizio, sfruttando il nostro sconcerto, si faccia sempre più insolente. E affermi che la crisi non solo non è un problema per il sistema, ma è il solo modo attraverso cui il sistema può risolvere i propri problemi, e riprendere a funzionare senza intoppi. Anche se comunque il suo funzionamento regolare è soltanto una tregua, più o meno breve, prima della prossima crisi.
Immaginiamo di superare il fastidio e l’imbarazzo, e di chiedergli chi gli dia il diritto di raccontarci tutte queste sciocchezze. E che lui ci risponda che tutto questo l’ha inteso, dimostrato e scritto in prima persona. Osservando le crisi di 150 anni fa e scrivendone su un quotidiano degli Stati Uniti, dopo essere stato espulso per attività sovversive da Germania, Belgio e Francia. E poi chiuso a studiare nella British Library di Londra, o a scrivere nella sua casa traboccante di libri e assediata dai creditori. Chiunque non dia per scontato che questo tipo sia un folle potrà trovare qualcosa di interessante in questo libro.

mercoledì 10 novembre 2010

 Costanzo Preve. Marxismo e Filosofia



di Alessandro Monchietto 

Ogni approssimazione alla ricostruzione del pensiero di un autore è anche sempre necessariamente
una scelta di “ordine d’esposizione”di temi e di problemi. Occupandosi del pensiero di Costanzo
Preve, autore sconosciuto ai più ma di indubbia originalità, si prova inevitabilmente un certo senso
di straniamento. L’immagine che si aveva di Marx sino a quel momento va in pezzi, e al suo posto
sopravviene una spiacevole sensazione di smarrimento, di disagio, e diciamolo, anche un certo
fastidio. “Ma chi si crederà mai di essere questo signore, che in maniera quasi innocente stravolge
opinioni consolidate e accettate dai più grandi studiosi marxisti degli ultimi centocinquant’anni?”
La maggior parte dei lettori (soprattutto tra coloro che hanno alle spalle anni di onorata e sincera
“militanza”) risponde con un’alzata di spalle, abbandona il libro e si dedica a qualche ben più
proficua occupazione.
Non è il caso ovviamente dell’autore di questo breve saggio, che ha invece deciso di dedicare la sua
tesi di laurea proprio allo studio di questo singolare filosofo.
Nel tentativo di affievolire questo spaesamento, e di agevolare la lettura del saggio, in questa
introduzione ne esporrò brevemente il contenuto e la struttura.
Inizierò trattando il concetto di economia in Marx, ed in particolare la distinzione tra economia
politica classica, critica dell’economia politica ed economia politica critica di “sinistra”. Saranno
analizzate poi le conseguenze della scelta marxiana di individuare nell’economia politica l’oggetto
da criticare e rovesciare, prima fra tutte la rinuncia marxiana alla fondazione filosofica della propria
teoria. Affronteremo infine il delicato tema della presenza/assenza di una teoria politica nel pensiero
marxista, e delle sue possibili cause.
Nel secondo capitolo, mi dedicherò al problema della ricostruzione del profilo filosofico originale
di Marx. In questo capitolo verrà affrontato inizialmente il concetto di scienza e quello di scienza
filosofica; passeremo poi allo studio della nozione di alienazione nel pensiero marxiano, con un
breve excursus sul concetto di Gattungswesen e sull’influenza esercitata dal pensiero di Aristotele;
infine sarà dedicato un paragrafo all’analisi del materialismo in Marx, e delle innovazioni proposte
dal professor Preve a questo riguardo.
Nel terzo ed ultimo capitolo analizzeremo invece quelli che (per Preve) sono gli errori più rilevanti
presenti nel pensiero marxiano, ossia la tesi della capacità rivoluzionaria intermodale della classe
operaia e proletaria (rivelatasi largamente inesistente), la concezione della borghesia come unica
classe-soggetto del capitalismo (dove, in realtà, il capitalismo si sviluppa per via largamente
impersonale), e infine l’ipotesi dell’incapacità del sistema capitalista di sviluppare pienamente le
forze produttive (dove in realtà si esperisce quotidianamente la sua smisurata abilità proprio in
questo, anche se ciò avviene in un contesto di distruzione ecologica e antropologica).

Spero con ciò di aver fatto cosa utile al lettore.

Segue:  http://comunitarismo.it/Monchietto.pdf

martedì 9 novembre 2010

 USA, LA FORZA DEL DECLINO


Giovanni Arrighi  


Ci vorrà ancora tempo per fare un bilancio appena attendibile della recente guerra dei Balcani. Sotto il profilo umanitario per il quale si diceva essere combattuta, non si può che associarsi per il momento a Giovanni Paolo II nel dichiararne l'esito una "sconfitta per l'umanità". Oltre a questo, un qualsiasi bilancio richiederebbe la preliminare identificazione dei suoi obiettivi reali.
Noam Chomsky ed altri hanno già dimostrato, meglio di quanto potrei fare io, quanto fossero sospette le motivazioni umanitarie della guerra. Mi basti ricordare che durante tutto il conflitto l'argomento umanitario è stato legato dai guerrafondai a un problema che chiamavano di "credibilità". Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO dovevano provare che la minaccia di usare la forza era reale, nel senso che se le condizioni poste dalla NATO non fossero state accolte, alla forza si sarebbe effettivamente ricorso e in questo caso la NATO avrebbe nettamente prevalso.
Se una cosa è chiara, è che la questione della credibilità (puro argomento di potere) è stata assolutamente prioritaria rispetto a qualsiasi obiettivo umanitario, ammesso che ce ne fossero. La cosa più impressionante è stata la durezza e l'ipocrita determinazione con la quale il comando della NATO ha minacciato di continuare senza tregua una campagna aerea sempre più distruttiva finché Milosevic (o ancora meglio chi lo avesse destituito e gli fosse succeduto) non si fosse piegato e non ne avesse accettato incondizionatamente il diktat.
Se c'era ancora bisogno di una prova, essa è stata fornita dal discorso sulla "vittoria" del Presidente Clinton il 10 giugno. Per lui "vittoria" significava che la Jugoslavia aveva ceduto più o meno incondizionatamente. Delle sofferenze umane inflitte alla popolazione jugoslava, sia serba che di etnia albanese, ha appena fatto menzione, a parte intimare ai serbi che, se non si fossero liberati di Milosevic, non avrebbero ricevuto nessun aiuto per ricostruire il paese devastato. Come doveva esser chiaro fin dall'inizio, il vero obiettivo della guerra era mostrare la forza degli USA e della NATO. Gli appelli umanitari non erano che un mezzo, camuffato da fine, per mobilitare il consenso, nel proprio paese e all'estero, attorno a un uso sproporzionato della violenza in palese violazione delle leggi internazionali.
Ma, si può chiedersi, perché premeva tanto agli Stati Uniti e alla NATO dimostrare la propria credibilità? Premeva in sé o nel quadro di un più vasto obiettivo? E in questo caso, entro che limiti la guerra è riuscita a raggiungerlo? Per cercar di rispondere a queste domande sarà utile considerare quest'ultimo exploit militare americano non isolatamente, ma come un anello in una catena di tappe significative nella traiettoria del potere globale degli USA. I quesiti possono quindi essere riformulati come segue: il bisogno di provare la credibilità dell'apparato militare USA/NATO è sintomo di un declino a lungo termine del potere globale degli Stati Uniti e il tentativo di rallentarlo? O è segno e strumento di una ulteriore crescita del loro potere mondiale? La guerra dei Balcani ne ha rallentato il declino o ha rilanciato il potere degli USA nel mondo?

Comincerò con uno schizzo elementare dell'andamento del potere mondiale americano negli ultimi trent'anni. Grosso modo esso sembra aver seguito una traiettoria ad U, dove ogni decennio indica una tendenza diversa: un rapido declino negli anni '70, un toccare il fondo negli anni '80, una spettacolosa ripresa negli anni '90. Analizziamo brevemente questa traiettoria decennio per decennio.
Il declino precipitoso degli anni '70 è segnato da due eventi chiave di portata mondiale fra il 1969 e il 1973: la disfatta nel Vietnam e il contemporaneo collasso del sistema di Bretton Woods, con il quale gli USA avevano governato le relazioni monetarie mondiali. Benché negli stessi anni avessero dimostrato, atterrando sulla luna, di poter facilmente raggiungere e superare l'URSS nella corsa agli armamenti, la loro sconfitta nel Vietnam dimostrava la debolezza del loro apparato militare, a tecnologia avanzata e forte capitale, davanti alla resistenza decisa di uno dei paesi più poveri del globo. L'enorme spesa degli USA per la guerra nel Vietnam aveva avuto come risultato un'enorme crisi fiscale dello "stato militar-sociale". Altrettanto devastante era stata la prova che l'apparato militare americano non era in grado di far altro che riprodurre l'equilibrio del terrore con l'URSS a livelli più costosi e a sempre più alto rischio. Il potere globale degli USA cadde precipitosamente, toccando il fondo alla fine degli anni '70 con la rivoluzione iraniana, il nuovo aumento del prezzo del petrolio, l'invasione sovietica dell'Afghanistan e un'altra grossa crisi di fiducia nel dollaro.
È in questo contesto che negli ultimi anni dell'amministrazione Carter, e con maggior determinazione da parte di Reagan, un cambiamento drastico nelle scelte politiche prepara le basi per una ripresa. Sul terreno militare, il governo degli Stati Uniti evita con cura (come testimonia il caso del Libano) il confronto su terra che li aveva portati alla sconfitta in Vietnam, preferendo o guerre per procura (come in Nicaragua e in Afghanistan), o confronti meramente simbolici con nemici insignificanti (come a Grenada e a Panama) o lo scontro aereo dove l'apparato high-tech americano si trovava in assoluto vantaggio (come in Libia). Allo stesso tempo, gli Stati Uniti aprono un'escalation nella corsa agli armamenti con l'URSS - anzitutto, anche se non solo, attraverso l'Iniziativa di Difesa Strategica - i cui costi vanno assai oltre le possibilità dell'Unione Sovietica. L'URSS si trovò intrappolata in un duplice confronto che mai avrebbe potuto vincere e finì col perdere: quello in Afghanistan, dove il suo apparato militare ad alta tecnologia incontrava le stesse difficoltà degli Stati Uniti nel Vietnam, e quello sulla corsa agli armamenti, in cui gli Stati Uniti potevano mobilitare risorse molto al di sopra della sua portata.
Questo mutamento nella politica militare degli Stati Uniti finì col portare l'URSS al collasso e segnò l'inizio della grande ripresa della potenza globale americana negli anni '90. Nondimeno, non si sottolineerà mai abbastanza che il cambiamento politico decisivo fu quello nella sfera finanziaria, più che quello militare. Senza di esso sarebbe stato impossibile per gli USA spendere per la corsa agli armamenti più di quanto potesse fare l'URSS.
I cambiamenti delle politiche - drastica contrazione nella disponibilità di moneta, più alti tassi di interesse, meno tasse ai redditi alti, libertà praticamente illimitata per il capitale d'impresa - liquidarono ogni vestigia del New Deal. Così gli USA cominciarono a competere aggressivamente nel capitale mondiale provocando uno straordinario mutamento di direzione nel suo flusso globale. Negli anni '50 e '60 gli USA erano la più importante fonte di liquidità mondiale e di investimenti diretti, negli anni '80 erano passati ad essere il paese più debitore e a maggior ricettività di investimenti diretti. L'altra faccia della medaglia era la crisi che danneggiava paesi a reddito basso e medio, perlopiù non in grado di competere con successo con il gigante Stati Uniti sui mercati finanziari del globo. Le economie dell'America Latina, e soprattutto dell'Africa, furono devastate. La crisi fu avvertita anche nell'Europa Orientale, riducendo ulteriormente la capacità dell'URSS di competere con gli USA nella corsa agli armamenti, e contribuendo in modo deciso alle tensioni che andavano dividendo la Jugoslavia e intensificando i conflitti etnici. Così mentre gli Stati Uniti godevano di crediti praticamente illimitati sui mercati finanziari, il Secondo e il Terzo Mondo erano messi in ginocchio dall'improvviso esaurimento del loro credito sugli stessi. Quel che l'apparato militare non era riuscito a conseguire, fu ottenuto dai mercati finanziari.
Questa vittoria presentava però un problema. Il Giappone e la grande Cina che operava fuori da Taiwan, Hong Kong, Singapore, e altri importanti centri commerciali del Sud Est asiatico cominciarono ad emergere come le più importanti nazioni creditrici del mondo e come organizzatrici e finanziatrici di una espansione industriale regionale che per ritmo e portata aveva pochi precedenti nella storia del capitalismo. Durante gli anni '80, l'Est asiatico sembrò il principale beneficiario sia della competizione interstatale per il capitale mobile sia dell'escalation nella guerra fredda. Mentre stagnavano commercio e produzione mondiale, l'espansione economica dell'Est asiatico metteva mano su una quota crescente della liquidità mondiale. Le banche giapponesi cominciarono a dominare i patrimoni internazionali e gli investitori istituzionali giapponesi dettarono il ritmo del mercato nelle tesorerie degli Stati Uniti. Pareva aver ragione chi aveva pronosticato l'ascesa di un "superstato giapponese" o di un Giappone "numero uno del mondo". Gli Stati Uniti si stavano risollevando dalla profonda crisi degli anni '70 e mantenevano sulla difensiva l'URSS e il Terzo mondo. Ma se ormai era il denaro, e non le armi, la fonte primaria del potere mondiale - come indicava anche la ripresa della ricchezza USA - il Giappone non costituiva la nuova e più insidiosa sfida alla supremazia globale degli Stati Uniti?
Questi timori sparirono nei primi anni '90 con il crollo dell'URSS e quello, quasi simultaneo, della Borsa di Tokyo fra il 1990 e il 1992 - due eventi che cambiarono la traiettoria del potere mondiale americano. Gli USA restavano la sola superpotenza militare, e non c'era prospettiva alcuna che avessero dei concorrenti nell'immediato futuro. Inoltre, l'addomesticamento della politica sovietica permetteva di premere sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché sostenesse e legittimasse le azioni politiche degli USA nel mondo. Invadendo il Kuwait, Saddam Hussein offrì un'opportunità che gli Stati Uniti colsero al volo montando un megashow televisivo sul loro potere tecnologico. Il tentativo di prolungarlo con la spedizione "umanitaria" in Somalia fallì perché la televisione trasmise l'immagine di un soldato americano morto in un'imboscata e trascinato per le strade di Mogadiscio. L'incidente risvegliò la sindrome del Vietnam e provocò il ritiro immediato delle truppe americane. Maggior successo ebbero le successive "missioni umanitarie" ad Haiti e soprattutto in Bosnia. In conclusione, caduta l'URSS e dopo la guerra del Golfo, il potere militare americano è rimasto inattaccato e, sul suo territorio, inattaccabile.
La guerra del Golfo aveva anche dimostrato che, nonostante la sua potenza economica e finanziaria, il Giappone era incapace di una posizione indipendente nella politica mondiale, lasciando ancora una volta egemoni gli Stati Uniti. Inoltre il suo stesso potere economico e finanziario entrava in discussione, in quanto l'economia giapponese pareva incapace di riprendersi del tutto dal crac degli anni 1997-98, quando la quasi stagnazione dell'economia stette per volgere in recessione. Da tutto il mondo, e soprattutto dall'Asia Orientale, i capitali continuavano ad affluire negli Stati Uniti, alimentando il lungo boom speculativo a Wall Street e permettendo all'economia statunitense di espandersi molto più velocemente che nell'ultimo ventennio malgrado il forte e crescente deficit commerciale. All'approssimarsi del nuovo millennio, non solo la forza militare ma l'egemonia americana sembravano intatte ed intoccabili.
Dunque la risposta più plausibile alle domande sulla volontà degli apparati militari USA/NATO di mostrarsi credibili nella guerra dei Balcani, è che essa era segno d'un rafforzamento del potere globale USA piuttosto che di un suo declino. E poiché Stati Uniti e NATO hanno dimostrato nei Balcani che le loro minacce militari non erano né vane né inefficaci, potremmo pensare che quella guerra abbia accentuato questo rafforzamento. È possibile, anzi probabile, che così la vedano i guerrafondai americani e britannici. Ma è anche possibile e probabile che la situazione non sia affatto quella che sembra nell'ottica degli anni '90 - e che si tratti di una nuova fase crescente nella traiettoria ad U cui all'inizio accennavo. È anzi possibile, a mio avviso, che l'errata lettura della situazione da parte anglo-americana, lungi dall'accentuare la crescita che imaginavano del potere globale USA, porti a un totale collasso di ciò che rimane del loro nuovo ordine mondiale.

Questo giudizio si fonda su due studi (il secondo in collaborazione con altri) nei quali ho cercato di capire quali siano le tendenze attuali attraverso l'osservazine di alcune fasi della storia del capitalismo che somigliano, per diversi e rilevanti versi, all'attuale. Il primo studio (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996; edizione EST, 1999) è dedicato alle espansioni finanziarie che caratterizzano i processi conclusivi di ogni fase di sviluppo del capitalismo dalla modernità ai giorni nostri. Il secondo (Giovanni Arrighi and Beverly Silver et al, Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis e Londra, 1999) si concentra invece su analogie e differenze tra l'attuale passaggio di egemonia (verso un approdo ancora ignoto) e due precedenti passaggi: quello dall'egemonia olandese a quella britannica nel diciottesimo secolo e dall'egemonia britannica a quella americana nel tardo diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo. Assieme questi due studi forniscono le seguenti ottiche sull'attuale dinamica del potere globale americano.
Primo: in gradi e forme diverse, la traiettoria ad U che ha caratterizzato il potere globale americano negli ultimi trent'anni è tipica anche dei precedenti leader dei processi mondiali di accumulazione di capitale nelle fasi conclusive della loro egemonia. Nel passato, come oggi, il recupero della ricchezza dello stato egemone in declino si è basato, dopo una crisi iniziale, sulla capacità di volgere a proprio vantaggio l'intensa concorrenza interstatale nell'accumulazione di capitale mobile ricavato dalla maggiore espansione del commercio e della produzione mondiali. Questa capacità era e resta basata sul fatto che lo stato dall'egemonia in declino mantiene ancora il centro del sistema economico mondiale. Nonostante cali la sua capacità di competere sui mercati dei beni mobili, la sua capacità di agire come centro di pulizia del sistema finanziario internazionale è maggiore di quella di qualsiasi altro centro, inclusi quelli che emergono come più competitivi sui mercati commerciali.
Secondo: nelle transizioni di egemonia del passato, la ripresa del potere dello stato egemone in declino è il preludio di un aumento del disordine mondiale e si conclude con il crollo dell'egemonia stessa. Tre tendenze sembrano essere decisive nel provocare l'incalzante disordine. Una è costituita dal sorgere di poteri militari che lo stato egemone in declino non riesce a mantenere sotto controllo. Un'altra, dall'emergere di stati e gruppi sociali che pretendono l'accesso alle risorse del sistema, in misura più grande di quanto possa essere consentito all'interno dell'ordine egemone esistente. E infine, la tendenza dello stato egemone in declino a usare il potere che gli resta (o riprende) per trasformare la sua egemonia (basata su una forma di consenso) in dominio dello sfruttamento (basato essenzialmente sulla coercizione).
Terzo: rispetto alle transizioni precedenti, oggi non si vede praticamente segno di un potere anche lontanamente in grado di sfidare militarmente lo stato egemone in declino. Invece dell'emergere di rivali militari, abbiamo assistito al crollo del solo rivale credibile, l'URSS. Ma se manca ogni segno di nuove potenze capaci di sfidare militarmente gli Stati Uniti, le altre due tendenze sono assai evidentememte più forti di quanto non lo fossero nelle transizioni passate. Il declino del potere mondiale degli Stati Uniti negli anni '70 è stato dovuto soprattutto alle difficoltà degli USA di far fronte alla richiesta del Terzo Mondo di accedere a una quota maggiore delle risorse mondiali. E la successiva ripresa degli USA fu dovuta soprattutto al successo della contro-rivoluzione globale di Reagan nel contenerla e financo abbatterla. La sua contro-rivoluzione consistette appunto nel trasformare l'egemonia degli Stati Uniti in crescente dominio per lo sfruttamento. L'egemonia degli Stati Uniti negli anni '50 e '60 si basava infatti non solo sulla coercizione ma sul consenso strappato ai paesi del Terzo Mondo con la promessa di un New Deal mondiale, cioè della ricchezza per tutti attraverso lo "sviluppo". Negli anni '80 e '90, invece, ai paesi del Terzo Mondo e del vecchio Secondo Mondo è stato imposto senza cerimonie di subordinare lo "sviluppo" agli imperativi dei mercati finanziari mondiali, che redistribuivano incessantemente la ricchezza agli Stati Uniti e agli altri paesi ricchi.
Nonostante l'apparente successo, questo passaggio dall'egemonia al dominio può considerarsi instabile non meno di quelli del passato. Due contraddizioni sembrano particolarmente difficili da risolvere: una è che persiste lo slittamento verso l'Est asiatico dell'epicentro del processo globale dell'accumulazione di capitale. Contrariamente all'opinione diffusa, il fatto che persista in Giappone la crisi economica dopo il crac del 1990-92, e anzi sia diventata crisi di tutto il Sud Est asiatico nel 1997-98, non significa di per sé che lo slittamento dell'epicentro verso l'Est sia cessato. Come i miei coautori ed io dimostriamo in "Chaos and Governance in the Modern World System", nelle transizioni precedenti i nuovi centri emergenti dei processi di accumulazione di capitale su scala mondiale furono epicentri di turbolenza piuttosto che di espansione, prima di acquisire capacità di guida del mondo verso un ordine diverso. Fu il caso di Londra e dell'Inghilterra alla fine del diciottesimo secolo, e ancora più di New York e degli Stati Uniti negli anni '30. Affermare che le crisi finanziarie degli anni'90 nel Giappone e nell'Est asiatico provano che l'epicentro dei processi globali di accumulazione del capitale non è passato dagli Stati Uniti all'Est asiatico, equivale a dire che il crac di Wall Street degli anni 1929-31 e la conseguente crisi americana erano la prova che l'epicentro del processo globale di accumulazione di capitale non era passato dal Regno Unito agli Stati Uniti.
Inoltre, alle crisi del Giappone e dell'Est asiatico si affianca invece la continua espansione economica della grande Cina (Repubblica popolare cinese, Hong Kong, Taiwan e Singapore). Data la dimensione demografica e la centralità storica della Cina nella regione, questa continua espansione è molto più significativa per la crescita dell'Est asiatico che i rallentamenti e le contrazioni in altre zone della regione. Certo, nonostante i suoi progressi, la Cina è ancora un paese a basso reddito. E non c'è garanzia che l'espansione economica cinese non sia anch'essa caratterizzata da crisi. È probabile che lo sarà, poiché, come già detto, le crisi sono un aspetto costitutivo dei centri economici emergenti. Nondimeno, il fatto stesso che la Cina, con la sua enorme popolazione, sia sfuggita allo strangolamento finanziario che ha messo in ginocchio il Secondo ed il Terzo Mondo è una conquista di portata storica. Se le inevitabili crisi future saranno gestite con un minimo di intelligenza politica, non c'è motivo perché non si possano tramutare in momenti di emancipazione dal dominio americano, non solo per la Cina, ma per l'Asia dell'Est e il mondo in generale.
Che così accada o no, lo slittamento persistente dell'accumulazione di capitale verso l'Asia dell'Est diminuisce la capacità degli Stati Uniti di restare al centro dell'economia globale. Già negli anni '90 la buona tenuta dell'economia degli Stati Uniti ed il boom speculativo di Wall Street sono dipesi totalmente dal denaro e dai beni a buon mercato dell'Asia dell'Est. Mentre il denaro, in forma di investimenti e prestiti, ha permesso all'economia degli Stati Uniti di continuare ad espandersi nonostante il vasto e crescente deficit commerciale, i beni a buon mercato hanno contribuito a tener bassa la pressione inflazionistica nonostante l'espansione. Non è chiaro per quanto tempo una situazione del genere potrà essere sostenuta o come gli Stati Uniti possano modificarla senza metter fine all'espansione economica. Ma è chiaro che più a lungo essa dura e più l'attuale dipendenza economica dell'Asia dell'Est dagli Stati Uniti si rovescerà nel suo contrario.
La seconda contraddizione della ripresa del potere degli Stati Uniti negli anni '90 è la crescente dipendenza dai mezzi militari, non solo politicamente ma anche economicamente. Il complesso industriale-militare degli Stati Uniti è sempre stato uno dei maggiori traini (se non il maggiore in assoluto) della loro indiscussa supremazia nella produzione e nelle attività tecnologicamente avanzate - dalla produzione di piccole armi nel diciannovesimo secolo, che dette origine al sistema americano di produzione di massa, al programma spaziale in risposta allo Sputnik sovietico, che dette origine ai sistemi satellitari e computerizzati di oggi. Questa indiscussa supremazia è attualmente il solo vantaggio decisivo dell'industria americana sui mercati globali. Più importante ancora, la combinazione fra tecnologia avanzata e produzione militare ha dotato il governo degli Stati Uniti di uno strumento potente per piegare a favore del business americano le regole del mercato globale cosiddetto "libero". Più si intensifica la concorrenza all'interno e all'estero più diventa essenziale questo non così visibile strumento di vantaggio commerciale e di auto-protezione. Ma mentre è aumentata l'importanza del complesso industriale-militare per gli interessi economici americani, la sua utilità sul campo strettamente militare è caduta drammaticamente con la caduta dell'URSS e la fine della guerra fredda.
Come abbiamo notato prima, il complesso industriale-militare americano serviva soprattuto a riprodurre l'equilibrio del terrore con l'URSS a livelli sempre più costosi e rischiosi. Ma, come ha dimostrato l'esperienza in Vietnam e quella dell'URSS in Afghanistan, questi apparati industriali-militari a tecnologia avanzata si sono rivelati piuttosto inefficienti per presidiare il mondo sul terreno nei vari continenti. Presidiare il mondo sul terreno comporta rischiare la vita dei cittadini per cause che per i cittadini hanno poco senso. Di conseguenza, non appena l'escalation degli armamenti degli anni '80 ha superato la soglia sostenibile e provocato la caduta dell'URSS, l'enorme apparato militare statunitense ad alta tecnologia ha perso il suo valore militare. Perduto l'unico credibile nemico militare, perdeva credibilità come apparato di guerra.
La contraddizione tra peso crescente del complesso militare-industriale nell'economia, anzi sua fonte primaria, da una parte, ed il suo decrescente valore sul piano strettamente militare, non è mai stata risolta. La sempre più importante, anche se non visibile, funzione economica dell'apparato militare-industriale non può essere ammessa apertamente senza togliere credibilità alla sua funzione apparente. Peggio, un'ammissione del genere denuncerebbe che l'apparato militare-industriale americano è diventato forse il più importante strumento di modifica e rottura delle regole dei "liberi mercati" che gli Stati Uniti predicano con fervore. Occorreva quindi trovare una funzione strettamente militare dell'apparato militare-industriale degli USA. Questo è stato il principale obiettivo della mezza dozzina di "guerre" calde - di fatto esercizi militari più che guerre vere e proprie - combattute dagli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda. In alcuni casi, soprattutto nel Golfo e in misura minore nei Balcani, questi esercizi militari hanno anche funzionato da megapubblicità della merce a tecnologia avanzata degli Stati Uniti.
Ma il principale obiettivo era trovare un sostitutivo alla funzione militare che l'apparato militare-industriale americano aveva perduto con la caduta dell'URSS. Quanto successo hanno avuto queste guerre in tal senso? Mi sembra scarso. Hanno dimostrato soprattutto quel che tutti già sapevano: che gli Stati Uniti sono tecnologicamente in grado di radere al suolo qualsiasi paese vogliano. È indiscutibile che, se vogliono, hanno i mezzi per far saltare in aria il mondo intero. Ma in Somalia, ad Haiti, in Bosnia ed in Kosovo, hanno anche dimostrato che la nuova apparente funzione delle guerre americane - gli "obiettivi umanitari" selezionati a discrezione - non vale la vita di un solo cittadino americano.
A conti fatti, la sindrome del Vietnam è ancora viva e vegeta, e ha lasciato l'apparato militare-industriale americano privo di una funzione credibile. Si può concludere che i fondamenti dell'attuale ripresa della potenza globale americana non sono solidi come sembrano. Usarne per consolidare il dominio di un pugno di paesi ricchi sul resto del mondo è la ricetta più sicura per il disastro globale.
È da sperare che i leader dei paesi ricchi saranno abbastanza saggi da far uso della propria potenza per risolvere piuttosto che aggravare i problemi che minano il globo. Sfortunatamente, come ebbe a dire Abba Eban: "La storia insegna che gli uomini e le nazioni si comportano saggiamente solo quando hanno esaurito ogni altra alternativa".
  

sabato 6 novembre 2010

Intervista a Costanzo Preve



a cura di Franco Romanò

 
Nell’ampia intervista che pubblichiamo, s'insiste sui punti nevralgici della
Trilogia: Storia dell’etica, Storia della dialettica e Storia del materialismo,
scritti dal filosofo torinese e tutti pubblicati dall’editore Petite Plaisance. In
essa Preve suggerisce alcune linee per un bilancio teorico del socialismo
reale, da lui definito comunismo novecentesco. Prendendo spunto dalla
critica di Lucáks al materialismo dialettico e dalla sua positiva intuizione
dell’ontologia dell’essere sociale, Preve individua nella sovrapposizione
fra dialettica logica e dialettica storica, uno dei motivi della sconfitta
comunismo novecentesco, che l’autore vede fortemente inquinato da
residui positivisti. In tale contesto Preve interpreta il marxismo come
filosofia della prassi e non della natura, interpretazione avanzata per la
prima volta da Gentile e fatta propria da Gramsci.
Da questa convinzione nasce la riflessione su Marx, da Preve considerato
un filosofo idealista che ha prodotto una teoria strutturalista del modo di
produzione capitalistico, servendosi della dialettica hegeliana e
applicandola al nuovo oggetto sociale. Critico nei confronti di tutte le
correnti di pensiero marxiste che tendono ad allentare il legame fra Marx
ed Hegel e a negare l’importanza del concetto di alienazione, Preve
considera Marx un pensatore tradizionale che risale alle radici greche della
filosofia e reagisce alla mancanza di etica comunitaria del moderno
capitalismo, così come il pensiero filosofico greco aveva reagito
all’avanzare della società schiavista. Nella parte finale dell’intervista la
riflessione filosofica s’intreccia a questioni riguardanti la crisi economica
attuale, il venir meno della correlazione dialettica necessaria fra
proletariato e borghesia e altri temi di più stretta attualità, come i nuovi
soggetti sociali, l’area dei cosiddetti nuovi diritti e le aspettative suscitate
dalla presidenza Obama.

Segue:  http://comunitarismo.it/Intervista%20a%20Costanzo%20Preve.pdf

giovedì 4 novembre 2010

“1980: i 35 giorni che hanno cambiato l’Italia. Cause ed effetti della madre di tutte le sconfitte”
Traccia dell’intervento per il dibattito
  
organizzato da Sinistra Critica nel 30° anniversario dell’ottobre 1980   circolo ARCI Oltrepo di Torino - venerdì 22 ottobre 2010
raccontano la storia: Nino De Amicis, storico del movimento operaio – Pietro Perotti e Cesare Allara, già delegati FLM Fiat Mirafiori – Franco Turigliatto, responsabile Lavoro LCR anni ’80

Cesare Allara 

            Due sono le domande a cui rispondere per capire gli avvenimenti torinesi dell’autunno 1980 e la relazione che essi hanno con la situazione attuale.
            La sconfitta dei lavoratori ai cancelli della FIAT dopo 35 giorni di lotta era inevitabile? E se non ci fosse stata quella sconfitta, oggi i rapporti di forza fra le classi in Italia sarebbero diversi da quelli che sono? In altre parole, e per stare all’affascinante titolo del dibattito, l’autunno 1980 a Torino è la madre di tutte le sconfitte?
            Alla prima domanda rispondo con quasi assoluta certezza in modo affermativo. Forse, un forse oltremodo aleatorio, se gestita in modo più energico dalle avanguardie del consiglio di fabbrica, la battaglia dei 35 giorni avrebbe potuto finire in un modo meno catastrofico, ma la guerra a mio avviso era ormai irrimediabilmente perduta.
            Se quanto ho affermato è vero, conseguentemente l’autunno 1980 ai cancelli della FIAT non può essere considerato la madre di tutte le sconfitte. La matrice della sconfitta degli operai FIAT va invece ricercata negli avvenimenti degli anni ’70 e soprattutto nelle scelte politiche che in quegli anni fecero i sindacati e i partiti della sinistra: insomma, a mio avviso, l’ottobre 1980 notificò una sconfitta che era già maturata ampiamente in precedenza.
Una disamina del comportamento delle forze politiche di sinistra e dei sindacati in quei fatidici anni ’70 è anche la migliore chiave di lettura per comprendere le ragioni della storica disfatta culturale e politica culminata nell’aprile 2008 con l’uscita dal Parlamento italiano di qualsiasi rappresentanza della cosiddetta “sinistra radicale”, comunista o sedicente tale. Nonché del declino e della crisi della democrazia rappresentativa così com’era stata prevista dalla Costituzione; crisi della rappresentatività che spianerà la strada a Berlusconi e al berlusconismo di destra e di sinistra. Responsabilità questa, che come dimostrano i fatti, è tutta, ma proprio tutta, da addebitare alle forze della sinistra istituzionale e alla complicità dei sindacati.
            Va notata innanzitutto l’eccezionale durata in Italia del ciclo di lotte iniziate alla fine degli anni ’60, lotte di cui la sinistra extraparlamentare ne fu l’avanguardia, dentro e fuori del sindacato. In altri dibattiti fatti in precedenza, quasi tutti i protagonisti di quelle lotte hanno convenuto che era impossibile, anche per ragioni fisiche, mantenere per tanti anni altissimi livelli di militanza e di conflittualità. Mancò una sponda politica, mancò il partito della classe operaia (come vedremo più avanti, il PCI non era più tale) che avrebbe dovuto amplificare le lotte in fabbrica e produrre quelle alleanze sociali che avrebbero permesso alla classe operaia di sentirsi meno isolata. A ben vedere, il partito e le alleanze sociali è ciò che manca ancora oggigiorno. Questo enorme pezzo di responsabilità della sconfitta va tutto attribuito alle organizzazioni della sinistra extraparlamentare.
            Quel ciclo di lotte operaie avviene verso il termine di quella che lo storico inglese Eric Hobsbawm ne “Il secolo breve” ha definito “l’età dell’oro”, cioè quel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale a circa la metà degli anni ’70, così soprannominato perché un’ondata di relativo benessere investì in varia misura l’Occidente capitalistico.
Molto brevemente, sono proprio le lotte dei lavoratori, unite alla saturazione dei tradizionali mercati europei, alla crisi petrolifera determinata dalle nazionalizzazioni operate nei primi anni ’70 nei paesi arabi e alla guerra del Kippur dell’ottobre 1973, che affrettano la fine del ciclo keynesiano.
Si pone per i padroni il problema di ricreare quei margini di profitto che un’economia basata sulla spesa pubblica, sull’inflazione, sul welfare-state ecc, non gli può più garantire, cambiando anche un’organizzazione della produzione che si era rivelata assai vulnerabile.
La riorganizzazione del sistema capitalistico si appoggia nei primi anni ’70  alle teorie del movimento neo-liberista di cui sono sostenitori l’economista Milton Friedman e l’università di Chicago, teorie basate soprattutto sulle privatizzazioni, sulle liberalizzazioni, sull’antistatalismo in generale.
            Queste “nuove” teorie sono sperimentate subito nel Cile di Pinochet, ma il più famoso e rigoroso dei Chicago Boys (cioè i seguaci di Friedman) rimane l’economista Domingo Cavallo che venne nominato ministro dell’Economia in Argentina nel 1991. Negli anni ’90 propinò appunto una “cura da Cavallo” al suo paese, stabilendo per legge la parità del cambio fra il dollaro USA e il peso argentino, azzerando un’inflazione a quattro cifre, ma provocando poi nel 2001 il disastro del debito pubblico argentino con le conseguenze che tutto il mondo ancora ricorda.
             Questi fattori internazionali uniti a quelli specifici italiani che adesso andrò molto sinteticamente ad enunciare, mi portano a concludere che, anche se non ci fosse stata la sconfitta dell’ottobre 1980, per la natura dei sindacati e della “sinistra” italiana che vedremo fra breve, i rapporti di forza tra le classi sarebbero più o meno quelli che ci ritroviamo oggi.
Venendo quindi all’Italia, occorre tenere conto di due fattori essenziali per comprendere gli avvenimenti: la subalternità della CGIL al PCI per cui la politica del sindacato era strettamente legata alle esigenze del partito, e soprattutto il cambiamento della natura del PCI, cambiamento che a mio parere avviene intorno all’inizio degli anni ’70, sicuramente nel 1972 con la fine della segreteria di Luigi Longo.
            A quel tempo il PCI era l’unico partito di sinistra alternativo alla DC. Il PSI ormai dai primi anni ’60 aveva optato per la collaborazione governativa con la DC e con gli altri partiti centristi, formando con questi alleati i primi governi di centrosinistra; ed è proprio per questa sua vocazione governista che inizia a trasformarsi, già negli anni ’60, da partito operaio a partito degli affarismi e delle clientele. 
Il PSIUP, nato nel gennaio 1964 da una scissione da sinistra del PSI, nelle elezioni del  maggio 1972 non ottiene il quorum e si scioglie. Molti suoi iscritti come ad esempio Fausto Bertinotti aderiscono al PCI, mentre con la nuova segreteria Berlinguer fanno rapidamente carriera nel partito giovani rampanti come D’Alema, Fassino, Veltroni e si iscrivono personaggi come Sandro Bondi, al suo paese soprannominato “ravanello” perché rosso fuori e bianco dentro. 
E’ sbagliato, parlando dei personaggi sunnominati, tirare in ballo la categoria di tradimento degli ideali del partito. Effettivamente costoro, come hanno più volte dichiarato, non furono mai comunisti , non volevano in alcun modo cambiare radicalmente lo stato di cose presente, ma semplicemente gestire al posto della DC o con la DC il sistema capitalistico vigente. Cosicché all’interno del più grande partito comunista dell’Occidente, i comunisti erano una trascurabile minoranza e facevano riferimento prevalentemente ad Armando Cossutta.
I tanti cambi di nome che il partito effettua, PCI-PDS-DS-PD, segnano anche le sue innumerevoli evoluzioni ideologiche: da partito della classe operaia a partito socialdemocratico nel senso peggiore del termine, a partito neoliberista, a concorrente della destra nella difesa degli interessi padronali,  dalle ordinanze della BCE a quelli di Marchionne.
Tornando agli anni ’70, basta mettere in fila alcuni dei principali eventi politici e sindacali per rendersi conto delle trasformazioni.
Dopo il colpo di stato in Cile contro il governo di Salvador Allende l’11 settembre 1973, Berlinguer con tre articoli su Rinascita  lancia il “compromesso storico”. I tre articoli escono fra il 28 settembre 1973 e il 12 ottobre 1973 con il titolo generale di Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. I titoli sono: Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni – Via democratica e violenza reazionaria – Alleanze sociali e schieramenti politici.
Scrive Berlinguer: “Sarebbe del tutto illusorio pensare che anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti e della rappresentanza parlamentare … questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse espressione di tale 51%. Ecco perché noi parliamo non di una “alternativa di sinistra”, ma di una “alternativa democratica”, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”.
Grazie soprattutto alle lotte e alle conquiste dei lavoratori, alle elezioni amministrative del 15 giugno 1975,  vi è una grande avanzata delle sinistre e in particolare del PCI. Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Venezia sono conquistate dalla sinistra. A Torino, un numero impressionante di cittadini “entusiasti”vuole iscriversi al PCI; la federazione torinese blocca per un breve periodo di tempo le iscrizioni.
In un’intervista a Gianpaolo Pansa del Corriere sella Sera del 15 giugno 1976, Berlinguer dichiara: “Non desidero affatto l’uscita dell’Italia dalla NATO, perché dentro il Patto Atlantico, sotto questa organizzazione, l’Italia oltre che contribuire a consolidare gli equilibri internazionali, permette di costruire il socialismo nella libertà”.
Alle elezioni politiche del 20-21 giugno 1976 il PCI raggiunge il 34,4%, miglior risultato mai ottenuto.
Il 29 luglio 1976 nasce il nuovo governo monocolore Andreotti che ottiene la “non sfiducia” di tutti i partiti compreso il PCI e ad eccezione del MSI.
Nell’ottobre 1976 durante un Comitato Centrale del PCI, Berlinguer enuncia la “politica dell’austerità” ed il 15 gennaio 1977, ad un convegno di intellettuali al teatro Eliseo di Roma, ne precisa i contenuti.
Solo undici giorni dopo, il 26 gennaio 1977, con l’intento di “ frenare l’inflazione e difendere la moneta attraverso il contenimento del costo del lavoro e l’aumento della produttività”, CGIL-CISL-UIL firmano un accordo con la Confindustria che prevede l’eliminazione degli scatti futuri di contingenza dal conteggio del TFR e l’abolizione di sette festività, cinque religiose e due civili: Ascensione e Corpus Domini che vengono spostate col consenso del Vaticano dal giovedì alla domenica successiva; San Giuseppe (19 marzo), S. S. Pietro e Paolo (29 giugno) e l’Epifania (6 gennaio) che verrà ripristinata nel 1986; l’anniversario della vittoria (4 novembre) e la festa della repubblica (2 giugno) che sarà ripristinata nel 2001.
L’accordo regala una valanga di miliardi di lire ai padroni sottraendoli ai lavoratori, ed aumenta l’orario di lavoro. Qualcuno quantificò in 250.000 i posti di lavoro non più disponibili per l’aumento dell’orario annuale di lavoro. E’ il primo accordo nella storia sindacale volto solo a peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori.
Il 17 febbraio 1977, il segretario generale della CGIL Lama parla all’università La Sapienza di Roma, ma viene contestato da studenti dell’Autonomia in lotta contro la riforma Malfatti. Seguono scontri fra servizio d’ordine del PCI e studenti, e Lama è costretto a fuggire.
Gli studenti scandiscono slogan ironici: Lama star, superstar, i sacrifici vogliamo far  - Lama o non Lama, più nessun Lama – I lama stanno nel Tibet – Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia – Sacrifici, sacrifigici – Andreotti è rosso, Fanfani lo sarà -  Più baracche meno case – Più lavoro meno salario -  Potere padronale – E’ ora, è ora, miseria a chi lavora – Il capitalismo non ha nazione, l’internazionalismo è la produzione.
Nel giugno del 1977, sempre col nobile intento di “favorire l’occupazione” viene varato il “contratto di formazione lavoro”. Lo Stato offre incentivi  in forma di sgravi contributivi al datore di lavoro che  può assumere ragazzi con lo scopo di insegnarli un mestiere. In realtà, per il ragazzo, è una forma di assunzione al lavoro in condizioni peggiori. Inizia la frantumazione dei contratti dei lavoratori.
In una intervista che appare su Repubblica  del 24 gennaio 1978, Lama  dichiara che per far uscire l’Italia dalla crisi economica, “il sindacato propone ai lavoratori “una politica dei sacrifici”. Sacrifici non marginali, ma sostanziali”.  Lama afferma che “La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi”.
Lama sconfessa dieci anni di rivendicazioni e conquiste sindacali. Il salario non può più essere una variabile indipendente, “… si stabiliva un certo livello salariale ed un certo livello dell’occupazione e poi si chiedeva che le altre grandezze economiche fossero fissate in modo da render possibili quei livelli di salario e di occupazione. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza …”.
Lama afferma infine che le aziende hanno il diritto di licenziare: “C’è un certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo … Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare”. 
Il 13-15 febbraio 1978, l’assemblea di CGIL-CISL-UIL che si svolge nel quartiere romano dell’EUR ratifica la nuova linea sindacale proposta da Lama: è la svolta dell’EUR.
Il 28 febbraio 1978 Aldo Moro, nel corso dell’assemblea dei gruppi parlamentari della DC, avanza l’ipotesi di una futura maggioranza parlamentare comprendente DC e PCI. Il governo del paese tanto agognato dal PCI sembra a portata di mano e la classe operaia forse si fa stato come recitava la propaganda del PCI.
Il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse sequestrano Moro. Nasce il primo governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti che ottiene l’appoggio incondizionato del PCI nonostante fossero state respinte tutte le sue richieste.  Il 9 maggio viene ritrovato il cadavere di Moro ucciso dalle Brigate Rosse.
Il 9 ottobre 1979, sessantuno dipendenti Fiat ricevono una lettera di licenziamento per “aver costantemente manifestato comportamenti non consoni ai principi della civile convivenza nei luoghi di lavoro”. Pochi giorni dopo, il dirigente del PCI torinese Adalberto Minucci dichiara che “assumendo studenti e disadattati, la Fiat ha raschiato il fondo del barile”. Un altro dirigente del PCI, Giorgio Amendola in un articolo su Rinascita si domanda perché il sindacato “non ha preso per primo l’iniziativa di una lotta coerente contro ogni forma di violenza e di teppismo in fabbrica e contro il terrorismo”. Per avallare meglio le tesi aziendali, Amendola paragona le “violenze” degli operai con le violenze fasciste nei primi anni ’20.
Mentre il PCI cercava di rendersi credibile agli occhi dei padroni quale gestore del sistema capitalistico e di conserva  CGIL-CISL-UIL abbracciavano le ragioni di Confindustria regalandogli moderazione salariale,  aumento delle giornate lavorative annuali e salario differito, la FLM ancora sino al 1979, grazie all’ancora alta mobilitazione operaia, conquistava miglioramenti in materia di orario di lavoro, salario e condizioni di vita in fabbrica.
Questa contraddizione tra la FLM e CGIL-CISL-UIL propone qualche analogia con l’attuale contrapposizione tra la FIOM e la CGIL.
Nell’ottobre 1980 ai cancelli di Mirafiori non ci sarà solo la resa dei conti fra la FIAT e la FLM, ma sarà anche e soprattutto la resa dei conti tra la FLM da una parte e PCI-CGIL-CISL-UIL dall’altra.  In questo senso, è sbagliato affermare che nell’ottobre 1980 il sindacato fu sconfitto. In realtà come si è visto, dai cancelli FIAT esce sconfitto solo il Sindacato dei Consigli, la FLM, in particolare la FLM torinese. 
Il PCI e CGIL-CISL-UIL avevano da tempo deciso che in futuro la loro legittimazione l’avrebbero ricevuta non più dai lavoratori, ma dal padronato.
Tanto che trent’anni dopo, nella situazione odierna, tutte le categorie hanno un loro padrino politico. Gli interessi delle varie mafie godono di un’ampia rappresentanza, trasversale a tutti i partiti; la stessa cosa dicasi per gli evasori fiscali di tutte le taglie. Per rappresentare gli interessi dei cosiddetti “imprenditori”, si sgomita assai fra centrodestra e centrosinistra. Persino i fuorilegge delle quote latte trovano dei validi sostenitori.
L’unica categoria orfana, e che continua ad avere sempre l’ombrello in quel posto, come disegna Vauro, sono i lavoratori. Al momento, senza speranza di cambiamenti, visto come vanno le cose in quell’area politica che in teoria dovrebbe salvaguardare gli interessi delle classi meno abbienti.
Il sogno iniziale del compagno Lenin si è veramente trasformato in un incubo:  da Vladimir Ilic a Vladimir Luxuria e a dimostrazione che al peggio non c’è mai fine, da Luxuria a Niki Vendola. Non ci resta che piangere?