lunedì 29 agosto 2011

Ricostruire il Partito Comunista?




di Costanzo Preve

Ho iniziato a scrivere questo modesto testo politico senza pretese il giorno di ferragosto 2011, dopo aver letto alcuni commenti sulla doppia stangata chiamata eufemisticamente “manovra”, e dopo aver letto alcuni testi interessanti, come ad esempio AAVV, Ricostruire il partito comunista, Max XXI – AAVV, Il ruggito del dragone, Ed. Aurora – J. Salem, Lenin e la Rivoluzione, Ed. Nemesis.

Dopo aver letto gli argomenti in favore della ricostruzione di un partito comunista come presupposto “leninista” di una strategia anticapitalista ed in favore di un giudizio sulla natura “socialista” della Cina, e dopo averli presi sul serio senza il solito atteggiamento sprezzante e spregiativo dell’estremismo di sinistra, vorrei rifiutarli educatamente e proporre una prospettiva diversa. So bene che l’abituale ricatto retorico della sinistra è l’eterno “ma tu cosa proponi?”. Bene, risponderò, ma propongo un’altra cosa, e la chiarirò. Il problema preliminare è questo: dove stanno andando le classi dominanti? Credo che sia una domanda integralmente “marxiana”. Prima di dare le risposte giuste bisogna prima fare le domande giuste. Si può rispondere in due modi. Primo: neppure le classi dominanti sanno dove stanno andando, stanno navigando a vista verso la catastrofe (sociale, ecologica, eccetera, a seconda delle opinioni). Secondo: stanno andando in una direzione ben precisa, e bisogna sapere quale. In base alla risposta che darò, ne risulta che l’ipotesi di ricostruire un partito comunista mi sembra una risposta strategicamente errata, in quanto l’analogia storica del futuro possibile e prevedibile ci porta verso un nuovo 1789 (unificazione del nuovo Terzo Stato) piuttosto che verso il 1917 (costruzione del partito comunista del proletariato e dei contadini poveri). Aggiungerò tre Appendici, A, B e C. L’appendice A sarà dedicata ad una mia esperienza personale vissuta nel 1989. L’appendice B sarà dedicata alle due “pesti” della sinistra italiana, il manipulitismo e l’antiberlusconismo. L’appendice C alla riflessione sulle ragioni del fallimento di quell’aborto Ricostruire il Partito Comunistastrategico chiamato Partito della Rifondazione Comunista in Italia.

1. RIFLESSIONI COMPARATIVE SULL’ATTUALE CRISI INIZIATA NEL 2008



Ho letto molte riflessioni sulle ragioni dell’attuale crisi, da David Harvey a Vladimiro Giacché, da Luciano Gallino a Bernard Conte, eccetera, laddove il chiacchiericcio pettegolo antiberlusconiano non mi ha mai fatto né caldo né freddo. Il solo modo per orientarmi (essendo un filosofo e uno storico, e non un economista) è stato quello analogico, con un esame comparativo con le due grandi crisi precedenti (grande depressione 1873-1896 e grande crisi del 1929). So bene che l’analogia storica è ingannatrice, perché tipico della storia è il produrre novità qualitative, che rendono di fatto impossibile la previsione, sia pure tendenziale. Sono d’accordo con Hegel, per cui la civetta della conoscenza filosofica della totalità giunge solo al crepuscolo. A differenza di Marx (di cui peraltro continuo a considerarmi un allievo critico) non credo che si possa prevedere il futuro del capitalismo, neppure in modo tendenziale. In breve, penso si tratti di una illusione positivistica, per cui la storia è trattata come se fosse simile ad una scienza della natura, tipo la fisica, che in effetti rende possibile la previsione, sia pure solo probabilistica (meccanica quantistica, eccetera). Credo anche che questa illusione positivistica derivi paradossalmente da un presupposto messianico-escatologico, che pretende di conoscere e di anticipare l’esito finale della storia. E qui mi fermo, perché so che troppa filosofia annoia il lettore medio.

Non conosco storie soddisfacenti del capitalismo. Non mi convince la teoria di Ernest Mandel sulle “onde lunghe”. Stimo molto Giovanni Arrighi, ma non mi convince la sua teoria della periodizzazione del capitalismo (fase genovese, fase olandese, fase inglese, fase americana, ed infine Adam Smith a Pechino). Tutte le teorie delle “fasi” non mi convincono. La storia non procede mediante fasi. Non ho mai neppure creduto alla teoria staliniana dei cinque stadi (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, ed infine comunismo mondiale a base proletaria). Il capitalismo non è nato per ragioni di fasi, ma è nato per una finestra storica congiunturale (Inghilterra del Settecento), che avrebbe potuto anche non presentarsi. Eccetera, eccetera. Credo però ad una unità dialettica trascendentale di una “storia ideale eterna”, nel senso di Vico, Fichte, Hegel e Marx. Risparmio al lettore i dettagli, che richiederebbero mille pagine, e che i miei affezionati lettori già conoscono. Con Vico, credo all’equazione verum ipsum factum, che tradotta in linguaggio comune significa che la sola verità filosofica possibile consiste in un bilancio del presente storico inteso come progressiva autocoscienza della libertà di un soggetto, laddove il resto è certezza (fisica, chimica e biologia), esattezza (matematica e veridicità artistica). Di conseguenza, la verità non può mai essere “certificabile” (e con questo, per farla corta, respingo cortesemente Cartesio e Kant). La verità è frutto di prassi storica trasformatrice (Fichte), di allargamento della lotta per il riconoscimento (Hegel) e di perseguimento dell’obiettivo possibile di una società comunitaria senza classi (Marx). Ancora una volta, mi scuso per l’intermezzo filosofico, ma come il Menico dei Promessi Sposi che giocava a rimbalzello perché era bravo nel fare volare le pietre sull’acqua, ognuno fa sempre quello che sa fare meglio. Ma passiamo ad un esame analogico delle tre grandi crisi.

La prima grande crisi, chiamata Grande Depressione, fece ammutolire Marx, mentre Engels scrisse che stava crollando sotto i nostri occhi la produzione capitalistica (prefazione alla Miseria della Filosofia di Marx, salvo errore, cito a memoria). Ovviamente non era così. Essa fu “superata” con l’imperialismo colonialistico, la spartizione dell’Africa, il riarmo navale, la corsa al petrolio, le innovazioni di processo (taylorismo e fordismo) e di prodotto (chimica, elettricità, automobili, eccetera). Essa produsse anche come “danno collaterale” la formazione dei partiti socialisti e dei sindacati operai. Il “marxismo”, formazione ideologica a base positivistica elaborata nel ventennio 1875-1895 congiuntamente da Engels e da Kautsky sulla base di una compresenza fra “ortodossia e fini” (Matthyas) e progressiva integrazione nel capitalismo, nacque su committenza pressoché diretta della socialdemocrazia tedesca. La compresenza di ortodossia dei fini (le prediche della domenica) e progressiva integrazione burocratica (Michels, eccetera) creò un piano inclinato che portò poi al 1914, il grande macello. Parentesi. La proposta di Diliberto delle tre unità (unità dei comunisti, unità della sinistra, ed infine unità democratica, contro Berlusconi, ovviamente) è un esempio di ortodossia dei fini (teniamo fermo il comunismo) e di integrazione nel sistema politico (ci uniamo con Bersani, Veltroni e Napolitano perché è il solo modo elettorale di rientrare in parlamento). Ma su questo dirò dopo. Per il momento torniamo alle cose serie.

La grande crisi del 1929 fu superata soltanto dalla seconda guerra mondiale e dalla grande corsa agli armamenti. Sottoprodotto sociale di questa soluzione bellica furono i “trenta anni gloriosi” 1945-1975 di cui ha parlato Hobsbawm. Appare oggi chiaro che il periodo storico del welfare non è per nulla stato un “avvicinamento riformistico” al socialismo, ma un momento del tutto congiunturale, ed in quanto congiunturale revocabile (ed infatti oggi revocato). Ho insegnato per 35 anni storia su manuali menzogneri che sostenevano che la crisi del 1929 era stata “superata” dal New Deal di Roosevelt e dal “compromesso” keynesiano-fordista. Non c’è maggior stupido di chi si fa ingannare, per pigrizia intellettuale o per conformismo identitario di “sinistra”.

Infine, venne la dissoluzione dell’esperimento sociale (sotto cupola geodesica protetta, per usare l’espressione di Jameson) del comunismo storico novecentesco (1917-1991). In vent’anni, il chiacchiericcio di sinistra non ha mai cercato di darne una spiegazione “strutturale” (vedi Marx), ma si è accontentato di versioni postmoderne della teoria del “totalitarismo” di Hannah Arendt. A modo mio, ho fatto l’ipotesi (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale) di una grande e maestosa controrivoluzione sociale dei ceti medi sovietici (e cinesi) contro un dispotismo sociale operaio e proletario nel frattempo esauritosi come base sociale ed ideologica. Nessuno ha mai neppure battuto un colpo, in quanto erano tutti impegnati a prendere sul serio Negri, Bertinotti, Vendola, Ingrao e la signora Rossanda. E così abbiamo sbattuto il muso contro la crisi apertasi nel 2008, senza che nessuno provasse neppure lontanamente a fare ipotesi su verso dove stiano andando le oligarchie finanziarie che ci governano. Proviamo a fare qualche ipotesi.

2. DOVE VANNO LE OLIGARCHIE FINANZIARIE CHE CI GOVERNANO



A questa domanda si può rispondere in due modi. Primo: non lo sanno neppure loro, vivono giorno per giorno senza prospettive, come la famosa nave Titanic. Le facoltà di economia hanno smesso da tempo di produrre una scienza sociale, e fanno soltanto estrapolazioni matematiche. Le facoltà di filosofia vivono di odio verso i geci e Hegel, e raccontano ai futuri disoccupati che il mondo è privo di senso, bisogna accettarlo così com’è, ogni utopia finirebbe necessariamente in terrore, e l’unica ontologia che si può fare è quella del telefonino e dei social network. In definitiva, la diagnosi è quella di Rosa Luxemburg: in mancanza di socialismo, avremo la barbarie, e la rovina comune delle classi in lotta. Non ci credo. Si tratterebbe sempre di una teoria della fine della storia, soltanto pessimistica e non ottimistica (i domani che cantano).

Secondo, ed è la mia risposta, possiamo almeno ipotizzare dove stiano andando le oligarchie finanziarie. Ovviamente, esse non devono essere antropomorfizzate inventandoci un inesistente complotto coordinato alla Spectre (James Bond). E’ evidente che la globalizzazione finanziaria si fonda sulla fine della sovranità monetaria degli Stati nazionali. E’ evidente che la Costituzione italiana non esiste più, da quando l’agente americano Giorgio Napolitano ha spinto il riluttante e ricattabile puttaniere Berlusconi all’aggressione contro la Libia di Gheddafi (travestita da garanzia di una no fly zone, in cui invece a fly sono i bombardieri NATO), alla faccia del fatto che l’Italia ripudia le guerre. E’ evidente che il cosiddetto “giudizio dei mercati” è una foglia di fico per lo smantellamento di ciò che restava del welfare della prima repubblica (1946-1992). Molte cose sono evidenti, e mi sembrerebbe un retorico spreco di carta soffermarmici sopra. Andiamo invece al dunque. Ed il dunque è: dove stiamo andando?

Stiamo andando verso una polarizzazione estrema verso un polo oligarchico, da un lato, ed un immenso e politicamente espropriato “terzo stato”, dall’altro. E tuttavia, le oligarchie sanno bene che è necessario un “cuscinetto di grasso” sociale fra i due poli, per evitare che possa verificarsi uno scontro diretto fra i pochissimi, ed i moltissimi abbandonati alla insicurezza della vita e al lavoro sottopagato, flessibile e precario. Fra le oligarchie e questo nuovo immenso “terzo stato” (che sarebbe improprio definire in termini di imborghesimento del proletariato o proletarizzazione della piccola borghesia, categorie sociologiche a mio avviso sorpassate) bisogna favorire la costituzione di un gruppo sociale che, sulla scorta della proposta linguistica di Eugenio Orso, definirei new global middle class (uso l’inglese perché è la nuova lingua dei padroni, come avvenne prima per il greco, poi per il latino ed infine per il francese). A questo nuovo gruppo sociale bisognerà pur sempre dare qualche privilegio, in modo che non si rivolti contro l’oligarchia. Su questo non ho le idee chiare. Se ci fossero ancora dei sociologi, io chiederei a loro, ma so bene che ormai Wright Mills e Christopher Lasch sono morti, e restano soltanto animali accademici tronfi ed autoreferenziali. Ma adesso è giunta l’ora di chiarire perché a mio avviso la parola d’ordine non può essere quella di rifare il partito comunista.

3. FUNZIONE STORICA DEL PARTITO COMUNISTA



Laddove oggi c’è la tendenza a valorizzare Marx come “profeta della globalizzazione” e di sputare su Lenin, io non seguo questa tendenza, e sono d’accordo con il libro di Salem. Oggi demonizzare Lenin, con la scusa che dopo è venuto Stalin (che non demonizzo, ma neppure rivaluto seguendo le orme di Domenico Losurdo, di Ludo Martens e del partito comunista greco) significa in realtà demonizzare lo stesso concetto di prassi rivoluzionaria. Altra cosa, invece, è condividere tutto quello che Lenin ha detto e scritto. Ad esempio, io non condivido la riduzione della filosofia ad ideologia ed il cosiddetto “materialismo dialettico”. Dio me ne scampi e liberi! Condivido invece la piena legittimità della rivoluzione del 1917. Ma il lettore non sarà tanto interessato a sapere che cosa pensa il signor Preve della storia del Novecento, quanto arrivare al cuore della questione. Arriviamoci.

Il partito comunista, in tutte le sue versioni (qui staliniani, trotzkisti e maoisti concordano, pur bastonandosi e piccozzandosi ferocemente fra loro) è stato concepito per la rivoluzione proletaria sia pure “allargata” ad alleanze varie (contadini, piccola borghesia, persino “borghesia nazionale”, eccetera). E’ impensabile un partito comunista senza centralità della classe operaia, salariata e proletaria, di cui si nega peraltro la “rivoluzionarietà diretta”, priva di un coordinamento partitico. Qui non c’è differenza “teorica” fra Diliberto, Ferrando e Lotta Comunista. Mi scuso per la semplificazione, ma a volte facilita la discussione. Le attuali oligarchie finanziarie al potere non si limitano infatti a “proletarizzare” i ceti medi. Se li proletarizzassero, si potrebbe dire che ci vuole un partito comunista. Ma il processo che si svolge sotto i nostri occhi e ben più complesso e maestoso. In Cina, in India ed in Brasile (ed ora anche nei paesi arabi, con la cosiddetta “primavera araba”, che solo un inguaribile ingenuo potrebbe pensare abbia una natura rivoluzionaria, laddove si tratta della semplice presa del potere di una borghesia sunnita occidentalista) si sta formando finalmente una classe media globale, la cui parte superiore, alleata con le oligarchie finanziarie, eserciterà una funzione controrivoluzionaria di fronte alla quale i codini nobiliari del 1789 sembreranno tutti dei Thomas Munzer. La parte inferiore dei ceti medi, numericamente di gran lunga prevalente, cadrà in questo nuovo “terzo stato”. Essa non ha bisogno di un partito comunista, e soprattutto non ha bisogno di portarsi dietro il sanguinoso contenzioso sul bilancio storico del comunismo novecentesco. Su questo Diliberto e Ferrero non saranno mai d’accordo, perché per il primo il più grande rivoluzionario è stato Lenin, e per il secondo Raniero Panzieri. Si pensa forse di poter “assemblare” Mauro Gemma e Marco Ferrando?

Ma non sta neppure qui il punto essenziale. E qui, pur sapendo che è come bestemmiare in chiesa, sono costretto a porre il problema del superamento della dicotomia Destra/Sinistra, anche se per le orecchie pie e politicamente corrette del “sinistro” medio, questo può dare luogo al sospetto di “infiltrazione fascista”.

4. NOTE SULLA DICOTOMIA SINISTRA/DESTRA



Non riprenderò qui per ragioni di spazio le argomentazioni da me sviluppate in un quindicennio (e quale quindicennio!) sul superamento della dicotomia Destra/Sinistra. Lascerò perdere la filosofia e la storia che stanno alla base di questa dicotomia, e svilupperò un solo argomento, di tipo politico. Seguendo il noto “rasoio di Occam”, credo che un solo argomento basterà, se è convincente.

Chi si situa all’interno della dicotomia Sinistra/Destra, concluderà necessariamente non tanto che il comunismo è “l’estrema sinistra” o la “vera sinistra”, ma che il comunismo è la parte più coerente, rigorosa ed organizzata della sinistra stessa. A questo punto, ne discenderà ‘gravitazionalmente (uso questo avverbio volutamente) che bisognerà’ allearsi con la “sinistra moderata” (ed addirittura con il centro-sinistra) contro la Destra, come se si fosse ancora al tempo dei fronti popolari contro il fascismo (1934-36). E’ questa la ragione simbolica del mantenimento ideologico dell’antifascismo in assenza totale, palese e manifesta di fascismo. Ci deve essere sempre un “fascista”, o almeno un suo succedaneo simbolico (prima Fanfani, poi Craxi, infine Berlusconi). Ricordo ancora i cialtroni di Lotta Continua che parlavano di “fanfascismo”.

Questa forza ideologica gravitazionale impedirà di comprendere l’omologazione strutturale del quadro politico nell’epoca della terza grande crisi capitalistica. Bisognerà trovare sempre argomenti per dire che Bersani, Veltroni e Fassino sono “meglio” (o “meno peggio”) di Tremonti, Bossi e Berlusconi. Il menopeggismo sostituisce l’analisi gramsciana delle classi, per obsoleta che in parte possa essere. Ma il menopeggismo è un lento veleno mitridatico. Il cittadino diventa un “consumatore” di offerte politiche, ed è esattamente il modello inglese ed americano, cui sin tratta di omologarci.

Se la dicotomia Destra/Sinistra facesse soltanto acqua sul piano storico e filosofico, la lascerei stare per ragioni di quieto vivere. In fondo, non è divertente farsi dare del “fascista” da una marmaglia fanatizzata. Ma si tratta di un vero “ostacolo epistemologico” (mi scuso per il termine supercolto). Se siamo di sinistra, bisognerà allearsi con Bersani contro Berlusconi, e con la Marcegaglia e Montezemolo contro Bossi e Tremonti. Bisognerà sempre trovare dei “fascisti” da qualche parte, come se fossimo al tempo del film di Ugo Tognazzi “Vogliamo i colonnelli”. In questo modo il terzo stato non potrà mai essere politicamente ricomposto, perché lo si scinderà ideologicamente in una falsa contrapposizione simbolica, che ricorda i guelfi ed i ghibellini, e soprattutto non si comprenderà mai l’omologazione strutturale dei ceti politici professionali di “sinistra” in Europa all’interno del nuovo capitalismo finanziario e del neoliberalismo. Tutte le chiacchiere di Diliberto e Ferrero, sfrondate dei riferimenti simbolici identitari, si riducono a tirare per la giacca Bersani, la Bindi e la Camusso.

Sarei molto dispiaciuto se quanto sto dicendo venisse catalogato sprezzantemente sotto la voce “estremismo” o “minoritarismo”. Sono stato estremista in gioventù, ma non lo sono più da almeno vent’anni. Ho gusti “conservatori” nelle arti figurative, in filosofia, in letteratura ed in musica. Il succo del mio discorso è un altro. Se andassimo verso un nuovo 1917, sarei per ricostruire un partito comunista, anche perché da allievo di Marx mantengo un anticapitalismo radicale. Ma in base al ragionamento fatto sulla base analogico-comparativa delle tre grandi crisi del capitalismo (1873, 1929 e 2008) mi sembra che andiamo invece più probabilmente verso un nuovo 1789, e si tratta piuttosto di unificare il nuovo “terzo stato” contro le oligarchie ed il loro clero (il clero regolare, accademico-universitario, ed il clero secolare, mediatico-televisivo). Questa unificazione non può avvenire riproponendogli tutti i vecchi contenziosi “marxisti”.

                                                                 APPENDICE A

RICORDO PERSONALE DI UNA TRAGICOMICA ESPERIENZA DEL 1989



In filosofia io sono un Signor Qualcuno, e non mi interessa se questo viene riconosciuto o no dagli oi polloi (traduzione consigliata dal greco: i polli, nel senso di galline). Ma in politica io sono un Signor Nessuno, lo so perfettamente, e tanto basta. Ma voglio qui ricordare una tragicomica esperienza dell’ormai lontano 1989. Negli anni Ottanta mi avvicinai prima ad una rivista politica intitolata Unità Proletaria, diretta da Attilio Mangano e da Luigi Cortesi, e poi ad un piccolo centro culturale dipendente da Democrazia Proletaria denominato “Punto Rosso”, tuttora esistente. Si trattava di un matrimonio di interesse reciproco: essi mi offrivano la possibilità di pubblicare e di far conoscere le mie elucubrazioni filosofiche “marxiste” (Althusser, Bloch, Lukacs, eccetera), ed io offrivo loro una collaborazione gratuita, disinteressata e non pagata. Poi un dirigente di Democrazia Proletaria (inutile il nome, si dice il peccato, non il peccatore) mi propose di cooptarmi nella Direzione Nazionale di questo partito, perché potessi fare interventi “colti” considerati “marxisti”. Avrei dovuto rifiutare, ma ero ancora nella fase “militante” della mia vita. I dirigenti politici, in genere, amano gli intellettuali-pagliacci in veste non tanto di commissari politici quanto di cappellani, cioè di “clero teorico”, purché non osino mettere le zampe sulla “linea politica”, che considerano loro monopolio assoluto, un po’ come il denaro per i capitalisti. Cooptato nella Direzione Nazionale, rifiutai subito il ruolo di intellettuale-pagliaccio ornamentale, e mi indirizzai verso il problema proibito della linea politica. Democrazia Proletaria era una vera Armata Brancaleone (nel senso del film di Gassman), con al vertice un pagliaccio mediatico (Mario Capanna, precursore di Fausto Bertinotti e di Nichi Vendola) ed alla base un carnevale di femministe, ecologisti e pacifisti. Dal momento che il PCI di Occhetto stava liquidando il comunismo, mi sembrò opportuno proporre una linea politica tendente a ricostruire un piccolo partito comunista esplicito.

Non l’avessi mai fatto! Da intellettuale-pagliaccio supercolto diventai immediatamente un fastidioso rompiballe, che rompeva i delicati equilibri interni fra “movimentisti” e “partitisti”. E tuttavia, proposi delle tesi politiche che furono costretti a pubblicare nel Bollettino di Democrazia Proletaria. In esse sostenevo che l’individuazione in Craxi del nemico principale (il grassone, il corrottone, il mangione, eccetera) era una sciocchezza, e che la ricomposizione delle oligarchie italiane avveniva diversamente. Certo, non potevo prevedere Mani Pulite, ma mi si dovrebbe dare atto di una mia politica preveggenza. Da qualche parte, in qualche emeroteca, queste tesi potrebbero ancora trovarsi. Nello stesso tempo, mi misi a collaborare con il gruppo cossuttiano “Marxismo Oggi”, perché intuivo che da lì sarebbe nato qualcosa. Poi, per fortuna, mi ammalai gravemente, ma sopravvissi. In questo modo potei evitare di fare l’esperienza mefitica e grottesca di Rifondazione Comunista, perché, essendo assente per malattia, non fui “cooptato” nella sua ridicola Direzione. E’ proprio il caso di dire che non tutto il male viene per nuocere. Diventai così uno studioso indipendente, senza alcun legame partitico, precondizione assoluta per poter pensare liberamente, senza dover commisurare quanto si pensa alle compatibilità ferree della linea politica stabilita dai babbioni del ceto politico professionale di “sinistra”.

Allora (1989) pensavo sinceramente che fosse necessario ricostruire un partito comunista. Oggi, ventidue anni dopo (2011) non lo penso invece più, per le ragioni esposte precedentemente. Ma ringrazio l’esperienza fatta, perché ci ho sicuramente imparato molto.

                                                                  APPENDICE B

LE DUE GRANDI PESTI DELLA SINISTRA ITALIANA: MANIPULITISMO E ANTIBERLUSCONISMO



Il codice teorico identitario del picismo italiano (termine con cui cerco di connotare la continuità del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD) si basava su una sorta di storicismo progressistico, convinto di “navigare con il vento della storia”. Trascuro le critiche alla Walter Benjamin di questa pappa positivistica. Togliatti mantenne “l’ortodossia dei fini” in termine di ideologia identitaria di partito “comunista”, facilitando l’inserimento del partito nella società italiana e nel suo miracolo economico (evidente dopo il 1958). Ammetto apertamente che fino al 1974 circa (dopo non più) il PCI continuò ad esercitare un ruolo sociale e culturale complessivamente positivo, e non voglio che mi si confonda con i nostalgici della rivoluzione mancata nel 1945 o nel 1948 o con ogni tipo di estremismo operaista e/o bordighista (con tutto il rispetto per Bordiga, che si mangiava in insalata il gregge conformista e pecoresco degli “intellettuali organici” PCI). Ma qui non c’è tempo di approfondire la questione. Credo che colui che ci capì di più fu il cattolico integralista Augusto Del Noce, che fece la diagnosi più esatta di tutte, ed anche la più dialettica (anzi, l’unica dialettica), quella della trasformazione progressiva dello storicismo (a base relativistica e nichilistica, se gli si toglie la base ontologica presente in Hegel ed abbozzata, ma solo abbozzata, nella mirabile Ontologia dell’ultimo Lukacs) in adesione alla società postmoderna radicale dei consumi. In ogni caso, arriviamo subito per brevità al 1989-91. Con il crollo della Casa Madre il vecchio personale picista dovette riconvertirsi in fretta e furia. Se prima erano il sacerdozio della via italiana al socialismo e dell’eurocomunismo, ora dovevano diventare il personale politico di mediazione “politica” del capitale finanziario e dell’impero militare americano (D’Alema con il Kosovo 1999, Napolitano con la Libia 2011). Data la pittoresca ignoranza degli italiani non fu neppure necessario “gestire” una riconversione ideologica esplicita (tipo Bad Godesberg tedesca 1959). Il popolo di Beppe Grillo, Nanni Moretti e Nichi Vendola non è popolo di teorici, basta lo sghignazzo di “Linus” e del “Manifesto”. La riconversione fu progressivamente compiuta prima con il Manipulitismo e poi con l’Antiberlusconismo. Trattiamoli separatamente.

Alcuni anni fa mi trovai a Milano in un dibattito pubblico con Gherardo Colombo, uno dei più noti magistrati del pool di Mani Pulite. Un interlocutore cortese, educato e colto. In sua presenza esposi in forma cortese e non polemica la mia tesi storico-politica di fondo, per cui a mio avviso Mani Pulite, pur formalmente legale e costituzionale (a differenza della guerra di D’Alema in Kosovo 1999 e di Napolitano in Libia 2011), era di fatto stato un colpo di Stato giudiziario extraparlamentare che aveva distrutto una prima repubblica italiana certamente corrotta, ma anche assistenziale e proporzionalistica, la cui conseguenza era stata paradossalmente quella di facilitare l’avvento di Berlusconi, che grazie al suo denaro aveva potuto “ereditare” gran parte dell’elettorato DC ed anche PSI. Avrei anche potuto parlare turco. Il cortese Colombo non contrappose una sua lettura storica alternativa alla mia, ma parlò di “obbligatorietà dell’azione penale”, che l’aveva costretto a colpire Chiesa, Craxi e tutti i mangioni. Ora, io non mettevo assolutamente in discussione che i reati di corruzione e di concussione richiedono l’obbligatorietà dell’azione penale, e lo ammettevo apertamente. Soltanto, desideravo che il tema non venisse soltanto discusso in modo giudiziario, ma storico. Ma fu come passare dal turco al mongolo parlato e stretto. A distanza di quasi vent’anni, non esiste ancora un bilancio storico di Mani Pulite (fanno parziale eccezione due saggi di Filippo Fiandrotti e di Giovanni Di Martino, sconosciuti agli oi polloi). Resta invece il fuoco di diversione mediatica sulle ruberie della casta, sui prezzi politici dei ristoranti parlamentari e su tutte le pittoresche miserie degli straccioni del ceto politico professionale, che essendo al servizio delle oligarchie al potere, vogliono anche loro poter raccogliere le briciole dei loro banchetti in termini di barche a vela o di culi di adolescenti ambiziose, come già avveniva per gli schiavi ed i liberti delle oligarchie schiavistiche romane. In ogni caso, la riduzione giudiziaria della storia italiana è un fenomeno grottesco che richiederebbe Swift e Rabelais, ed ammetto di non esserne all’altezza.

E passiamo ora al berlusconismo, anzi all’antiberlusconismo. Un tempo si diceva che il nazionalismo era l’ultimo rifugio delle canaglie. Ma il nazionalismo era Freud, Darwin e Einstein in confronto con il concerto antiberlusconiano dell’ultimo ventennio. Spieghiamoci meglio. Il nano di Arcore si prestava meravigliosamente a diventare il bersaglio satirico privilegiato di una “sinistra” decerebrata ed ormai del tutto incapace di analisi strutturale. Il puttaniere di Arcore, amico di Emilio Fede, era un personaggio da commedia dell’arte postmoderna che faceva sentire superiori tutti i coglioncelli di sinistra che a suo tempo Stefano Benni aveva definito Gente di una certa Kual Kultura (con il kappa). Lui è ricco, è vero, ma noi siamo più intelligenti, perché abbiamo letto Proust in tedesco con sottotitoli in polacco. Una banda di contemporaneisti sacerdoti della perennità dell’antifascismo in conclamata e palese assenza di fascismo usò termini come “telefascismo”, riesumando il “popolo delle scimmie” di gobettiana memoria. Per dirla con uno spaghetti-western, Dio perdona, ma io no! Per venti anni, il popolo di sinistra e il suo ceto politico giudiziario-giornalistico cercò di far fuori Berlusconi con il conflitto di interessi, le puttane, le minorenni, i soldi di Veronica e di De Benedetti, eccetera. Alla severa analisi di Gramsci si sostituì la pochade delle operette pecorecce degli anni Cinquanta. Il giornale-partito di “Repubblica” fu in questo all’avanguardia, perché doveva riconvertire ideologicamente gli ex babbioni picisti in neobabbioni scalfariani. Ma se Berlusconi cadrà (e probabilmente cadrà) non sarà certamente per gli scandali pecorecci di un vecchio maniaco dotato di Viagra, ma per le bastonate della manovra commissionata dai “mercati finanziari” dell’estate 2011. Certo, i pagliacci di sinistra rivendicheranno il merito di averlo fatto cadere, ma potranno ingannare soltanto i loro militanti-babbioni, Sarà il massacro dei ceti medi a far tramontare il nano di Arcore, non certo la signora Boccassini. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Ma come scrisse Spinoza, non bisogna né ridere né piangere, ma capire.

Detto in linguaggio medioevale, continuare a non capire il manipulitismo e l’antiberlusconismo non è più un peccato dell’intelletto, ma della volontà. Non si vuole capire. E si continui a non capire, se vi fa piacere. E’ impossibile raddrizzare le gambe ai cani.

                                                                    APPENDICE C

BILANCIO DELLA TRISTE STORIA DI RIFONDAZIONE COMUNISTA




Dopo la grande dissoluzione del triennio 1989-91 neppure Marx e Lenin sarebbero riusciti a “rifondare” politicamente il comunismo (si parla qui di rifondazione politica, perché quella teorica è più facile, basta contrastare il capitalismo). Figuriamoci se potevano riuscirci pagliacci politici mediocri come il cinico familista Armando Cossutta o il narcisista dilettante Fausto Bertinotti. Il teatro greco ci ha offerto tre tipi di azione scenica, la tragedia, la commedia ed il dramma satiresco. Rifondazione fu sempre e solo un dramma satiresco.

Nel libro sopraindicato Ricostruire il partito comunista gli autori (Diliberto, Giacché, Sorini e Catone) citano in proposito un certo Tortorella, che giustificò nel 1991 la sua non adesione a Rifondazione con la scusa che era “eclettica”. Fausto BertinottiCominciare dalla sovrastruttura (il presunto eclettismo di Rifondazione) e non dalla struttura (il suo ruolo ventennale nel sistema politico italiano dopo Mani Pulite) è una vergogna. Se si vuole discutere di Rifondazione non si può cominciare dal suo (innegabile) eclettismo, ma dal suo ruolo politico strutturale oggettivo. In nessun momento Rifondazione fu mai una “rifondazione comunista”. Essa fu sempre una “decompressione comunista”, il cui ruolo fu sempre quello di gestire la “decompressione” di ex comunisti orfani del togliattismo e del berlinguerismo. Il suo ruolo fu sempre quello di gestire ferreamente dall’alto un confusionario massimalismo in basso, tenendolo sempre ben stretto alla Casa Madre PCI-PDS-DS-PD. Tenendolo ben stretto attraverso le “risorse ideologiche” del manipolitismo e dell’antiberlusconismo. Altro che eclettismo! La storia ridicola ed irrilevante di questo partitino finì idealmente con l’espulsione dell’onesto senatore Turigliatto per avere votato contro i “crediti di guerra” (ricordiamo Liebknecht nel 1914!). Le contorsioni ideologiche del narcisista Bertinotti non sono rilevanti, ma solo pittoresche.

Il fallimento di Rifondazione ci consegna intatta l’esigenza di costruzione di una forza politica anticapitalistica. Ne sono perfettamente consapevole. Ma chi non ha ancora capito la funzione di Vendola come “copertura poetica” del PD è al di fuori di ogni possibile discussione storica e politica.