venerdì 15 luglio 2011

Dall’insurrezione all’anti-rivoluzione 
(libere riflessioni sulla “primavera araba” del 2011)



di Costanzo Preve

Ha scritto Romano Prodi (cfr. “La Stampa”, 18-4-11): “Io vedo nelle rivolte arabe lo scoppio di società fatte di giovani, disoccupati e colti incompatibili con governi tirannici”. Si tratta di un modello. neoliberale di spiegazione assolutamente maggioritario veicolato sia dai giornalisti che dai cosiddetti “esperti” di politica e geopolitica, in cui domina il modello della dicotomia Libertà/Dittatura. La tesi che vorrei proporre al lettore (ovviamente con mille cautele e dispostissimo a ritirarla se non dovesse reggere alle critiche serie) è che – se questo fosse vero ma non è detto che lo sia – non si tratterebbe tanto di rivoluzioni, e neppure di controrivoluzioni, ma di vere è proprie anti-rivoluzioni. Converrà però spiegarsi meglio, per non lasciare adito a pittoreschi equivoci.

Personalmente, tendo a definire i movimenti politici e sociali che hanno portato alla dissoluzione dei paesi socialisti europei e dell’URSS fra il 1988 ed il 1992 (simili in questo al mutamento strutturale della Cina dopo il 1976) delle vere e proprie contro-rivoluzioni nel senso classico della teoria politica moderna. So bene che esiste una resistenza, quando non una vera e propria riluttanza, nell’accettare questa connotazione, che non implica affatto (è bene ribadirlo subito contro ogni possibile pittoresco equivoco) un giudizio positivo di approvazione per lo stalinismo evoluto poi dopo il 1956 in “socialismo reale”.

Niente di tutto questo. Si tratta invece di una connotazione storico-politica relativamente “neutrale”, che si oppone educatamente ad altre connotazioni possibili. Esaminiamone quindi alcune in modo “contrastivo”.

In primo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 la connotazione di “rivoluzioni liberali”. Questa connotazione indica un insieme di fenomeni. storici ben precisi, che hanno caratterizzato l’Ottocento europeo, in cui il liberalismo (unito o meno con il liberalismo economico, ma non coincidente con esso, secondo la lezione di Croce in polemica con Einaudi) si è contrapposto in modo rivoluzionario all’ancien régime ed al bonapartismo, in un’alleanza instabile con la democrazia (suffragio universale, eccetera), destinata a rompersi a fine Ottocento. Sono state queste, e solo queste, le “rivoluzioni liberali”. Il capitalismo selvaggio imposto sulle macerie del socialismo reale dopo il 1992 non ha mai avuto niente di “liberale’’, al di fuori dell’ideologia della Fondazione Soros, ed è un insulto retroattivo per i liberali dell’Ottocento usare per questi corrotti mafiosi questo nobile appellativo.

In secondo luogo, considero impropria per gli eventi del 1988-1992 (si tratta di un processo quinquennale e non solo di un “evento magico” tipo caduta del muro di Berlino) la connotazione di “restaurazione”, o per, così dire di restaurazione borghese-capitalistica. È assolutamente sicuro che il capitalismo è stato restaurato, ma non si è trattato di restaurazione di un capitalismo vetero-borghese (che avrebbe implicato la formazione organizzata di un polo opposto, popolare-proletario), ma di un capitalismo di tipo nuovo ed inedito, di un capitalismo selvaggio di tipo americano del tutto post-borghese (e quindi post-proletario). La riconversione di gran parte della struttura burocratico-partitica excomunista in nuova classe oligarchica selvaggia non ha infatti “restaurato” la precedente “borghesia” di tipo europeo, sostanzialmente distrutta nel ventennio 1920-1940 in URSS e nel ventennio 1945-1965 nell’Est europeo ed in Cina, ma ha “instaurato” una nuova classe dominante sostanzialmente criminale, e del tutto post-borghese. Si studino sociologicamente i comportamenti dei “nuovi russi” in vacanza a Rimini ed in Versilia, e quanto dico apparirà meno surrealistico.

La connotazione meno peggiore (in attesa di una connotazione migliore, che forse esiste già, ma di cui non sono a conoscenza) degli eventi 1988-1992 è quella di maestosa controrivoluzione sociale dei nuovi ceti medi sovietici (e cinesi), con la presa del potere finale di una nuova classe di capitalisti criminali del tutto post-borghesi. Esiste una riluttanza psicologica ad accettare questa connotazione, perché si pensa che per definizione una controrivoluzione debba essere un fatto elitario e minoritario, e non possa avere una base di massa. Si tratta di un vecchio pregiudizio di “sinistra”, che rende impossibile la comprensione di tutti gli eventi storici che non si conformino a pigri modelli consueti. In realtà sia le rivoluzioni che le controrivoluzioni possono entrambe avere consistenti basi di massa. Gli eventi che hanno portato al seppellimento del comunismo storico novecentesco in URSS, in Cina e nei paesi dell’Est europei sono stati indubbiamente controrivoluzionari, perché hanno distrutto le basi economiche e sociali delle precedenti rivoluzioni (oggi ribattezzate dagli intellettuali servi del circo accademico deliri totalitari), ma hanno avuto certamente basi di massa. Nell’assenza politica più totale e grottesca della classe operaia di fabbrica propriamente detta, e nella smentita del mito

sociologico proletario secolare, i nuovi ceti medi si sono messi in movimento dando vita ad una maestosa controrivoluzione.

È del tutto chiaro che questo approccio, giusto o sbagliato che sia, non può essere applicato alla cosiddetta “primavera araba” del 2011. Qui non c’era nessun capitalismo da “restaurare” o se vogliamo da “instaurare”, e neppure nessuna rivoluzione liberale da compiere perché la globalizzazione capitalistica e l’impero militare interventista USA hanno già da tempo distrutto e metabolizzato ogni forma di “liberalismo” precedente. Bisogna quindi andare in cerca – e non sarà facile – di un approccio diverso.

Scrivendo fra la fine di aprile e l’inizio di maggio 2011, e quindi in “tempo reale”, é difficile fare un bilancio serio e credibile di quello che le emittenti televisive CNN ed Al Jazira hanno battezzato “risveglio arabo” (arab awakening). Il pericolo di dire affrettate sciocchezze non può essere facilmente scongiurato. Dopo quattro mesi (gennaio-aprile 2011), e con mille cautele, mi sembra di poter dire che questo ciclo di insurrezioni non sta dando luogo in alcun modo (per ora, almeno) ad una prospettiva rivoluzionaria, termine che limiterei ferreamente e rigorosamente non certo ad una poco rilevante “circolazione delle élites”, quanto ad una modificazione radicale dei rapporti di classe e soprattutto ad una diversa e meno ingiusta e diseguale distribuzione della ricchezza. Queste insurrezioni (perché di insurrezioni certamente si è trattato, ed in Libia di una vera e propria guerra civile organizzata) danno purtroppo luogo non a rivoluzioni, ma a vere e proprie antirivoluzioni, tendenti ad impedire o a rendere più difficili se non impossibili eventuali vere rivoluzioni future. Chi trova eccessivo, ingiusto ed ingeneroso questo giudizio ha l’onere della spiegazione del perché queste insurrezioni sembrano tanto facilmente “recuperabili” dal modello oligarchico-occidentale di democrazia elettorale, dall’asfissiante retorica “arancione” dei blog e di twitter e soprattutto dal patronato della signora Hilary Clinton e del suo interventismo umanitario. E’ legittimo il sospetto che insurrezioni sponsorizzate da Cameron, Sarkozy, la NATO ed il Dipartimento di Stato non siano poi così “rivoluzionarie” come potevano sembrare. Per questo, trascurando casi interessanti ma marginali come lo Yemen o il Bahrein, mi limiterò prima ad alcune considerazioni sociologico-politiche generali, poi ad un rapido esame dedicato a quattro casi (Tunisia, Egitto, Libia e Siria), ed infine al bandolo della matassa geopolitica di tutto questo, che individuo in un saggio dell’apologeta dell’impero americano Parag Khanna, autore di un libro significativamente intitolato “come governare il mondo” (How to run the world).

Non c’è dubbio che l’intero mondo arabo nell’ultimo mezzo secolo sia stato caratterizzato non solo da una dinamica demografica imponente, tipica delle società tradizionali ad altissima natalità e non ancora colpite dal malthussianesimo

occidentalistico, ma anche da una intensa scolarizzazione giovanile di massa. La scolarizzazione giovanile di massa non connota soltanto modelli economici “sviluppisti” (il giovane arabo e turco studia da ingegnere in percentuale incomparabilmente superiore alla media dei suoi coetanei europei o americani) ma anche una fisiologica e benemerita

domanda di promozione sociale individuale. Le conseguenze però sono esattamente le stesse che ci sono da noi, ovviamente ingigantite e moltiplicate dal basso livello di sviluppo e del consumo interno: una gigantesca disoccupazione giovanile di massa. Da noi però ci sono i redditi dei genitori e dei nonni che attutiscono il disagio della disoccupazione giovanile e la relativa tenuta (per ora) del welfare, due elementi assenti nei paesi arabi (non parlo qui degli emirati petroliferi o dell’Arabia Saudita). Sono questi gli elementi esplosivi della società araba, e non certo generici “dittatori” (Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad„ eccetera), come sembra suggerire il pacioso ciclista emiliano Romano Prodi. Il fatto che il modello del capitalismo finanziario globalizzato costruito sulle macerie del comunismo storico novecentesco non produce occupazione, ma solo speculazione finanziarie. Non è certamente permettendo che la plebe tunisina possa ballare sui letti d’oro della moglie cleptocrate di Ben Alì che il problema strutturale può essere risolto. Ma questo ci porta alla necessità di fare almeno un tentativo di analisi differenziata paese per paese.

L’’insurrezione tunisina è stata una cosa seria, ed è costata centinaia di morti. Si è trattato di un’insurrezione popolare, al principio combattuta non solo dagli apparati di repressione, ma anche dai ceti medi della capitale Tunisi. Nonostante il circo mediatico abbia propalato l’idea che la sua “causa” debba essere cercata nelle ruberie cleptocratiche della famiglia mafiosa allargata di Ben Ali, tutti gli analisti seri sono stati concordi nel fare risalire le vere cause nelle misure economiche del Fondo Monetario Internazionale.

Questa insurrezione ha conseguito il risultato, che mi guardo bene dal disprezzare, di ottenere una ferma costituzionale di tipo democratico e liberale, in cui si possono e si potranno costituire partiti di ogni tipo, da quello islamico a quello trotzkista.

Ma questa forma liberal-democratica non può ovviamente risolvere nessuno dei problemi strutturali della società tunisina. La grande fuga in massa verso la Francia via Lampedusa lo dimostra ampiamente. I disoccupati sanno perfettamente che resteranno disoccupati, e che non saranno i processi al capro espiatorio Ben Alì ed alla sua famiglia mafiosa allargata a dare loro pane e lavoro. Bisogna allora studiare la situazione tunisina da vicino nei prossimi mesi ed anni, per poter verificare se le forme politiche liberal-democratiche possono facilitare una riaggregazione politica comunitaria del popolo tunisino che non si identifichi con l’Islam politico, tradizionalmente debole in Tunisia. Mi sia permesso educatamente di dubitarne, ma chi vivrà vedrà.

Secondo cifre ufficiali, la repressione del regime di Mubarak in Egitto ha fatto 846 morti. È una cifra imponente, tenuto conto del fatto che l’Egitto è un paese moderno, sviluppato e socialmente articolato. Dal momento che la mia conoscenza dell’Egitto passa anche attraverso i romanzi del Premio Nobel Naguib Mahfuz, ricordo i suoi personaggi che tornano a casa storpiati dalla polizia segreta sia nel caso in cui fossero comunisti sia nel caso che fossero islamisti. Qui il ciclista Romano Prodi ha ragione. Un simile sistema non può durare all’infinito in presenza di una società per nulla tribale (come in Libia o nello Yemen), ma colta ed articolata. E tuttavia in Egitto, così come in Tunisia, i problemi strutturali della povertà e della disoccupazione non possono essere risolti con le chiacchiere della signora Clinton.

I Fratelli Musulmani egiziani non sono certo simili ad Al Qaeda di Bin Laden, ma sono una sorta di Democrazia Cristiana seriamente assistenziale, e pertanto non assimilabili con il modello puramente volontaristico del “capitalismo compassionevole” USA, foglia di fico oscena per il rifiuto di finanziare un welfare state di tipo europeo. Non conosco El Baradei, ma il fuoco unanime di sbarramento contro di lui aperto congiuntamente dagli USA e dai vertici dell’esercito egiziano mi fa pensare che sarebbe la soluzione migliore per il popolo egiziano. Il popolo egiziano è un grande popolo, colto e civile, e non credo proprio che sarà facile nei prossimi mesi ed anni prenderlo in giro con riforme cosmetiche di facciata o con semplici processi contro la famiglia allargata di Mubarak. Staremo a vedere.

A proposito della Siria, non vorrei dare adito ad equivoci. Sono completamente a favore del mantenimento al potere del partito Baath, anche se ovviamente non entro nel merito sulle riforme politiche che dovrà fare. I suoi oppositori, fondamentalisti musulmani o blogger occidentalisti, non sono in alcun modo un’alternativa migliore, ma peggiore. Non a caso gli USA e Sarkozy li appoggiano, insieme con l’Arabia Saudita ed Al Jazira, mentre forze politiche serie di cui mi fido (il palestinese Hamas, il libanese Hezbollah, il benemerito governo iraniano di Ahmadinejad) appoggiano il governo del Baath. Non si può sapere tutto, ed essere esperti di tutto. Io non sono un arabista, ma uno storico ed un filosofo. Non credo a cause buone sostenute dai cattivi. Il futuro ci dirà di più.

Ma è della Libia che bisogna soprattutto parlare perchè la Libia è anche un nostro problema. Avevamo firmato un patto di amicizia con il governo libico di Gheddafi, e lo abbiamo vergognosamente stracciato, mostrando ancora una volta agli occhi del mondo la nostra patetica e vergognosa inaffidabilità.

Il giornalista italiano Fulvio Grimaldi, uomo dal cattivo carattere e dal lessico inutilmente provocatorio ed estremista, con cui ho avuto a suo tempo una pittoresca polemica, ha avuto il coraggio giornalistico, umano e civile, di andare in Libia e di raccontare gli eventi “dalla parte di Gheddafi”, a differenza dei cronisti arruolati (embedded), pronti subito a correre trafelati dagli insorti di Bengasi ed a paragonare Misurata a Serajevo, anticamera simbolica sicura per un interventismo ancora più “muscolare” dei bombardamenti NATO. Non posso che lodarlo incondizionatamente e solidarizzare con lui. Il corretto atteggiamento di Grimaldi si contrappone alla posizione dell’ex-comunista Giorgio Napolitano, passato dall’obbedienza geopolitica sovietica all’obbedienza geopolitica USA, e che ha addirittura “premuto” su Berlusconi, indebolito dai suoi senili scandali puttaneschi perchè intervenisse ancora più decisamente a fianco della NATO, che ha sostituito il vecchio “sol dell’avvenire”. E Grimaldi si contrappone anche alla posizione di confusionari estremisti, come il trotzkista Marco Ferrando o l’anti-imperialista Moreno Pasquinelli, che si sono arrampicati grottescamente sugli specchi per conciliare l’appoggio agli insorti libici, dichiarati a priori “rivoluzionari”, ed il fatto che questi ultimi invocano a gran voce i bombardamenti NATO ed USA. Per carità di patria non approfondisco l’osceno “‘tifare” per gli insorti libici del “Manifesto”, del “Punto Rosso”, della signora Rossanda, dei signori Dario Fo e Franca Rame, eccetera. Il problema è infatti ampio, e coincide con la decadenza irreversibile di una intera teoria politica, che ha sostituito la lotta di classe ed il mito sociologico proletario con l’antiberlusconismo giudiziario urlato e con la lotta contro gli eterni dittatori totalitari. Il fatto è che questa gente, pur essendo spiritualmente morti, non sono stati seppelliti, e possono fare come gli zombies, che escono di notte per terrorizzare i viventi. Costoro sono egemonici nell’apparato mediatico detto impropriamente di “sinistra”, ed in questo modo possono silenziare i loro oppositori e confinarli nella galassia sotterranea dei blog. Meno male, comunque, che questi blog esistono, ma non possono che essere una soluzione provvisoria. Prima o poi, bisognerà riuscire a passare ai quotidiani, ai settimanali, alle case editrici. Il vergognoso monopolio di fogli come il “Manifesto” dovrà essere infranto.

Non intendo certo fare qui l’apologia di Gheddafi. Il suo governo quarantennale, indubbiamente carismatico-paternalistitco-dispotico, ha avuto luci ed ombre, come del resto qualsiasi governo quarantennale. Ma ha sviluppato economicamente e socialmente la Libia, e non ha mai ceduto su questioni essenziali di sovranità nazionale. L’occidente ha sempre saputo che Gheddafi non era dei ‘“suoi”, ed infatti lo ha colpito alla prima occasione. Colgo l’occasione per affermare pubblicamente di solidarizzare totalmente con il legittimo governo di Gheddafi, del tutto indipendentemente da come finiranno le cose, che non posso certo prevedere. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione del benemerito presidente venezuelano Chávez. Ho appoggiato l’onesta proposta di mediazione dell’Unità Africana, organo indubbiamente più legittimo della NATO e degli USA, cui l’Europa vile si è subito accodata. Ma chi vivrà vedrà.

Gli avvenimenti arabi devono però essere l’occasione per un inquadramento più generale nella situazione geopolitica mondiale. Il recante Forum svizzero di Davos (cfr. Federico Rampini in “Repubblica”, 27-1-11) ha verificato sulla base di corredi statistici amplissimi che “in ciascuna nazione del mondo si allarga il baratro fra ricchi e poveri”. È questa la logica inesorabile del neoliberismo, dal reaganismo americano al New Labour di Tony Blair al mercatismo di Deng Hsiao Ping e dei suoi successori. Il sistema politico ha il ruolo di avallare l’approfondimento di queste diseguaglianze. In termini di allargamento delle diseguaglianze, le società occidentali si sono omologate ad India, Cina e Indonesia.

Si tratta del fenomeno che l’economista francese di Bordeaux Bernard Conte ha definito “terzomondizzazione del pianeta”. È interessante che i paperoni oligarchi di Davos circondati da giornalisti servi e da professori universitari corrivi, constatino questi dati che un tempo erano appannaggio dei contestatori più estremisti, nel frattempo approdati al disincanto post-moderno, alla teologia dei diritti umani, ai bombardamenti umanitari ed al canto rituale di “Bella Ciao”.

Come governare un simile sistema irrazionale ed impazzito? Ma il semplice ricorso alla cosiddetta “esportazione del modello occidentalistico” non basta, e non coglie a mio avviso il cuore del problema. Il modello occidentalistico è basato sul privilegio, ed in quanto tale non è esportabile. Non c’’è abbastanza grasso che cola per tutti. Come abbiamo visto, la dinamica della globalizzazione capitalistica finanziaria non è tanto l’occidentalizzazione del mondo, quanto la terzomondizzazione del pianeta. Un mondo del genere può essere governato soltanto “organizzando il Caos”.

Ma come organizzare il Caos? Ce lo spiega il politologo americano Parag Khanna, recensito entusiasticamente dal giornalista neo-conservatore Maurizio Molinari (cfr. “La Stampa”, 27-3-11), in un suo libro intitolato “Come Governare il mondo” (How to run the world). Il mondo si governa organizzando sapientemente il caos, ed il caos si organizza trasformando gli attuali cento stati mondiali, usciti dalla storia degli ultimi tre secoli e dal colonialismo europeo dell’Ottocento, in duemila o tremila a base etnica e tribale. In effetti è l’Uovo di Colombo. Più sono deboli e numerosi gli stati, più gli USA potranno governarli meglio. Gli esempi che fa Khanna sono numerosi. La Libia dovrebbe essere divisa nelle tre precedenti provincie ottomane, la Tripolitania, la Cirenaica ed il Fezzan. L’Afganistan non è che un pezzo della vecchia Persia multietnica , e potrebbe essere diviso fra Pashtun, Tagiki ed Uzbeki. Il Sudan è già stato diviso fra Nord e Sud, ma si può fare ancora di più (Darfur, eccetera). L’Etiopia è già stata divisa fra Etiopia ed Eritrea, ma si può ancora fare di più (amarici ed oromo galla, eccetera). La Nigeria è divisibile fra un Sud cristiano ed un Nord musulmano, erede dell’impero Hausa. I’Irak è divisibile fra arabi e curdi, sunniti e sciiti. Ed in prospettiva, si possono dividere a pezzi ancora molti stati, la Cina (Tibet. e Sinkiang), la Birmania-Myanmar, eccetera.

Parag Khanna ha perfettamente ragione. Se fossi un ben pagato consulente del Dipartimento di Stato USA, scriverei esattamente le cose che scrive lui. Occorre organizzare il Caos, perchè solo organizzando il caos si può continuare a governare, soprattutto in assenza di un credibile modello politico universalistico e comunitario. Uomini come Khanna sono facilitati dal fatto che coloro che dovrebbero opporsi ai loro piani sono come gattini ciechi e come uccellini implumi, invischiati nelle ideologie impotenti del politicamente corretto e dell’interventismo umanitario. Con avversari come Dario Fo e Rossana Rossanda Khanna ha vinto prima ancora di sedersi al tavolo da gioco. Ci vuole infatti un pensiero che recuperi il concetto strategico di “nemico principale”, applicato alla politica, all’economia ed alla geopolitica. Ho scritto in proposito un testo, allegato al numero 2 della rivista torinese “Socialismo XXI”, una rivista che si situa apertamente al di là della dicotomia Destra/Sinistra. Ad esso rimando il rettore interessato. Certo, non si tratta di una chiave universale che apre tutte le porte, e che esenti dall’analisi concreta della situazione concreta. Ma si tratta di una proposta di orientamento di fondo. In caso contrario, continueremo a pasticciare nel fango di chi appoggia contemporaneamente i ribelli arabi ed i bombardamenti NATO, violando non solo il principio aristotelico di contraddizione, ma anche il buon vecchio e sempre vivo buon senso.