venerdì 25 febbraio 2011

  Tunisia, Egitto: quando un vento dell’est spazza via 
  l’arroganza dell’Occidente


  di  Alain Badiou

Il vento dell’est vince sul vento dell’ovest. Fino a quando l’Occidente inattivo e crepuscolare, la “comunità internazionale” di coloro i quali si credono ancora i padroni del mondo, continueranno a dare lezioni di buona gestione e di buona condotta alla terra intera? Non è risibile vedere quegli intellettuali di servizio, soldati allo sbando del capitalo-parlamentarismo che ci mantiene in questo paradiso tarlato, fare dono delle loro persone ai magnifici popoli tunisino e egiziano, al fine di insegnare a questi popoli selvaggi l’a,b,c della democrazia? Che desolante persistenza dell’arroganza coloniale! Nella situazione di miseria politica che è la nostra da almeno tre decenni, non è ancora evidente che siamo noi ad aver tutto da imparare dai sollevamenti popolari del momento? Non dobbiamo forse studiare, in tutta urgenza e da vicino, tutto ciò che, laggiù, ha reso possibile il rovesciamento attraverso l’azione collettiva di governi oligarchici, corrotti e inoltre – e forse soprattutto – in situazione di vassallaggio umiliante nei confronti degli Stati Occidentali?

Si, noi dobbiamo essere gli scolari di questi movimenti, e non i loro stupidi professori. Poiché essi danno vita, nel genio delle loro invenzioni, ad alcuni principi della politica dei quali si cerca da tempo di convincerci che sono morti e desueti. E in particolare a questo principio che Marat non smetteva di ricordare: quando si tratta di libertà, di eguaglianza, di emancipazione, noi dobbiamo tutto alle rivolte popolari.

Si ha ragione a rivoltarsi. Così come la politica, i nostri Stati e quelli che li ostentano (partiti, sindacati e intellettuali servili) preferiscono la gestione, così alla rivolta preferiscono la rivendicazione, e a ogni rottura la “transizione ordinata”. Quello che i popoli egiziani e tunisini ci ricordano, è che la solo azione che sia all’altezza di un sentimento condiviso di occupazione scandalosa del potere di Stato è la levata in massa. E che in questo caso, la sola parola d’ordine che possa federare le diverse componenti della folla è: “Tu che sei là, vattene!” (Que se vayan todos!). L’importanza eccezionale della rivolta, in questo caso, la sua potenza critica è che la parola d’ordine ripetuta da milioni di persone da la misura di quella che sarà, senza dubbio e irreversibilmente, la prima vittoria: la fuga dell’uomo così designato. E qualunque cosa accada in seguito, questo trionfo, illegale per natura, dell’azione popolare sarà per sempre vittorioso. Ora, che una rivolta contro il potere dello Stato potesse essere assolutamente vittoriosa è un insegnamento dalla portata universale. Questa vittoria indica sempre l’orizzonte sul quale si distacca qualsiasi azione collettiva sottratta all’autorità della legge, quello che Marx ha chiamato “l’estinzione dello Stato”.

Ci fa sapere che un giorno, liberamente associati nello sviluppo della potenza creatrice che è la loro, i popoli potranno fare a meno della funebre coercizione statale. E’ proprio per questo, per quest’idea ultima, che una rivolta che abbatte l’autorità costituita scatena un entusiasmo senza limiti nel mondo intero.

Una scintilla può dare fuoco alla pianura. Tutto comincia dal suicidio di fuoco di un uomo ridotto in disoccupazione, al quale si vuole interdire il miserabile commercio che gli permette di sopravvivere, e che una donna-poliziotto schiaffeggia per fargli comprendere quello che, a questo mondo, è reale. Il gesto si allarga in qualche giorno, settimane, fino a milioni di persone che gridano la loro gioia in una piazza lontana e alla partenza di potenti potentati. Da dove viene questa espansione fantastica? La propagazione di un’epidemia di libertà? No. Come dice poeticamente Jean-Marie Gleize, “un movimento rivoluzionario non si diffonde per contaminazione. Ma per risonanza. Qualcosa che si produce qui risuona attraverso l’onda di shock emessa da qualche cosa che si è prodotta laggiù”. Questa risonanza, chiamiamola “evento”. L’evento è la brusca creazione, non di una nuova realtà, ma di una miriade di nuove possibilità.

Nessuna di esse è la semplice ripetizione di ciò che già si conosce. Ed ecco perché è oscurantista dire “questo movimento reclama la democrazia” (sottointeso, quella di cui noi godiamo in Occidente), oppure “questo movimento reclama un miglioramento sociale” (sottinteso, la prosperità media del nostro piccolo-borghese). Partita da quasi niente, risuonata ovunque, la sollevazione popolare crea per il mondo intero delle possibilità sconosciute. La parola “democrazia” non viene praticamente pronunciata in Egitto. Si parla di “nuovo Egitto”, di “vero popolo egiziano”, di assemblea costituente, di cambiamento assoluto dell’esistenza, di possibilità inaudite e prima sconosciute. Si tratta della nuova pianura che verrà al posto di quella che ha preso fuoco grazie alla scintilla della sollevazione. E si mantiene, questa pianura a venire, tra la dichiarazione di un rovesciamento delle forze e quella di una presa in mano di compiti nuovi. Tra quello che ha detto un giovane tunisino: “Noi, figli di operai e di contadini, siamo più forti che i criminali”; e quello che ha detto un giovane egiziano: “A partire da oggi, 25 Gennaio, io prendo in mano gli affari del mio Paese”.

Il popolo, il popolo è il solo creatore della storia universale. Colpisce molto che nel nostro Occidente i governi e i media considerano che le rivolte di una piazza del Cairo siano “il popolo egiziano”. Cosa? Il popola, il solo popolo ragionevole e legale, per queste persone, non era di solito ridotto o alla maggioranza di un sondaggio oppure a quella di un’elezione? Com’è che così, d’improvviso, centinaia di migliaia di ribelli siano rappresentativi di un popolo di 80 milioni di persone? Questa è una lezione da non dimenticare, che noi non dimenticheremo.

Passata una certa soglia di determinazione, di ostinazione e di coraggio, il popolo può in effetti concentrare la propria esistenza su una piazza, una strada, qualche fabbrica, un’università… Il mondo intero sarà testimone di quel coraggio e soprattutto delle stupefacenti creazioni che l’accompagnano. Queste creazioni avranno valore di prova del fatto che il popolo si mantiene là. Come ha detto fortemente manifestante egiziano: “prima io guardavo la televisione, ora è la televisione che guarda me”.

RISOLVERE DEI PROBLEMI SENZA L’AIUTO DELLO STATO

Nella calca di un evento, il popolo si compone di coloro i quali sanno risolvere i problemi che l’evento stesso pone loro. Come l’occupazione di una piazza: mangiare, dormire, guardia, bandiere e striscioni, preghiere, combattimento difensivo, tali che il luogo in cui tutto accade, il luogo divenuto simbolo, sia conservato dal suo popolo, ad ogni prezzo. Problemi che, su scala di centinaia di migliaia di persone venute da ogni parte, parrebbero irrisolvibili, a cui è da aggiungere il fatto che su quella piazza lo Stato è sparito. Risolvere senza l’aiuto dello Stato dei problemi irrisolvibili, è questo il destino di un evento. Ed è ciò che fa si che un popolo, all’improvviso, e per un tempo indeterminato, esista, là dove esso stesso ha deciso di riunirsi.

Senza movimento comunista, niente comunismo. La sollevazione popolare di cui parliamo è manifestamente senza partito, senza organizzazione egemonica, senza dirigenti riconosciuti. Verrà sempre il tempo di misurare se questa caratteristica sia stata una forza o una debolezza. E in ogni caso è proprio questo che ha fatto sì che ci siano stato, in forma veramente pura, senza dubbio la più pura dopo la Comune di Parigi, tutti i tratti di quello che bisogna chiamare un “comunismo di movimento”. “Comunismo” vuol dire qui: creazione in comune del destino collettivo. Questo “comune” ha due assi particolari. Prima di tutto, è generico, rappresentante, in un luogo, l’umanità nella sua interezza. In questo luogo, ci sono tutti i tipi di gente di cui un popolo si compone, ogni parola è ascoltata, ogni proposta esaminata, ogni difficoltà trattata per quella che è. E poi, il comune sormonta tutte le grandi contraddizioni di cui lo Stato pretende di essere il solo a poter gestire, senza mai oltrepassarle: tra intellettuale e manuale, tra uomo e donna, tra povero e ricco, tra musulmano e copto, tra genti di provincia e genti della capitale…

Migliaia di possibilità nuove, riguardanti queste contraddizioni, sorgono ad ogni momento, alle quali lo Stato – ogni Stato – è interamente cieco. Si vedono delle giovani dottoresse venute dalla provincia per curare i feriti dormire in mezzo ad un cerchio di giovani selvaggi, e sono più tranquille che mai, sanno che nessun toccherà loro neanche la punta di un capello. Si vede pure un’organizzazione di ingegneri rivolgersi ai giovani banlieusards per supplicarli di tenere la piazza, di proteggere il movimento con la loro energia nel combattimento. Si vede, ancora, una fila di cristiani appostata, in piedi, per vegliare sui musulmani piegati in preghiera. Si vedono i commercianti dare da mangiare ai disoccupati ed ai poveri. Si vede ciascuno parlare ai propri vicini sconosciuti. Si leggono mille cartelli in cui la vita di ognuno si mischia senza distacco alla grande Storia di tutti. L’insieme di queste situazioni, di queste invenzioni, costituiscono il comunismo del movimento. Ed ecco che da due secoli il problema politico unico è questo: come stabilizzare in durata le invenzioni del comunismo del movimento? E l’unico enunciato reazionario sta in : “questo è impossibile, o nocivo. Affidiamoci allo Stato”. Gloria ai popoli tunisini ed egiziani che ci riportano al vero e unico dovere politico: di fronte allo Stato, la fedeltà organizzata al comunismo del movimento.

Noi non vogliamo la guerra, ma non ne abbiamo paura. Si è parlato ovunque della calma pacifica delle manifestazioni gigantesche, e si è legata questa calma all’ideale di democrazia elettiva che si prestava al movimento. Nonostante ciò, constatiamo che ci sono state centinaia di morti, e che ce ne sono ancora ogni giorno. In molti casi, questi morti sono dei combattenti e dei martiri dell’iniziativa, poi della protezione del movimento stesso. I luoghi politici e simbolici della sollevazione hanno dovuto essere mantenuti al prezzo di combattimenti feroci contro i miliziani e le polizie dei regimi minacciati. E là, chi ha pagato con la vita se non i giovani provenienti dalle popolazioni più povere? Le classi medie, delle quali la nostra Michèle Alliot-Marie (ministro degli Esteri francese, ndTr), ha detto che lo sbocco democratico della sequenza in corso dipende da loro e solo da loro, si ricordino che, nel momento cruciale, la durata della sollevazione è stata garantita esclusivamente dall’impegno senza riserve dei distaccamenti popolari. La violenza difensiva è inevitabile. Essa prosegue, del resto, nelle condizioni difficili in Tunisia, dopo che si sono rinviati alle loro miserie i giovani attivisti delle province.

E possiamo seriamente pensare che queste innumerevoli iniziative e questi sacrifici crudeli abbiamo come solo scopo fondamentale di condurre le persone a scegliere tra Souleimane e El Baradei, come da noi ci rassegniamo pietosamente a scegliere tra Sarkozy e Strauss-Kahn (o tra un Bersani-Vendola-Fini e Berlusconin, ndTr) ? Questa è l’unica lezione di questo intero splendido episodio?

No, mille volte no! I popoli tunisini ed egiziani ci dicono: sollevarsi, costruire il luogo pubblico del comunismo del movimento, difenderlo con tutti i mezzi, inventando là tutte le tappe successive dell’azione, questo è la realtà della politica popolare di emancipazione. E non è in dubbio il fatto che gli Stati dei Paesi arabi siano anti-popolari e, in fondo, elezioni o no, illegittimi. Quale che sia il loro divenire, le sollevazioni tunisine ed egiziane hanno un significato universale. Essi prescrivono delle possibilità nuove il cui valore è internazionale.


 Articolo tratto da Le Monde

giovedì 24 febbraio 2011

I misteri della logica: Il punto fisso di P. Pagliani

  di Gloria M. Ghioni


Il punto fisso
di Piero Pagliani
Mimesis, Milano-Udine 2010

pp. 284
€ 16.00


Le lettere dell'alfabeto hanno aperto possibilità grandiose all'umanità, proprio perché sono astrazioni impoverite di immagini concrete. Al contrario, le nuove concretezze virtuali della comunicazione faranno retrocedere di millenni le facoltà intellettive dell'uomo. (pp. 73-74)


Parola e logica, narrazione e tecnologia, alfabeto e numero... Ma anche amore e disamore, volontà di agire e paura del rifiuto, un passo avanti e due indietro, indagine e occultamento di prove,... Il punto fisso è un romanzo che vive di antitesi, fino all'irrisolta dicotomia vita/morte che tanto spesso troviamo nei thriller. Ma questo non è un semplice thriller, né il suo impianto narrativo ricalca modelli vetusti: la formazione scientifica dell'autore (informatico nonché studioso di algebra e di logica, professore di Teoria dei Modelli) non è un semplice sfondo alla vicenda, ma parte integrante e, forse, nucleo forte dell'ispirazione.

La vicenda, infatti, ha per protagonisti e personaggi secondari quasi unicamente matematici, tra cui l'io-narrante, Marco, e la bella amica indiana Mohua, tanto intelligente da portare avanti uno studio di logica che potrebbe avere implicazioni importanti nella vita quotidiana. Importanti e pericolose, al punto da attirare l'interesse di diverse potenze internazionali, che stringono d'assedio la giovane matematica, trovata uccisa da Marco all'inizio dell'opera.
Dunque, come capirete, ci si muove perlomeno su due piani temporali diversi: il nebuloso, ambivalente, misterioso e intrigante presente, in cui Marco deve prendere decisive risoluzioni (e non mancano i pericoli); e l'intreccio di episodi passati, in cui Marco compare o è assente: tra i primi, le serate con Mohua e l'amore nascosto in un patto tacito, quasi masochistico; tra i secondi, segreti, presenze ambigue e scambi di informazioni che, secondo le leggi più classiche del thriller, aumentano la suspense e rimescolano continuamente le carte in tavola.

I diversi piani narrativi, molto rischiosi da portare avanti con coerenza, sono gestiti con grande padronanza: è chiaro che Piero Pagliani aveva tutta la trama ben organizzata prima ancora di scrivere, e non si notano significativi cali di tensione o sbavature. Al contrario, è interessante la capacità di intridere il nucleo narrativo (che si avvicina, come abbiamo detto, al thriller o al genere di spionaggio) di riflessioni più ampie, che spaziano dalla letteratura alla vita di tutti i giorni, senza trascurare i sentimenti. Perché Il punto fisso affianca alle suddette tematiche la forza dei sentimenti - in modo particolare, i tre amori della vita di Marco: la compianta Mohua, che diventa quasi tangibile nel ricordo; Laura, il primo amore mai completamente rimosso; e Paula, sensibile transessuale verso cui il protagonista cerca di arginare il forte desiderio. Tre amori che - anticipo - non appagano Marco, appigliato alle proprie frustrazioni e a fantasie sentimentali, bloccato tra l'azione e la contemplazione del ricordo.
Così anche nella vita professionale: in apertura, Marco è sostanzialmente un rinunciatario, e non mancano altri momenti in cui è forte la tentazione di arrendersi. Ma il "punto fisso" impedisce una serena rinuncia, e al protagonista - chiaramente diverso dalla canonica immagine di eroe romanzesco - non resta che mettersi in discussione, e sfidare questo mondo in cui realtà e menzogna sono due facce della stessa caleidoscopica medaglia. Il tutto, verso un finale del tutto imprevedibile e ben architettato.

Come è possibile dedurre da quanto detto finora, il romanzo non tradisce ingenuità, né vizi di forma: è una struttura compatta che sa quando e come dilatare analessi e dialoghi. Il linguaggio matematico e logico entra con una certa prepotenza in alcuni dialoghi, ma l'autore si preoccupa di inserire chiose che, se da un lato paiono meno verosimili nel dialogo quotidiano tra matematici di quel livello, dall'altro assicurano un buon margine di comprensione da parte del lettore. Infine, il linguaggio specialistico si sposa con un buon livello di ricchezza lessicale, per una sintassi piuttosto articolata, dove non mancano andamenti argomentativi impeccabili da mente scientifica.

giovedì 17 febbraio 2011

Lo Stato-nazione


Edgar Morin

Lo Stato-nazione è al tempo stesso creazione e creatore dell’Europa moderna. La Storia aveva contemplato fino al Medio Evo imperi, città, popoli, etnie. La formula dello Stato-nazione, più estesa di quella delle città, è più ristretta e più unificata di quella degli imperi, anche quando è multietnica. Lo Stato-nazione si forma lentamente, e alquanto diversa­mente, in Francia, Inghilterra, Spagna, Portogallo a partire da e attorno a un potere monarchico che si forma esso stesso formando lo Stato-nazione. L’insularità favorisce lo sviluppo dello. Stato-nazione britannico. La Reconquista cattolica contro l’Islam favorisce lo sviluppo dello Stato-nazione ispanico. La perseveranza monarchica e la fortuna storica favoriscono lo sviluppo dello Stato-nazione francese. Poi la formula dello Stato-nazione emerge in modo evidente nella e attraverso la Rivoluzione francese. Fino allora, lo Stato monarchico aveva effettuato la gestazione della nazione attraverso la lenta francesizzazione delle etnie inglobate o conquistate. A partire dalla Rivoluzione, la nazione legittima lo Stato. La nazione è ravvivata dall’idea democratica che nomina il nuovo sovrano: l’insieme dei cittadini della nazione che costituiscono il popolo francese; essa è ipervitalizzata dalla minaccia di invasione e dalla guerra contro i nemici della «grande nazione».

Poco tempo prima, si era costituito in America un modello federale di Stato-nazione a partire dall’emancipazione dei coloni rispetto alla loro madrepatria. Da allora, tanto per il principio francese quanto per quello americano, Stato-nazione costituisce un modello emancipatore potenzial­mente universalizzabile. Ecco perché, dall’inizio del XIX secolo, l’esempio degli Stati Uniti anima le rivolte delle popolazioni bianche e meticce che fanno emergere le nuove nazioni dell’America Latina. In Europa, dove fino alla fine del XVIII secolo la nazione non emergeva che lentamente attraverso un pro­cesso multisecolare operato da uno Stato unificatore, il processo si rovescia bruscamente: in Germania e in Italia, è l’idea di nazione che, stimolata da una predicazione infiammata, animata da un vasto slancio collettivo, induce due regni periferici (il Regno di Prussia e il Regno del Piemonte) a fondare un grande Stato-nazione. Meglio ancora, in Grecia, Serbia, Bulga­ria, Romania, l’idea di nazione anticipa la costituzione di qualunque Stato e procede a tale costituzione animando le lotte emancipatrici di popoli sottomessi all’impero ottomano.

Nel XX secolo, lo smembramento dell’Impero ottomano e quello dell’Impero austro-ungarico fanno accedere allo Stato nazionale popoli o etnie che ne erano stati storicamente esclusi. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, la rivolta nell’ambito dei grandi imperi coloniali si fa in nome dell’emancipazione nazionale e il modello di Stato-nazione si impone nel mondo intero.

Spesso, in Africa, sulla base della suddivisione coloniale, alcuni Stati nascenti impongono una nazione ancora incerta o addirittura fittizia a etnie diverse che non possiedono nemmeno un linguaggio comune. Il caso limite è quello in cui l’idea di una nazione precede non solo la formazio­ne di uno Stato, ma finanche l’occupazione di un territorio, stimolando prima l’una e poi l’altra, come nel caso del sionismo, versione giudaica della concretizzazione di un’identità non più soltanto religiosa o etnica, ma nazionale. La formidabile realtà dello Stato-nazione che, ancora minoritaria due secoli fa, ha poi invaso e dominato il pianeta, resta ancora malconcepita e ancor meno pensata. Gli storici descrivono la formazione degli Stati­nazione, i loro sviluppi, ma, con l’eccezione di Toynbee, non c’è alcuna riflessione sulla loro natura. La sociologia parla di categorie di società (tradizionale, industriale, postindustriale) ma ignora la natura nazionale di queste società. Il marxismo ha minimizzato la realtà della nazione, chiarendo ciò che la divide (i conflitti di classe) e non ciò che la unifica,’ e ha minimizzato la realtà dello Stato, vedendo in esso non altro che uno strumento di coercizione nelle mani della classe dominante. Del resto, i partiti marxisti della Seconda Internazionale si sono infranti sul nazionalismo nel 1914, .e il «marxismo-leninismo» di Stalin si è impregnato di patriottismo negli anni Trenta.

Comunità, società

Una delle difficoltà maggiori per pensare lo Stato-nazione risiede nel suo carattere complesso. In effetti, lo Stato-nazione compiuto è un’entità al tempo stesso territoriale, politica, sociale, culturale, storica, mitica e religiosa. La sua realtà è multidimensionale, fatta dell’assemblaggio intimo di sostanze diverse unificate e articolate in una Unità.

Non mi dilungherò qui sulla realtà politica che si trova cristallizzata nella nozione di Stato sovrano. Lo Stato è un «apparato» che dispone di appendici come l’esercito, la polizia, la giustizia, eventualmente la chiesa. Dirò soltanto che la nozione di Stato non può essere esplicitata soltanto in termini politici e che è necessaria preliminarmente una definizione del concetto di apparato.

Lo Stato-nazione è un’entità sociale o società. E una società territorial­mente organizzata. Una società siffatta è complessa nella sua doppia natura in cui bisogna non solo opporre, ma altresì associare fondamentalmente le nozioni di Gemeinschaft o comunità e di Gesellsehaft o società. La nazione è una società nelle sue relazioni di interesse, di competizioni, rivalità, ambi­zioni, conflitti sociali e politici. Ma è parimenti una comunità identitaria, una comunità di atteggiamenti e una comunità di reazioni di fronte allo straniero e più ancora al nemico. Le guerre europee, dal XVII al XX secolo, hanno intensificato questa comunità per ciascuna nazione contrapposta, talvolta in una lotta mortale, a un nemico sentito in qualche caso addirit­tura come «ereditario». La storia dell’inizio del secolo rileva ad un tempo la formidabile conflittualità interna alle grandi nazioni occidentali, spinta talvolta fino alla guerra civile, e la loro formidabile solidarietà di fronte al nemico esterno. La conflittualità sembra predominante prima del 1914 opponendo i partiti operai, rivoluzionari e internazionalisti ai partiti bor­ghesi, nazionalisti e tradizionalisti. Ma improvvisamente, in ogni nazione, lo scoppio della guerra induce i partiti internazionalisti a compattarsi nella «unione sacra» contro il nemico esterno.



Comunità di destino

La comunità ha un carattere culturale e storico. È culturale sotto il profilo dei valori, i costumi, i riti, le norme, le credenze comuni, storico per le metamorfosi e le prove subite nel corso del tempo. È, nelle parole di Otto Bauer, una comunità di destino.

Le nazioni hanno in genere una lingua comune. Talvolta però il destino storico comune unisce popolazioni di lingue e religioni diverse, come la Svizzera il cui destino comune fu quello di mantenere una rigida e costante neutralità durante le guerre europee.

Questo destino comune viene memorizzato, trasmesso di generazione in generazione dalla famiglia, i canti, le musiche, le danze, le poesie e i libri, poi dalla scuola, che integra il passato nazionale nello spirito dei bambini in cui rivivono le sofferenze, i lutti, le vittorie, le glorie della storia nazionale, i martiri e le prodezze dei suoi eroi. Così l’identificazione con il passato rende presente la comunità di destino.

L’entità mitologica

La comunità di destino è tanto più profonda in quanto è suggellata da una fraternità mitologica. In effetti, lo Stato-nazione è una patria, termine femminile-maschile poiché contiene nel suo femminile il maschile della paternità. La patria è un’entità di sostanza consustanzialmente materna/ paterna. Trasferisce su una scala di popolazioni di milioni di individui, che non hanno alcun vincolo di consanguineità e spesso provengono da etnie

molto diverse, le calde relazioni che esistono fra persone appartenenti al medesimo focolare. Così la nazione, di sostanza femminile, ha in sé le qualità della terra-madre (madre patria), del Focolare (home, heimat) e suscita, nei momenti comunitari, i sentimenti d’amore che si provano naturalmente per la propria madre. Lo Stato, invece, è di sostanza paterna. Dispone dell’au­torità assoluta e incondizionata del padre-patriarca e gli si deve obbedienza assoluta. La relazione matti-patriottica con lo Stato-nazione suscita, di fronte al nemico, il sentimento della fraternità mitica dei «figli della patria».

Il mito nazionale è bipolarizzato. Al primo polo c’è il carattere spirituale della fraternità tra «figli della patria». Al secondo polo, la fraternità mito­logica appare come una fraternità biologica che unisce fra loro esseri dello stesso sangue, il che tende allora a suscitare il secondo mito (biologicamente erroneo) della «razza» comune. Così l’idea di nazione comporta un razzismo virtuale che si attiva allorché il secondo polo prende il sopravvento. Nel corso del XIX secolo, una polemica franco-tedesca ha messo in rilievo queste due polarità. La querelle sull’Alsazia-Lorena ha radicalizzato l’opposizione fra una concezione francese, che faceva della nazione un essere spirituale, un’«anima» comune che presuppone l’adesione dello spirito e dell’anima degli individui, e una concezione tedesca che insisteva su un’appartenenza quasi biologica al popolo etnicamente uno. In questa concezione, l’Alsazia­Lorena era indubitabilmente tedesca per determinazione germanica, mentre nella concezione francese era francese per scelta e volontà.

Se, in Francia, la prima concezione si impose nel partito repubblicano e permise alla terza Repubblica di continuare l’opera storica di francesizzazione attraverso l’integrazione di immigrati, la seconda polarizzazione trionfò nel partito nazionalista.

La religione nazionale

La mitologia matti-patriottica suscita una vera e propria religione dello Stato-nazione, che implica cerimonie di esaltazione (bandiera, monumen­to ai caduti), culto di adorazione alla Madrepatria, culti personalizzati di eroi e martiri. Come ogni religione, si nutre di amore, capace di ispirare fanatismo e odio. Lo Stato-nazione si radica nel tufo materiale della terra che sottende e costituisce il suo territorio e, al tempo stesso, vi trova il suo tufo mitolo­gico, quello della terra-madre, della madre-patria. C’è come una rotazione ininterrotta dal geopolitico al mitologico e, al tempo stesso, dal politico al culturale al religioso. Il mito non è la sovrastruttura della nazione: è ciò che genera solidarietà e comunità; è il cemento necessario a qualunque società e, nella società complessa, è il solo antidoto all’atomizzazione individuale e al dilagare distruttivo dei conflitti. Così, in una rotazione autogeneratrice del tutto attraverso i suoi elementi costitutivi, e dei suoi elementi costitutivi attraverso il tutto, il mito genera ciò che lo genera, ovvero lo Stato-nazione medesimo.

Oggigiorno, l’era in cui lo Stato-nazione rivestiva un ruolo emancipatore rispetto agli Stati coloniali è finita. Inoltre, tutto ci indica oggi che l’era della fecondità del potere assoluto dello Stato-nazione è superata. Prima di tutto, nella stessa cornice interna della nazione, lo Stato tende a diventare troppo oppressivo, astratto e omogeneizzatore a causa del suo stesso sviluppo tecno­burocratico. Ma, soprattutto, tutti i grandi problemi richiedono soluzioni multinazionali, transnazionali, continentali, perfino planetarie e necessitano di sistemi associativi, confederativi e federativi metanazionali.

In ogni caso, se è palese che in un certo numero di Paesi europei il nazionalismo aggressivo/difensivo si è considerevolmente assopito nel corso dei processi di intercomunicazione e scambio che sono seguiti alla Seconda guerra mondiale, deve essere altrettanto chiaro che lo Stato-nazione è ben lungi dall’essere diventato un fossile storico. Prima di tutto, non si può as­solutamente escludere che il rinnovamento delle esasperazioni nazionaliste che succede al crollo dell’ex impero sovietico possa effettuare una ricontaminazione dall’est all’ovest. Ma quand’anche, al contrario, l’est assistesse a una pacificazione dei nazionalismi, la resistenza multipla dello Stato-nazione, tanto nei confronti delle autonomie decentralizzate all’interno del suo ambito, quanto rispetto al sorgere di istituzioni multinazionali, resterà abbastanza forte da frenare e perfino stoppare tutti i processi che tendono a creare un sistema confederativo europeo e alle istanze sovranazionali di carattere continentale o planetario. L’antico internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mitologica dello Stato-nazione. Si tratta ormai non solo di riconoscerla, ma anche di non cercare di abolirla. Si tratta di rivitalizzarla, come è stata relativizzata la realtà provinciale che però non è stata abolita nella realtà nazionale. Ma allo scopo bisognerebbe che si amplificassero e si radicassero i sentimenti di solidarietà europei. Bisognerebbe al tempo stesso che i fondamenti mitologico-religiosi della nazione, il loro carattere matri-patriottico, fossero estesi, non solo sulla scala del nostro continente, già contrassegnato dalla civiltà che ha creato e da una comunità di destino via via più evidente, ma anche all’insieme di un pianeta ormai riconosciuto come la sola casa (home, heimat) della specie umana, e minacciata del più gran pericolo dalla specie umana medesima. Al pari della comunità nazio­nale, la comunità planetaria ha il suo nemico, ma la differenza radicale è che il nemico siamo noi stessi e che è difficile riconoscere questo nemico e affrontarlo. Tutto ciò fa sì che ci troviamo giusto al malcerto principio di questa presa di coscienza e delle nuove solidarietà. Questi processi potranno eventualmente sia accelerarsi e amplificarsi, sia al contrario disintegrarsi allorché entreremo in pieno nelle crisi che si annunciano. Ancora una volta, saremo obbligati ad attingere le nostre ragioni per sperare dalle ragioni che ci indurrebbero a disperare.

[testo inedito del 1997, tratto da: Edgar Morin, La mia sinistra. Rigenerare la speranza, a cura di Riccardo Mazzeo, Erickson, Trento 2011]

mercoledì 16 febbraio 2011

Eurocrack



di Vladimiro Giacchè

1. La crisi del debito sovrano è parte integrante della crisi generale iniziata nel 2007
Il primo aspetto da sottolineare è questo: la crisi del debito che infuria in Europa dalla primavera del 2010 non è qualcosa di diverso dalla crisi che a partire dal 2007 ha sconvolto l’economia e la finanza internazionali.

È un’ulteriore fase di quella crisi. Fa parte cioè della fine della bubble èpoque, ossia della crescita drogata con la finanza e con il debito che ha caratterizzato le economie dei Paesi occidentali negli ultimi trent’anni (in parte compensando, e così rendendo socialmente accettabile, un marcato declino della crescita e dei redditi da lavoro). Nel 2007 è iniziata a manifestarsi, con sempre maggiore perentorietà, l’insostenibilità di quel modello di “crescita” imperniato sul capitale produttivo d’interesse. La crisi, che ha seriamente minacciato – per la prima volta dal 1929 – l’intero sistema finanziario internazionale, è stata tamponata con una “socializzazione delle perdite” che non ha precedenti per entità nella storia: nel giugno 2009 il Financial Stability Report della Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’area dell’euro a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra spaventosa di 14.000 miliardi di dollari. Si tratta – precisava lo stesso rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50% del prodotto interno lordo di quei paesi.

A fronte di questo impegno gigantesco, i problemi di fondo dell’attuale fase di sviluppo del capitalismo non sono stati risolti. Il sistema finanziario globale non è saltato, ma nella gran parte dei paesi occidentali l’economia non si è affatto ripresa come desiderato. La distruzione di capitale è stata ingentissima, e ancora oggi, la disoccupazione è prossima al 10% sia negli Stati Uniti che in Europa (e in molti Paesi va ben al di là di queste cifre). Inoltre l’entità complessiva del debito (pubblico + prviato) non è diminuita. In compenso, è aumentata la proporzione del debito pubblico sul totale. Questo si deve in parte ai salvataggi di Stato di cui sopra, ma anche al fatto che la crisi ha diminuito le entrate fiscali e fatto crescere, invece, le spese per ammortizzatori sociali. Di conseguenza, oggi nel mirino non ci sono più le grandi banche, ma gli Stati. Chi è più esposto al rischio di fallimento? Ovviamente le possibili classifiche dipendono dal criterio che si sceglie: per entità assoluta del deficit il record spetta agli Stati Uniti (con un deficit annuo di 1.230 miliardi di dollari nel 2010, pari all’8% del prodotto interno lordo); se invece si prende l’entità del debito pubblico complessivo rispetto al pil vince il Giappone, che ha superato il 200%; se poi prendiamo la somma di debito pubblico e debito privato il record mondiale è della Gran Bretagna, con il 469% del Pil. I principali candidati al default dovrebbero essere questi (e non è affatto escluso che a breve la loro candidatura sia accettata con entusiasmo da mercati finanziari e speculatori). Sta di fatto, però, che la crisi del debito è scoppiata in Europa. Anche per questo, però, ci sono buone ragioni, che non possono essere ridotte alle “congiure” (che tra l’altro dovrebbero essere chiamate col loro nome: ossia “cartelli”) di qualche hedge fund statunitense.

2. La crisi del debito sovrano è scoppiata in Europa a causa di limiti strutturali dell’Unione Europea
I motivi dello scoppio in Europa della crisi del debito affondano le loro radici nel processo di costruzione dell’Europa, nella sua architettura istituzionale, e nelle loro finalità. In termini più brutali, la crisi è scoppiata in Europa perché l’Unione Europea è l’Europa dei capitali. Vediamo perché.
La crisi scoppiata nel 2007 ha evidenziato, e aggravato, un’accentuata divergenza tra le economie della zona euro: in termini di crescita, di inflazione, di squilibrio delle bilance commerciali e di incremento del debito pubblico. Stiamo assistendo ad una crisi che colpisce in misura molto diversa i paesi dell’Unione, con i più deboli tra essi ormai impossibilitati ad adoperare la leva delle svalutazioni competitive per raddrizzare le loro economie. E che quindi rischiano di avvitarsi in una spirale drammatica: crisi economica, debito fuori controllo (anche per la riduzione delle entrate fiscali a causa della crisi) e necessità di una terapia d’urto contro il debito che ha l’effetto di aggravare la crisi.
L’Unione Europea non è in grado di impedire che si producano situazioni del genere. Questo perché c’è l’unione monetaria, ma non esiste una politica economica integrata a livello europeo. E non può esserci, per un motivo ben preciso: perché una politica economica comune è impossibile in assenza di una politica fiscale comune. E le politiche fiscali dei Paesi dell’Unione sono tutt’altro che omogenee. Anche perché il Trattato di Lisbona prevede che sull’armonizzazione delle politiche fiscali (come del resto sulle politiche sociali) l’Unione possa decidere soltanto all’unanimità. Conseguenza: è sufficiente che sia contrario anche un solo Paese (che magari non fa neppure parte della zona dell’euro) per impedire che l’Unione Europea armonizzi le diverse legislazioni fiscali.
All’origine di questa situazione vi sono un presupposto ideologico e un motivo che ha direttamente a che fare con concreti interessi di classe. Il presupposto ideologico è l’idea neoliberistica secondo cui il “libero agire delle forze di mercato”, unito al coordinamento delle politiche monetarie e di bilancio, sarebbe la ricetta giusta per conseguire la crescita economica. Su questa idea sono stati costruiti tutti i trattati, almeno da Maastricht in poi. Il motivo legato a specifici interessi di classe è rappresentato dagli interessi delle imprese: le quali, proprio grazie all’assenza di regole fiscali comuni (ossia di regole uniformi di tassazione), hanno potuto fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda). Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala europea.
Tutto questo ha avuto effetti perversi di breve e di lungo periodo. Quelli di breve - siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie basse di deficit - sono consistiti in un aggravio del carico fiscale sulle persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori dipendenti) e in una riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati, indebolendo anche per questa via la domanda interna nei Paesi dell’Unione. I frutti avvelenati di lungo periodo, invece, li stiamo gustando adesso, e consistono nell’impossibilità concreta di una politica economica comune: anche per Paesi che hanno una moneta comune, e anche in presenza di una crisi devastante.
La realtà è che oggi l’Unione Europea, proprio in quanto è un’Europa ritagliata a misura delle esigenze dei capitali, è priva di strumenti per affrontare adeguatamente la crisi. In queste condizioni, la moneta unica può diventare una palla al piede per chi l’ha adottata: perché, in assenza di politiche economiche comuni, e di iniziative centralizzate di riequilibrio economico e trasferimento tra le regioni, ogni Stato è lasciato solo con i propri problemi senza potersi giovare di svalutazioni competitive.
Nei casi di crisi del debito sovrano che si sono presentati dalla primavera dello scorso anno in Europa (e che avrebbero potuto essere governati con ben altra facilità senza le caratteristiche della costruzione europea che abbiamo visto sopra), l’Unione Europea non è riuscita a far altro – dopo estenuanti trattative – che sostenere i titoli di Stato del Paese interessato, in parte attraverso nuovi prestiti (spesso assai onerosi in termini di interessi), in parte attraverso l’acquisto sul mercato dei relativi titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea. Tutto questo in cambio di manovre di drastica riduzione della spesa pubblica da parte degli Stati interessati, a cominciare dalle spese sociali e per le pensioni. Dal punto di vista del capitale, è la quadratura del cerchio: significa né più né meno che far pagare la crisi ai lavoratori (attivi e in pensione). Ma al tempo stesso, anche se i “leader” europei non mostrano di averlo capito, è la ricetta per la fine dell’euro e per la catastrofe economica. Vediamo perché.

3. La crisi del debito sovrano fornisce l’occasione ideale per distruggere il welfare europeo, scaricando i costi della crisi addosso ai lavoratori
Il ritornello è ormai lo stesso da mesi. Eccolo, nelle parole del Financial Times del 10 maggio 2010: “gran parte dell’Unione Europea vive al di sopra dei suoi mezzi”, e “se gli Europei non accettano misure di austerità adesso, probabilmente dovranno affrontare qualcosa di più scioccante: default del debito sovrano e collassi bancari”. Il Washington Post dello stesso giorno specificava: “I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli Stati”. Pochi giorni dopo, il 15 maggio, anche il Sole 24 Ore emetteva la sua sentenza: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”.
Sarebbe fin troppo facile ricordare a questi Soloni della disciplina di bilancio che si erano ben guardati dal lanciare analoghi allarmi quando – appena due anni prima – gli stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie. È però più utile dimostrare che spesso i problemi delle finanze pubbliche dipendono proprio da questi salvataggi. Emblematico il caso dell’Irlanda, dove è successo esattamente questo: 1) lo Stato ha salvato le due maggiori banche del Paese, travolte dalla crisi immobiliare, con iniezioni di capitale per decine di miliardi di euro; 2) questo ha fatto esplodere il deficit pubblico, che è schizzato al 32% del pil su base annua (il limite di Maastricht è al 3%); 3) contemporaneamente, sono state assunte misure di austerity che hanno precipitato il Paese in deflazione; 4) la crisi bancaria si è approfondita anche per questo motivo: e sono risultati necessari altri soldi, che lo Stato irlandese non era in grado di pagare; 5) di qui la necessità di un soccorso internazionale (un prestito di 85 miliardi di euro, un terzo dei quali destinato alle banche), a fronte di una severissima manovra di bilancio su 4 anni (tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali per 15 miliardi di euro, 25.000 impiegati pubblici a casa, neoassunti con uno stipendio del 10% inferiore e così via). La morale di tutta questa storia è molto semplice: il governo irlandese ha dato i soldi alle banche e i lavoratori irlandesi pagano il conto.
Più in generale, oggi l’attacco al welfare significa sgonfiare la bolla del debito comprimendo la quota di salario indiretto (le prestazioni sociali) e differito (le pensioni), oltre a privatizzare funzioni fin qui svolte dallo Stato a beneficio delle imprese private. Né più né meno di questo.

4. La formula “finanziamento agli Stati in crisi in cambio della distruzione del welfare” non funziona, e crea le premesse per l’implosione dell’Eurozona
Si può facilmente comprendere che questa strategia affascini buona parte delle classi dominanti del nostro continente (e non solo). Esattamente per gli stessi motivi essa deve essere avversata con forza dai comunisti. Ma c’è un ulteriore motivo per avversarla: questa strategia non è soltanto ingiusta, essa è fallimentare anche sul piano economico. Il punto è che la sola vera arma in grado di abbattere il debito pubblico di un Paese è la crescita economica: che comporta aumento delle entrate fiscali e minori spese per misure di assistenza (alle imprese e alle famiglie). Se non c’è crescita, se il prodotto interno lordo anziché crescere diminuisce, è inevitabile che cresca il rapporto tra deficit e pil - e quindi anche lo stock del debito che si viene accumulando. Ora, se si adottano misure di restrizione della finanza pubblica per abbattere il deficit in una situazione in cui la crescita già non c’è, il risultato inevitabile sarà una recessione. È quanto già oggi sta accadendo in Grecia e Irlanda. La verità è che in questi Paesi la prospettiva più probabile è comunque quella di una ristrutturazione del debito sovrano. Che però a questo punto avverrà dopo anni di depressione e di agonia economica. Nel frattempo, le banche private (francesi e tedesche nel caso della Grecia, inglesi e tedesche nel caso dell’Irlanda), avranno avuto tutto il tempo di vendere parte delle loro obbligazioni greche e irlandesi alla Banca Centrale Europea, senza scontare le perdite che avrebbero dovuto (giustamente) sostenere qualora alla ristrutturazione si fosse arrivati subito.
Ma allarghiamo lo sguardo. Immaginiamo che misure fortemente restrittive della spesa pubblica vengano adottate contemporaneamente da tutti i Paesi di una regione del mondo fortemente integrata economicamente, qual è l’Unione Europea: e nei mesi scorsi gli Stati dell’Unione Europea hanno in effetti deliberato tagli alla spesa pubblica per più di 300 miliardi di euro. In tal caso lo scenario sarà probabilmente depressivo: per il semplice motivo che il calo della domanda interna in ciascun Paese si tradurrà immediatamente anche in un calo delle esportazioni reciproche tra i diversi Paesi. Lo ha rilevato anche Paul Krugman il 12 gennaio scorso sul New York Times: i tagli sincronizzati alla spesa pubblica che si stanno attuando in Europa sono tali da “lasciare gran parte dell’Europa in una situazione di depressione profonda per gli anni a venire”. È ben difficile pensare che la stessa moneta unica possa resistere in uno scenario di questo tipo.
Ma in fondo basterebbe che il numero degli Stati in crisi aumentasse, per rendere le disponibilità delle BCE e del Fondo di sostegno finanziario (European Financial Stability Facility, EFSF) faticosamente messo in piedi negli ultimi mesi del tutto insufficienti a tamponare una crisi. Probabilmente, sarebbe sufficiente una seria crisi della Spagna per far saltare tutto il meccanismo e innescare reazioni a catena dall’esito imprevedibile. È probabilmente questo il motivo per cui la Germania, per la prima volta, ha cercato di anticipare la crisi del Portogallo offrendo aiuto (pur non avendo le proprie banche esposte significativamente): perché sa che dopo il Portogallo il prossimo candidato al default è la Spagna.

5. L’Italia a un bivio?
È il caso di spendere qualche parola anche sul caso italiano, rimasto sinora sullo sfondo, soprattutto a motivo del silenziatore che il governo ha posto alle notizie poco tranquillizzanti che filtravano da Bruxelles. Negli ultimi tempi Tremonti ha tenuto un profilo molto basso sull’argomento, limitandosi a ottenere qualche titolo sulla sua proposta di un bond europeo (avversata dalla Germania, e comunque non risolutiva). Ma la situazione è grave. È infatti evidente l’intento della Germania di far coincidere nei tempi l’accordo a livello europeo sull’entità della dotazione dell’EFSF con la fissazione di nuove regole, più stringenti di quelle negoziate a Maastricht, sul rientro dai debiti eccessivi, ossia eccedenti il 60% del pil. Come è noto, il debito pubblico italiano, grazie ai governi di Craxi-Andreotti-Forlani e poi alle leggi pro-evasione dei governi Berlusconi, veleggia sul 116% del pil. Sono già più volte trapelate indiscrezioni su regole quali l’obbligo di far diminuire il debito del 5% annuo (che costringerebbero a un avanzo di bilancio della stessa entità), e anche le cifre dei miliardi di riduzione del debito da realizzare. L’ultima, uscita poche settimane fa dalla Commissione Europea, parla di 130 miliardi in tre anni: una cifra folle. Non è un caso che già più volte un economista ben informato quale Paolo Savona abbia esplicitamente espresso la necessità che l’Italia pensi ad un “Piano B”, ossia a “uscire dall’euro avendo preordinato decisioni e alleanze internazionali per superare la fase critica senza incorrere nel rischio di perdere la sovranità fiscale residua e di incappare in una deflazione”; ritenendo tale prospettiva comunque preferibile al “Piano A”, cioè restare nell’euro a tutti i costi, soprattutto in presenza di un cambiamento in peggio delle regole del gioco (Il Foglio, 18 gennaio).
Se, come sembra, queste opzioni sono sul tappeto, è estremamente grave che su tutto questo, per evidente dolo da parte del governo e per la consueta “distrazione” dell’opposizione parlamentare, non avvenga da subito un dibattito pubblico.
Credo che i comunisti, oltre a sollecitare l’apertura di questo confronto, dovrebbero tenere fermo ad alcuni punti essenziali:
1) la più intransigente opposizione ad ogni ulteriore attacco a qualunque titolo al welfare (che andrà invece potenziato attingendo risorse all’enorme bacino dell’evasione fiscale, stimata in 120 miliardi di euro annui per il nostro Paese);
2) la più intransigente opposizione ad ogni modifica peggiorativa del già pessimo Trattato di Maastricht (non sarà fuori di luogo rammentare che tra le ragioni della bassa crescita del nostro Paese negli ultimi anni un ruolo non secondario ha giocato proprio l’insufficiente entità degli investimenti pubblici, ridotti al fine di mantenere il deficit sotto controllo): si tratta di una materia in cui vale la regola dell’unanimità, e l’Italia dovrà votare contro;
3) il rilancio della parola d’ordine dell’Europa dei popoli contro l’Europa dei capitali, per un’Europa che preveda
a. una fiscalità comune e standard comuni ed elevati di protezione dei lavoratori (invertendo la competizione al ribasso nelle politiche fiscali e sociali che ha caratterizzato gli ultimi anni);
b. una politica economica integrata, che includa il rilancio dei grandi progetti infrastrutturali pubblici a livello europeo e trasferimenti di fondi da regioni ricche a meno ricche;
nella consapevolezza che questo obiettivo rappresenta l’unica alternativa concreta alla fine dell’euro e alla disgregazione dell’Unione Europea;
4) la necessità di una battaglia per l’uscita dall’Unione Europea (e quindi dall’euro) qualora i Trattati siano modificati in modo tale da imporre al nostro Paese politiche di ulteriori tagli della spesa pubblica e delle prestazioni sociali, che comporterebbero un ulteriore decennio di stagnazione economica, oltre a polverizzare le conquiste di decenni di battaglie dei lavoratori.

Tratto da:marx21.it

martedì 15 febbraio 2011

Berlusconismo: "nuova strategia della tensione"



Emanuele Maggio

Berlusconismo. Cos’è? In sintesi: è la principale connotazione politico-culturale che la Repubblica Italiana ha assunto negli ultimi 17 anni, ovvero è la specifica conformazione politica di quella che è stata chiamata “Seconda Repubblica”.

Vorrei però tentare di offrire un’analisi più dettagliata. Innanzitutto, oserei affermare che il berlusconismo è una forma di “fascismo”. Ora, qui dobbiamo essere molto cauti. L’intellighenzia liberale e di sinistra da tempo dibatte il problema. Le posizioni sono soprattutto due: c’è chi crede che il berlusconismo sia un vero e proprio “regime” fascista, basato sulla costruzione propagandistica del consenso, sul rapporto diretto capo-massa e su alleanze parlamentari razziste e nostalgiche del duce, un regime fortunatamente limitato dalle garanzie costituzionali ma costantemente minaccioso verso di esse (questa è l’opinione dominante); c’è poi invece chi ridimensiona drasticamente il fenomeno, distinguendo chiaramente il presunto “regime” berlusconiano dal regime fascista che l’Italia ha conosciuto nel ventennio, escludendo categoricamente qualsiasi pericolo di “svolta autoritaria” e negando l’esistenza stessa del berlusconismo, relegandolo magari a semplice fenomeno di degrado culturale, demagogico e populistico.

Io vorrei qui assumere una posizione intermedia. Credo fermamente che il berlusconismo sia una forma di fascismo, ma non nel senso dell’opinione pseudosinistroide dominante. Anzi, credo che quell’opinione vada ribaltata, o quantomeno bilanciata, e il sinistroide che leggerà quanto scrivo probabilmente storcerà il naso.

Prima di tutto, chiariamo un poco il termine “fascismo”. Esso, come si sa, non gode di una definizione esaustiva e precisa. Esistono i fascismi, storicamente determinati, ma non “il fascismo”. Il regime mussoliniano fu diverso da quello hitleriano, ed entrambi, comunque molto simili, furono diversi da quello franchista o da quello peronista. In ogni caso, alcuni elementi ricorrono con costanza: il culto del capo, la costruzione del consenso, la repressione del dissenso, la militarizzazione della società. Il fascismo italiano si è caratterizzato per l’aggiunta di altri elementi specifici: il “rivoluzionarismo verbale” unito al “conservatorismo sostanziale” (è l’interpretazione classica), una certa vocazione totalitaria (ovvero l’ideale di un’uniformazione ideologico-culturale della società), la funzione anticomunista, una politica economica di stampo “sociale”. Il regime hitleriano ha aggiunto a tutti questi elementi soprattutto il razzismo, il nazionalismo e un certo ritualismo di massa. Dal quadro sopra descritto capiamo bene che il berlusconismo, qualora lo considerassimo una forma di fascismo, andrebbe necessariamente declinato come fascismo “moderno”, precisamente differenziato.

Innanzitutto, esso si innesta su un’altra forma di “fascismo” (così definito da Pasolini), quest’ultima di vecchia data. Ovvero l’omologazione consumistica presente nelle società industriali avanzate, che impone come modelli dominanti il successo e la ricchezza. Sono i francofortesi a farci notare che, senza bisogno di golpe militari, il capitalismo ha imposto un “totalitarismo perfetto” che si distingue dal “totalitarismo imperfetto” dei regimi autoritari, che mai sono riusciti a raggiungere quel grado di omologazione culturale che le liberaldemocrazie capitalistiche hanno raggiunto senza problemi. Questa forma di “fascismo”, naturalmente, prescinde da Silvio Berlusconi e cronologicamente lo precede. Ci stiamo avvicinando alla definizione di “berlusconismo”, ma ancora non l’abbiamo delimitata nel suo significato precipuo.

Il berlusconismo si innesta anche su di un altro sistema politico oggi dominante: la poliarchia mediatica bipolare. Il termine “poliarchia” è stato introdotto da Robert Dahl per dare il giusto nome a quella che gli occidentali si ostinano a chiamare “democrazia”. La poliarchia, come già si auspicava nel 1975 l’americano Samuel Huntington, è il governo di molti, non di tutti. Il popolo deve autodeterminarsi, senza dubbio, ma esso può solo decidere tra una gamma di opzioni selezionate dall’alto. Non è che può decidere liberamente su qualsiasi cosa! (sul sistema economico, per esempio). Attualmente, in tutto l’Occidente, la poliarchia viene garantita dalla partitocrazia mediatica, ovvero dal privilegio mediatico di determinate forze politiche (di solito riunite in due grandi “poli”, centrodestra e centrosinistra, “non uguali ma simili”, come ebbe a dire una volta, in un raro sprazzo di sincerità, Fausto Bertinotti), che egemonizzano il dibattito pubblico e dettano l’agenda delle priorità politiche (vedere il fenomeno dell’agenda setting). In Italia disponiamo addirittura di una prova documentale di questo progetto: il Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 che, semplicemente in conformità con i dettami atlantici, auspicava la formazione di due forze centripete tese ad escludere le “frange estreme”. Quali sono le caratteristiche della poliarchia mediatica bipolare? Queste le principali: spettacolarizzazione della politica, leaderismo plebiscitario, costruzione competitiva del consenso (cioè i competitori elettorali – i partiti – pubblicizzano i propri prodotti simbolici – programmi “politici” – che verranno poi “liberamente” scelti dai consumatori – elettori -), comunicazione emotiva nell’arena politica (che si sostituisce all’argomentazione razionale). Curiosamente, la stragrande maggioranza dell’intellighenzia di sinistra, amplificata da una consistente propaganda, ritiene soprattutto imputabili a Berlusconi tutti questi fattori. In realtà, a Berlusconi non siamo ancora arrivati. Il berlusconismo, per quanto ci stiamo avvicinando sempre di più, non lo abbiamo ancora definito. Il sistema sopra descritto vige attualmente in tutto il mondo occidentale e occidentalizzato, con o senza Silvio Berlusconi.

Arriviamo adesso al caso dell’Italia. Agli albori della Seconda Repubblica, un insistente bombardamento mediatico ha convinto gli italiani che essi avevano bisogno di un sistema elettorale che comportasse il bipolarismo. Un referendum popolare ha ufficialmente legittimato questa tesi. Pian piano, nel corso di questi anni, il bipolarismo è diventato una specie di istituzione ufficiosa, una realtà da cui ormai non si può più prescindere (non lo consentono i sistemi elettorali). L’ago della bilancia di questo meccanismo è l’uomo nuovo della politica italiana: l’imprenditore Silvio Berlusconi. Ecco che comincia a delinearsi una prima definizione di “berlusconismo”: il berlusconismo è la “via italiana” alla poliarchia mediatica bipolare. In che senso?

E’ molto semplice. Il centrosinistra ha sbandierato e continua a sbandierare programmaticamente, tramite i suoi canali mediatici privilegiati, il “pericolo Berlusconi” e la retorica del “voto utile”; in questo modo attrae da ben 17 anni verso un polo antiberlusconiano l’elettorato socialdemocratico e perfino parte dell’elettorato anticapitalista, potendo anche permettersi di operare una graduale svolta centrista e padronale in cui intrappolare tale elettorato, ormai costantemente “deluso” dai suoi dirigenti, ma rassegnato pur di non veder concretizzarsi il fantomatico “pericolo Berlusconi”. In questo modo, semplice ma geniale, la sinistra è stata finalmente esclusa dal Parlamento. Dobbiamo postulare necessariamente un disegno consapevole orientato a tale obiettivo, un disegno che coinvolge in ugual modo il centrodestra e il centrosinistra. Crediamo davvero che gli esponenti di punta del centrosinistra siano stati “ingenui” (nelle alleanze elettorali, nelle pallide competizioni propagandistiche, nella mancata legge sul conflitto di interessi ecc..) e non abbiano invece volutamente favorito in numerosi casi l’alternanza di governo con il centrodestra, in modo da perpetuare il più a lungo possibile il “pericolo Berlusconi”?

E poi che cos’è questo “pericolo Berlusconi”? Essenzialmente, è una sorta di eventualità senza nome, indefinibile, che riguarda presumibilmente l’equilibrio delle istituzioni democratiche, la salvaguardia della costituzione e il bilanciamento dei poteri dello Stato, tutte cose che Berlusconi metterebbe seriamente a rischio. Come è stato possibile inculcare in gran parte della popolazione un simile allarmismo, peraltro privo di fondamenti? Ciò avviene ininterrottamente da 17 anni, in due atti: vi è una fonte primaria consapevole (l’agenda dei media dominanti) e una moltiplicazione secondaria inconsapevole (media secondari – stampa, radio, web.. – blogger, comici, opinionisti, intellettuali di grido ecc..). La mobilitazione degli ultimi tempi, coadiuvata da presenze illustri (Umberto Eco, Paolo Flores d’Arcais e affini) fa davvero pensare. Nessuno sembra accorgersi del fatto che il “pericolo Berlusconi” è rimasto allo stato di “pericolo” per 17 anni. Mussolini era un pericolo nel 1922, ma 17 anni dopo stava già per completare la sua parabola. Invece Berlusconi no. Egli si trova nello stato di pericolo permanente. Ha più di 70 anni, tra poco muore, ma è sempre un pericolo per le istituzioni repubblicane. Il pericolo, ovviamente, non si concretizza mai. Ma è sempre dietro l’angolo, a livello di possibilità e prospettiva. E’ un po’ come il terrorismo islamico: non lo vedi perchè è dappertutto. Non lo vedi ma c’è, fidati che c’è, e da un momento all’altro può farsi sentire.

Occorre a questo punto tranquillizzare il lettore più sprovveduto. Le svolte autoritarie, i fascismi vecchia maniera, non sono possibili nell’attuale congiuntura internazionale, almeno in Occidente. I fascismi sono stati storicamente utili alle élites transnazionali solo quando si sono presentate minacce comuniste organizzate, minacce che oggi non si vedono, nemmeno all’orizzonte. L’Occidente ha bisogno della poliarchia (“la democrazia”, scrive Canfora, “è rimandata ad altre epoche”…), ovvero di una democratica competizione tra élites imprenditoriali, che si contendono l’egemonia del “mercato elettorale”. I dittatori sono pericolosi, possono essere scheggie impazzite, ad esempio possono operare svolte protezionistiche non autorizzate, danneggiando i mercati comuni, o possono nazionalizzare importanti risorse, eccetera eccetera. E’ in questo senso che vanno lette l’esportazione occidentale della “democrazia” (cioè della poliarchia) e le varie “rivoluzioni colorate” aizzate dagli Stati Uniti contro dittatori poco “collaborativi” (di cui l’italiano “popolo viola” non è che un’inconsapevole, grottesca appendice).

Questo inquietante, sotteso progetto allarmistico possiamo riassumerlo in un sol modo: il berlusconismo (in cui è compreso l’antiberlusconismo) è una “nuova strategia della tensione” finalizzata a marginalizzare la sinistra italiana. La si marginalizza inglobandone la forza elettorale nel moderatismo, in (ir)realtà politiche fluttuanti e amorfe, fortemente colluse con ambienti confindustriali, bancari e filoamericani, e tutto ciò sempre in nome dell’antiberlusconismo. Per fare solo un piccolo esempio, basti ricordare un sondaggio del 2009 del Ministero degli Interni: il 50% della popolazione italiana è contraria alle missioni militari in Afghanistan e in Iraq. Dunque, dov’è rappresentato questo 50% in Parlamento? Non parliamo di un 5%, che può anche succedere non venga rappresentato (dipende dal sistema elettorale). Parliamo del 50%! Ebbene, in Parlamento il voto per i finanziamenti alla guerra è unanime. Quel 50% di italiani è magicamente scomparso, nonostante essi abbiano eletto circa il 50% del Parlamento (il centrosinistra che qui incriminiamo, appunto). La poliarchia è infatti questo: ci sono questioni, dicono lorsignori (ratifica del Trattato di Lisbona, introduzione del precariato, guerre ecc…), che dobbiamo decidere tra di noi, e su cui nemmeno il 50% di voi ha diritto di parola. Voi potete esprimere le vostre preferenze su faccende più superficiali, non certo su questioni “sistemiche”. E per garantire questo Silvio Berlusconi è stato fondamentale, come “ago della bilancia”, perno centrale su cui ha ruotato tutto il meccanismo, “specchietto per le allodole”.

Ora che il quadro generale è completo, non resta che spiegare in che senso il berlusconismo (“la via italiana alla poliarchia”, “la nuova strategia della tensione”) è una forma di fascismo. Esso è una forma tutta nuova di fascismo, che definirei fascismo bipolare (da leggersi sempre all’interno dell’omologazione consumistica e della poliarchia mediatica bipolare). Ovvero: il polo berlusconiano ha davvero tentato di riproporre forme di ducismo all’antica, e Berlusconi stesso, tramite la costruzione del consenso, ha probabilmente davvero coltivato velleità autoritarie; i suoi seguaci lo hanno subito ipostatizzato come “colui che risolve i problemi”, il salvatore della patria. Viceversa, il polo antiberlusconiano ha costruito il proprio potere dipingendo Berlusconi come “pericolo pubblico n.1”. Si è assistito cioè, da parte antiberlusconiana, ad una vera e propria costruzione del dissenso, un fascismo al contrario, una sorta di culto negativo del capo. Riassumendo: un’intera classe dirigente ha giustificato per un ventennio il proprio potere e i propri privilegi intorno alla figura di Silvio Berlusconi, chi idolatrandolo, chi demonizzandolo. Questo è un fenomeno, che io sappia, senza precedenti, e la storia lo ricorderà come “berlusconismo”, variante comica del fascismo. Sembra riecheggiare quella vecchia battuta del buon Karl Marx: “i grandi avvenimenti si ripetono due volte nella storia, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”. Prima il ventennio fascista, poi il ventennio berlusconista, l’alternanza di governi berlusconiani e antiberlusconiani, entrambi berlusconisti.

Ora, quale dei due poli, dei due fascismi, è il più pericoloso? Il 30% “che ama”, i seguaci di Silvio Berlusconi, o il 70% di “persone per bene” (come le ha chiamate Bersani), che ci tengono a precisare che sono antropologicamente diverse e moralmente superiori rispetto a Silvio Berlusconi?

L’istinto mi suggerisce di diffidare soprattutto del conformismo più diffuso…

lunedì 14 febbraio 2011

L’ ANOMALIA NELL’ ANOMALIA ITALIANA


 
DI EUGENIO ORSO

Si discute da molto tempo sulla cosiddetta anomalia italiana, si dice che l’Italia è un paese “anomalo” prendendo come termine di paragone i paesi dell’Europa occidentale, oppure tutti i paesi che si definisco capitalisticamente sviluppati.

Questa anomalia investirebbe ogni aspetto, dalla vita politica all’economia, dall’etica alla socialità, dall’atteggiamento dei singoli verso la collettività ai rapporti di lavoro, e costituirebbe più un motivo di imbarazzo che di vanto, com’è ovvio.

Di recente, la rivista online Overleft ha pubblicato un lungo editoriale dedicato proprio a questo fenomeno, dal titolo “Esiste l’anomalia italiana?”



Si tratta dell’ennesimo dibattito sul tema, in cui il direttore della rivista, Franco Romanò, apre la discussione ricordandoci che non si tratta di questione recente ed inedita, ma che il problema dell’anomalia italiana è cosa vecchia, ed è stata posto fin dai tempi di Gobetti e di Gramsci, agli inizi del Novecento, per citare soltanto due fra le molte personalità che se ne sono occupate, in anni diversi e da diverse angolazioni. L’ennesimo dibattito sulla spinosa e storica questione, del quale non ci si può occupare dettagliatamente in questa sede, non è che l’ultimo della serie, ma può offrire lo spunto per discutere di alcuni recenti [ed inquietanti] aspetti che ha assunto l’”anomalia italiana”, partendo dall’individuazione di un’”anomalia nell’anomalia” che oggi è pienamente osservabile e che si lega alla situazione politica nazionale.

Prescindendo dalla vergogna di essere italiani, moderatamente diffusa nel paese, e dalla relativa indifferenza nei confronti dei simboli nazionali ad esclusione dalla nazionale di calcio, l'Italia è il paese dell'Europa occidentale nella posizione di massima sudditanza nei confronti della UE, della BCE, del FMI e della classe globale, nonché quello più degradato, che mostra agli altri paesi europei occidentali l'immagine desolante del loro futuro.

Se la Fiom oggi si muove in scandalosa solitudine nella difesa di diritti elementari, minimi, già di per sé insufficienti e pur tuttavia messi in discussione giorno dopo giorno – come si afferma giustamente nel dibattito pubblicato in rete da Overleft –, ciò dipende dallo stato in cui è ridotta la popolazione italiana, dopo un trentennio di corruzione diffusa, di scandali, di svendite ai globalisti delle grandi attività produttive nazionali, di flessibilizzazione/ precarizzazione del lavoro [e di tutta l’esperienza esistenziale dei singoli] e di azione socialmente e culturalmente idiotizzante, da parte di quella "industria della menzogna televisiva" che non è esclusivamente berlusconiana.

Per quanto riguarda la domanda sull’esistenza della presunta anomalia italiana, che costituisce il titolo del documento pubblicato dalla rivista online di Romanò, se con questa espressione – Anomalia Italiana – non si intende suscitare un articolato dibattito storico che parte dall’risorgimento o dall’Unità d’Italia, oppure dagli inizi dello scorso secolo, ma si intende la particolare condizione di diminuzione della sovranità nazionale e di sudditanza verso l’esterno che stiamo vivendo oggi, combinata con il degrado umano e culturale del paese, la risposta non può essere che positiva.

Gli elementi principali della cosiddetta anomalia italiana sono quindi due, e presentano grossomodo lo stesso peso specifico, considerando però che il primo ha favorito la diffusione del secondo e lo stesso degrado della politica nazionale:


1) La perdita di sovranità politica e monetaria dello stato italiano e la conseguente mancanza di autonomia dei governi, soggetti alla dittatura UE/ BCE/ FMI, e quindi ai voleri dei dominanti globalisti occidentali, e la conseguente imposizione dei vincoli derivanti dall’adozione dell’euro, che non ha incontrato grandi resistenze. In Italia l’asservimento ai “poteri esterni” e l’accettazione conseguente di una sovranità limitata, soggetta a questi poteri ed alle dinamiche del Libero Mercato Globale, rappresentano da tempo altrettante evidenze, con un atteggiamento di sudditanza verso l’esterno che investe tutto lo spettro politico sistemico nazionale – da Berlusconi a Bersani e D’Alema – rivelandoci una sostanziale unità, in termini di politiche e di obbiettivi, dell’unico Partito della Riproduzione Capitalistica. In altri termini, ci si può scannare sulla legittimità del “bunga-bunga”o sull’opportunità delle orge in Arcore, con tanto di prostitute e ruffiani, ma non sull’intangibile Società di Mercato che non conosce confini – e non riconosce le autonomie statuali – e sul diritto degli Investitori e dei loro rappresentanti [vedi ad esempio Marchionne] di imporre condizioni capestro per continuare le produzioni in loco.

2) La flessibilizzazione e l’idiotizzazione di ampie fasce della popolazione della penisola, frutto di un processo iniziato da circa un trentennio e non ancora concluso, che ha visto l’estensione nella società del lavoro flessibile e precario ed il recente attacco al lavoro dipendente “regolare”, la diffusione incontrollata ma voluta di spazzatura mediatica, l’imposizione di “stili di vita” assurdi e debilitanti, la disinformazione sistematica, l’applicazione dei media della tecnica di distrazione di Noam Chomsky per nascondere i gravi problemi politici e sociali, e via elencando.


Quanto precede spiegherebbe bene, fra l’altro, il degrado della vita politica a tutti i livelli e la crescente acquiescenza di un’opinione pubblica che sembra anestetizzata ed insensibile davanti a questo fenomeno in continua espansione.

Una prova dell’”anomalia italiana” ci è offerta dal fatto che il consenso a Berlusconi, e alla Lega che lo puntella a qualsiasi costo etico e sociale, non diminuisce significativamente, nonostante tutto quello che è accaduto e che sta ancora accadendo in questi giorni.

Sembra che non ci siano chiare spiegazioni per il fatto che nessuno, in questo paese, reagisce con la dovuta forza davanti ad un’azione di governo che supporta la distruzione dei posti di lavoro e dei diritti dei lavoratori, davanti alle evidenti collusioni fra politica sistemica ed economia informalmente e formalmente [ossia penalmente] criminale, dinanzi all’evidenza di un individuo, che purtroppo ricopre la carica di presidente del consiglio, il quale si trastulla nelle continue orge “private”, circondato dal malaffare dei ruffiani [in qualche caso, ruffiani-giornalisti], impone le sue prostitute nei consigli regionali o le premia con incarichi ministeriali, scaricandone il mantenimento sulla spesa pubblica, non rispetta le più elementari regole etiche di condotta ed utilizza a scopi personali i poteri del governo, da lui presieduto, per emanare leggi ad personam.

Se non esistesse quella Procura di Milano che oggi lo indaga per concussione e prostituzione minorile, e Ilda Bocassini vivesse all’estero, ad esempio in Australia, a migliaia di chilometri da qui, ciò che fatto Berlusconi per il suo sollazzo e il suo potere personale [in ciò, puntellato caparbiamente dalla Lega], e ciò che non ha fatto per un paese che sprofonda, non scomparirebbero di certo, ma resterebbero come prove evidenti della sostanza del suo miserabile “regime”.

Per quanto molti giornalisti ed intellettuali di sistema non riescono a spiegare questa “anomalia nell’anomalia”, o non vogliono farlo, è chiaro che non si tratta di un fenomeno intelleggibile, ma bensì di un fenomeno assolutamente spiegabile, pur con le dovute cautele e almeno per quanto riguarda lo scrivente.

Nel tentativo di spiegare questa ”anomalia nell’anomalia”, si può utilizzare una metafora astronomica per farsi meglio comprendere.

Nel sistema solare esterno i pianeti non sono rocciosi come la terra, ma veri e propri giganti gassosi, secondo un'espressione diffusa che nasce dalla letteratura di anticipazione scientifica e non dalla scienza vera e propria.

Come tali, sono costituiti da un nucleo, che è essenziale per la loro formazione e quindi per la loro stessa esistenza, e da strati formati da gas, o da gas compressi allo stato liquido, che costituiscono la maggior parte della loro massa.

La materia di cui sono fatti questi pianeti diventa più densa procedendo verso la parte interna, ma essendo i cosiddetti giganti gassosi ricchi di elementi leggeri, come l’idrogeno e l’elio, sono le basse temperature e la minore intensità del vento solare a trattenere questi elementi, impedendogli di disperdersi nello spazio.

Così, il cosiddetto zoccolo duro del consenso berlusconiano ed anche di quello leghista – corrispondente al nucleo roccioso dei giganti gassosi intorno al quale gli stessi si sono formati – è costituito dalla vasta area dell’evasione fiscale e contributiva, e perciò tale consenso si sostanzia, fin dalle origini, nello scambio fondato sull’illegalità “evasione ampiamente tollerata [e dunque protetta] in cambio del voto”, con il voto degli evasori del nord conteso fra il cartello berlusconiano [prima FI, dopo PDL e domani chissà] e la Lega bossiana.

E’ ovvio che la grande massa di voti ricevuti da Berlusconi e dalla Lega non è esaurita dai voti degli evasori, appartenenti a ben noti gruppi sociali relativamente numerosi ma pur sempre minoritari nella società italiana.

Quella che ipocritamente è definita la “piccola” evasione fiscale rappresenta un cancro, anche se non l’unico, per l’Italia, poiché mettendo insieme le “piccole” cifre, sommandole a quelle espresse dalla grande evasione, si ottengono almeno 150 miliardi di euro l’anno, se non 200 miliardi ed oltre, con un trend storico che mostra la continua crescita degli ultimi anni, pur nella persistenza di un PIL stagnante e del declino produttivo.

Ebbene, sono proprio gli appartenenti a questi gruppi – commercio, piccola e media industria, un certo artigianato e parte dei professionisti – che insieme ai patrimonializzati, ai piccoli redditieri ed ereditieri, agli speculatori di piccolo e medio calibro costituiscono la base elettorale più fedele e più consapevole per Berlusconi e per la Lega , in quanto sono mossi esclusivamente dalla volontà di difendere a qualsiasi costo le proprie fortune personali e i propri privilegi, a scapito della maggioranza della società italiana che è soggetta ad una fiscalità spietata.

Come precisato, questi gruppi sociali possono offrire un consenso stabile al berlusconismo e al leghismo in diretta relazione con la necessità di difendere i loro interessi particolari, in conflitto con quelli della restante parte del paese – che deve subire un’elevata fiscalità senza alcun beneficio anche a causa dell’evasione fiscale concessa a queste minoranze – e senza che in ciò vi sia in loro alcuna traccia di idealità, nonostante i roboanti proclami propagandistici di Berlusconi, che ancor oggi osa ergesi ridicolmente a difensore “delle libertà” contro il comunismo, oppure la presunta difesa dei diritti dei “popoli del nord” contro i soprusi dello stato centralista millantata da Bossi.

Per giustificare l’ingiustificabile, se facciamo un rapido tour in rete sapendo in partenza, però, dove andare a parare, in certi siti [mascherati da studi politico-strategici] possiamo leggere autentiche bestialità, in difesa di questo avvilente stato di cose.

Ci sono soggetti in evidente malafade che spacciano i predetti gruppi per le autentiche e salvifiche “forze produttive nazionali” – ben sapendo, ad esempio, che la PMI è soltanto il risultato della frammentazione del tessuto produttivo in una miriade di piccole unità, deboli e non di rado inefficienti, alimentata dalla scomparsa della grande industria e dell’intervento pubblico – ed osano tacciare apertamente la maggioranza della popolazione italiana, costretta a sopportare buona parte del peso economico, sociale e fiscale del declino in atto, di parassitismo, poiché legata per i tre quarti alla “spesa pubblica” e non piegata alle logiche del Mercato!

Tralasciando questa penosa e miserabile pubblicistica in rete, che fa eco a Libero, al Giornale e alla Padania ed è volta a nascondere la vera sostanza del consenso berlusconiano-leghista, ciò che conta è rilevare che da sole, le minoranze di evasori, di patrimonializzati, di redditieri e di piccoli speculatori [supposti “ceti produttivi”, in particolare del nord della penisola], non possono offrire a Berlusconi e alla Lega che la parte più stabile del voto, insufficiente, però, a garantire un ampio e decisivo successo elettorale, simile a quello del 2008.

Il resto del consenso è espresso da ben altri gruppi, che è bene cercare di individuare per sommi capi ma con una certa precisione.

Come nel caso dei pianeti gassosi, che devono una parte rilevante della massa ad elementi leggeri, così Berlusconi e i leghisti devono una parte significativa dei voti che incamerano a gruppi “esterni” al loro nucleo, o “zoccolo duro”, elettorale, orientato da ben precisi interessi economici.

Per quanto riguarda Berlusconi, il voto degli idiotizzati, dei soggetti culturalmente deboli e degli incolti riveste fin dagli esordi una grande importanza, a tal punto che si può affermare che il successo di Silvio Berlusconi, quale ologramma mediatico dietro il quale si nascondono precisi interessi, è in parte significativa basato sull’ignoranza, sulla manipolazione e sull’arretramento culturale.

Per questi individui, il consenso espresso si fonda su convinzioni fallaci, indotte attraverso la manipolazione ed approfittando della loro situazione di debolezza culturale, e quindi non si sostanzia in precisi interessi economici, che anzi, dovrebbe indurli a negare il voto a Berlusconi [ed ovviamente anche alla Lega].

Non a caso l’industria mediatica berlusconiana ha contribuito a produrre queste “soggettività deboli” e manipolate, essenziali per integrare con il loro consenso quello degli evasori, degli speculatori e dei furbi.

La produzione di quelle che in questa sede sono state definite soggettività deboli – con un progressivo impoverimento culturale ed economico per il paese, nella contemporanea crescita degli squilibri sociali – è in corso da circa tre decenni, e quindi da prima dell’affermazione come forza politica parlamentare della Lega bossiana e della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.

Anche la Lega Nord ha beneficiato del voto ignorante ed idiota [definiamolo pure così], e si è spinta fino ad inventare una patria nordista, la “Padania”, diffondendo artatamente una forma grottesca di pseudo-nazionalismo nel settentrione.

Il panorama culturale e sociale che si è presentato ai tempi del passaggio dalla cosiddetta prima repubblica alla seconda, era gia profondamente diverso da quello che ha caratterizzato gli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento, ed i “bacini elettorali” del consenso ai quali hanno potuto attingere, fin dal loro esordio, Berlusconi e Bossi socialmente e qualitativamente non erano più esattamente quelli dei vecchi partiti di massa, dalla DC al PCI e dal PCI al MSI.

Altre componenti elettorali, divise a nord fra berlusconiani e leghisti, sono rappresentate dalle partite IVA più marginali, maggiormente esposte alla crisi e all’impoverimento, quelle che ipocritamente si definiscono parasubordinate, cioè le partite IVA e le posizioni di coloro che non sono dei veri “professionisti”, dotati di una sostanziale autonomia nel definire i ritmi di lavoro ed i compensi – anche se in molti casi sono loro stessi a credere di esserlo, illudendosi di occupare ruoli sociali che nei fatti non occupano – ma semplici lavoratori dipendenti non stabilizzati e quindi svantaggiati, i quali dipendono da pochi committenti che gli impongono le condizioni e decidono, perciò, del loro futuro.

Per quanto riguarda il successo ottenuto della Lega, ha pesato molto in questi ultimi venti anni un generico voto di protesta antipolitico, non troppo “maturo” e consapevole né ben definito socialmente, che non di rado l’ha beneficiata nel settentrione del paese, riassorbendo un po’ di astensionismo elettorale.

Del voto antipolitico ha beneficiato ampiamente lo stesso Berlusconi, e questo è accaduto subito dopo il disastro di Mani pulite e la distruzione dei vecchi partiti.

Berlusconi è stato, fra l’altro, molto abile nel giocare la carta propagandistica dell’anticomunismo in assenza di comunismo – paventando un pericolo rosso sempre in agguato ma ormai non più reale –, soprattutto all’inizio della sua parabola, quando erano ancora “caldi” i cadaveri dell’Unione Sovietica e del vecchio PCI.

La conclamata “fine della lotta di classe”, in seguito alla vittoria del modello di capitalismo liberaldemocratico-mercatista, ha liberato forze che in altre età capitalistiche hanno assunto connotati critici o apertamente antagonisti nei confronti del sistema.

Se per Berlusconi hanno votato i disoccupati siciliani, nell’illusione diffusa dal piazzista di Arcore della risoluzione integrale dei problemi del paese, compreso lo storico divario nord-sud che tuttora permane con la tendenza ad approfondirsi, e nell’inganno del milione di posti di lavoro creati letteralmente dal nulla [un po’ come fanno le banche con la moneta “contabile” …], nel settentrione gli operai hanno votato per la Lega bossiana in quanto orfani di rappresentanza politica e abbandonati da una sinistra debole, prona davanti al liberismo e disponibile alla sudditanza nei confronti dei grandi interessi globalistico-finanziari esterni al paese.

Infine, sia Berlusconi sia la Lega – e qui non si può non dare ragione ad una certa sinistra individualistica, liberista e parlamentare – hanno giocato molto sulla Paura, sotto vari aspetti, a partire da una generica paura del futuro suscitata dalla fine delle aspettative crescenti capitalistiche e dal declino economico italiano, fino ad arrivare alla “paura dell’altro”, dell’allos, dello straniero e del diverso, e la Paura ha avuto un peso maggiore, nei successi elettorali berlusconiano-leghisti, di un generico richiamo alla “Libertà”, per quanto riguarda il berlusconismo, e della conclamata [ma pelosa] “difesa dei diritti dei popoli del nord”, per quanto attiene a Bossi e alla Lega.

Appare chiaro che vi sono molti elementi comuni – tutti negativi – fra il berlusconismo ed il leghismo, i quali si possono riassumere come segue: illegalità derivante da un consenso “primario” fondato sull’evasione fiscale, idiotizzazione della popolazione e degrado culturale come veicoli per il successo elettorale, misconoscimento dello stato comatoso dell’economia nazionale e nascondimento della questione sociale, adesione nei fatti alla visione liberista e smantellamento dello stato sociale, pulsioni eversive nei confronti dell’assetto istituzionale della repubblica italiana e della costituzione, diffusione della Paura nel corpo elettorale per consolidare il proprio potere, e si potrebbe proseguire nell’elencazione, ma è bene fermarsi qui per ragioni di spazio.

Se nel caso metaforico dei giganti gassosi del sistema solare esterno gli elementi leggeri che li costituiscono sono trattenuti dalle basse temperature e dalla minore intensità del vento solare, ciò che contribuisce a trattenere il consenso di questi gruppi esterni allo “zoccolo duro” elettorale berlusconiano e leghista [corrispondente al nucleo dei giganti gassosi], non è esclusivamente quel ”idiotismo socialmente organizzato” che ostacola cambiamenti di rilievo, ma è l’assenza di vere alternative politiche, che si accompagna al timore diffuso che comunque, dopo Berlusconi, la situazione economica del paese non potrà che peggiorare.

Oltre all’equazione perversa, fondata sull’illegalità, che possiamo esprimere come “consenso elettorale = licenza di evadere il fisco”, e all’idiotizzazione di parte significativa della popolazione, che di questi tempi da sole potrebbero non bastare, l’esecutivo Berlusconi-Lega si regge grazie alla compresenza nella società italiana di quattro elementi principali: 1) l’assenza di vere alternative politiche all’interno del sistema percepita dal corpo elettorale, 2) l’impossibilità di riacquisire la necessaria sovranità politica e monetaria per cercare di arrestare il declino, 3) il crescente terrore che l’azione speculativa dei Mercati ed Investitori si rivolga con decisione contro l’Italia, 4) la soggezione apparentemente senza scampo alle imposizioni di Unione Europea, FMI e BCE.

Il risultato pratico di questa situazione è che il degrado culturale, economico e sociale del paese continua, favorito dalla relativa “inamovibilità” di Berlusconi che contribuisce, assieme ad una Lega sempre più influente e con il concorso di un’opposizione parlamentare inaffidabile e inefficace, ad alimentarlo, allontanando nel tempo, sine die, ogni prospettiva di cambiamento.

In ciò risiede, essenzialmente, l’ulteriore anomalia nell’”anomalia italiana”.

domenica 13 febbraio 2011

Su Howard Zinn, storico radical del popolo americano
 
 
di Bruno Cartosio

… Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale.

Un piccolo gioco di specchi: il 6 novembre 2008 Howard Zinn risponde su “The Nation” all’articolo con cui Edward Rothstein ha commemorato Studs Terkel sul “New York Times” di tre giorni prima. Terkel, giornalista radiofonico e storico era morto il 31 ottobre. Rothstein ha scritto che Terkel “sembrava un liberal incoerente…ma se lo guardi più da vicino non riesci a individuare il punto in cui il suo liberalismo scivola nel radicalismo”. Dello storico Studs Terkel – contro l’ideologia mistificante dell’obiettività come “assenza di ideologia” – Zinn difende il fatto che la sua “visione politica” sia presente nelle storie orali da lui raccolte e assemblate; ne difende le posizioni, che definisce “così ragionevoli da fare onore al ‘radicalismo’”.

Zinn contesta varie altre affermazioni e giudizi di Rothstein, ma per quanto riguarda la definizione della fisionomia ideologico-politico-umana di Terkel fa ricorso alle parole di un altro intellettuale, Norman Mailer. Infatti, Zinn cita una lettera che Mailer scrisse a “Playboy” nel 1962, dopo che la rivista lo aveva contrapposto come liberal al conservative William Buckley: “Non mi interessa se mi chiamano radical, ribelle, rosso, rivoluzionario, outsider, fuorilegge, bolscevico, anarchico, nichilista o perfino conservatore di sinistra, ma per piacere non mi si chiami liberal”. Probabilmente, scrive Zinn, Terkel avrebbe dato una simile definizione di se stesso.Howard Zinn

Il gioco degli specchi sta nel cercare di mostrare Zinn facendo ricorso a quello che lo stesso Zinn valorizza in altre figure che gli sono vicine o avvicinabili. Studs Terkel è stato uno di queste figure, forse l’unico per cui si possano dire cose che molti altri hanno detto di Zinn: apertamente radical, mentalmente aperto; collocato sempre, inequivocabilmente da una parte; storico curioso che ha sempre scritto avendo in mente l’educazione (non l’indottrinamento) di quelli per cui scriveva; scrittore prolifico e mai mestierante opportunista; amato da due-tre generazioni diverse di giovani, che hanno continuato ad amarlo e leggerlo come un amico-maestro nei loro percorsi verso la maturità. Infine, persona di cui si ricordano con affetto tutti quelli che la hanno incontrata.

Un ultimo sguardo riflesso, questa volta sul solo Zinn da parte di Bob Herbert, un giornalista che sul “New York Times” ha la funzione istituzionale di osservare e commentare le ingiustizie, incoerenze e spiacevolezze del mondo locale e nazionale. Non ricordo più chi ha sottolineato il fatto paradossale che alla morte di Howard Zinn, all’età di 87 anni, il “Times” non aveva pronto il necrologio, quel pezzo che da noi viene chiamano “coccodrillo” e che viene preparato e di volta in volta aggiornato per averlo pronto in caso di morte improvvisa della persona. Sorpreso che il suo giornale avesse dovuto ricorrere alla scarna notizia fornita, mi pare, dall’Associated Press il 29 gennaio 2010, Herbert pubblicò un suo pezzo il giorno dopo. Il suo era anche un ricordo personale, caloroso e percettivo. “Mi sono sempre domandato perché Howard Zinn venisse considerato un radical. (Lui stesso di definiva radical.)”, scriveva Herbert. “Era una persona straordinariamente onesta che si sentiva obbligata a combattere l’ingiustizia e la prevaricazione dovunque le incontrasse. Che cosa c’era di così radical nell’essere convinti che i lavoratori debbano essere trattati giustamente sul lavoro?, che le corporations hanno un potere eccessivo sulle nostre vite e troppa influenza sul governo?, che le guerre sono così criminalmente distruttive da rendere necessario trovare alternative alla guerra?, che i neri e le altre minoranze razziali ed etniche devono avere gli stessi diritti dei bianchi?, che gli interessi dei leader politici e dei vertici imprenditoriali non sono gli stessi della gente comune che lotta una settimana dopo l’altra per riuscire a sbarcare il lunario?”

La prosa è giornalistica – e il “New York Times” è un giornale liberal, naturalmente – e le domande, retoriche, servono a dire le cose come stanno, ma anche a smussare gli spigoli. Tuttavia, Herbert coglie un aspetto reale della personalità di Zinn: direi, quella naturalità del suo essere radical che lo stesso Zinn aveva sottolineato in Studs Terkel quando aveva scritto che le sue posizioni erano “così ragionevoli da fare onore” all’essere radical.



Melancholy atomic, Salvador Dalì, 1945, Olio su tela, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, MadridIn un certo senso si potrebbe dire: si è radicali perché o quando si è ragionevoli, e viceversa, e non è necessario ricorrere a una morale religiosa per ritenere inaccettabile l’ingiustizia. A volte però non la si vede; è in questi casi che occorrono l’etica e la ragione. Un esempio: nell’aprile 1945, Zinn, dagli otto o novemila metri del suo B-17, ha bombardato con le bombe e con il napalm la cittadina francese di Royan, sulla Gironda, contribuendo a fare centinaia di vittime civili. Ha visto le esplosioni, non i morti. Poi, su quei morti non visti – e sulle storie di Hiroshima – ha ragionato. Ha anche fatto ricerca storica su quel bombardamento, accertando che era stato un’azione ingiusta, inutile e criminale, compiuta solo per permettere a qualche generale francese di poter dire di avere contribuito alla vittoria. E siccome era un episodio dentro la guerra – che Terkel aveva definito ”The good war”, con le virgolette, come gli rimproverò Rothstein – Zinn ha ragionato su guerra giusta e guerra ingiusta, e infine sulla guerra americana in Vietnam, prendendo posizione da pacifista e manganellate dai poliziotti quando manifesta in piazza.

Un altro esempio. Nel 1956, gli capitò – capitò a lui e sua moglie, che l’ha sempre pensata come lui – l’occasione di andare a insegnare allo Spelman College, il college femminile nero di Atlanta, in Georgia, che John D. Rockefeller aveva finanziato all’inizio del Novecento e che aveva cambiato nome in onore della moglie del magnate del petrolio. Zinn, come tutti, sapeva che cos’era il Sud, ma non lo conosceva. Ad Atlanta lo vide di persona. La sua risposta fu ovvia: si schierò contro la segregazione razziale che era norma e legge e fece quello che poteva per infrangere quella regola. Ci sono racconti, come quello che ha scritto Alice Walker, che parlano della “sorpresa” delle ragazze dello Spelman di trovarsi a fare – con la naturalezza che Zinn e l’altro radical Staughton Lynd davano alla cosa – atti di protesta che il perbenismo della borghesia nera locale riteneva più che sconvenienti, impensabili. Per Zinn e per l’altro radical Staughton Lynd, anche lui presente ad Atlanta, “abbandonare la lezione per andare ai picchetti” (come scrive Zinn in un articolo del tempo) era naturale e ragionevole. Fino ai primi anni Sessanta, Zinn partecipò in prima persona al movimento contro la segregazione razziale e per i diritti civili nel Sud e la più combattiva delle organizzazioni nere del momento, lo Student Nonviolent Coordinating Committee, lo scelse come “consigliere anziano”, insieme con quell’altra grande figura del movimento nero che fu Ella Baker. Zinn diede anche un’interpretazioni del movimento nero di quegli anni che pochi allora avrebbero condiviso, definendoli i “nuovi abolizionisti”.

Ma c’è anche un altro aspetto, inseparabile da quello appena ricordato. Zinn è sempre stato un insegnante. “Ricordo di essere entrato in aula per la mia prima lezione”, racconta lui stesso, “e di avere visto sulla lavagna le scritte del docente che mi aveva preceduto. Era l’albero genealogico degli Stuart e dei Tudor. Queste giovani donne nere erano tenute a studiare i monarchi d’Inghilterra e le differenze tra Carlo I e Carlo II, ma [non studiavano] nulla della storia dei neri”. Avevano un corso obbligatorio sulla storia dell’Inghilterra, ma neppure una lezione sulla storia afroamericana. Il fatto – ovvio, naturale – di insegnare alla ragazze afroamericane la loro storia fu un atto di rottura che avrebbe avuto conseguenze qualche anno più tardi, insieme con la inaccettabilità della sua partecipazione pubblica al movimento contro la segregazione razziale. Zinn fu licenziato per insubordinazione nel 1963.

Ma che cosa fosse necessario insegnare e a chi si dovesse insegnare la storia rimase il filo che avrebbe tenuto legati insieme tutti gli anni successivi della sua vita. Ed esattamente come nella protesta contro la segregazione o contro la guerra o contro la discriminazione sessuale o nei conflitti di lavoro non si può stare da due parti allo stesso tempo, Zinn ha preso partito anche nella sua scrittura e interpretazione della storia. La sua Storia del popolo americano, pubblicata nel 1980, è il racconto di un lungo percorso che in tanti hanno fatto a piedi, mentre pochi altri lo facevano in carrozza. E’ una “contro-narrazione”, secondo la definizione che Henry Louis Gates ha dato del concetto, applicandolo però soltanto agli afroamericani: “Le persone capiscono se stesse e il mondo attraverso narrazioni – racconti trasmessi da insegnanti, giornalisti, ‘autorità’ e altri produttori di senso comune. E usano contro-narrazioni per contestare quella realtà dominante e i presupposti su cui si regge. In un certo senso, tutta la storia afroamericana è una contro-narrazione, documentata e legittimata da lenta e faticosa ricerca”.

Se si scrive storia da quel punto di vista, se cioè si scrive “storia dal basso”, o si fa “storia militante” oppure se, come scrive Jim Green, si “prende a cuore la storia”, ci si espone a critiche a volte pesanti. Può succedere di non soddisfare i palati fini di storici che sono fermamente convinti che la storia sociale non sia storia o che la storia “vera” sia quella delle grandi figure della politica e dell’economia, oppure ancora che l’unico motore della storia siano i ceti dominanti. Non sono stati soltanto i conservatori, o i reazionari a dileggiare la storia from the bottom up. Anche tra gli storici culturalmente più vicini a gente come Zinn, c’è stato chi non ha avuto simpatia per le contro-narrazioni.

Da parte di alcuni di loro è stato rimproverato a Zinn – così come veniva rimproverato a Studs Terkel – di essere un “divulgatore” e quindi un semplificatore. La sua visione della storia, ha scritto Sean Wilentz, un antico giovane radical che insegna a Princeton, “è capovolta: fa degli eroi di quelli che erano i reietti, ma dopo un po’ la trama [del racconto] mostra la corda”. Il radical Eric Foner, pur essendo molto più simpatetico di Wilentz, fu quasi ugualmente critico in una recensione alla Storia. Allora Foner scrisse che la storia “dal basso” di Zinn era spesso troppo parziale e che Zinn presentava la gente comune un po’ troppo come “o ribelli o vittime”, e troppo poco come “gente che tenta di vivere con dignità in circostanze difficili”. Anni dopo, nel ricordo pubblicato da “The Nation” in occasione della morte di Zinn, Foner correggeva un po’ il giudizio: “A volte, a dire il vero, il suo racconto tendeva e essere manicheo, a essere una narrazione ipersemplificata della battaglia tra le forze della luce e delle tenebre. Ma la Storia del popolo americano ha insegnato una lezione alta e salutare: che nonostante le repressioni troppo frequenti, se gli Stati Uniti hanno una storia da celebrare questa storia sta nei movimenti sociali che hanno fatto di questo paese un paese migliore”. E aggiungeva, sintetizzando la lettura della storia di Zinn: gli eroi del passato non vanno cercati tra i presidenti o i capitani d’industria, ma tra radicals come l’ex schiavo e abolizionista Frederick Douglass, la femminista Susan B. Anthony e il sindacalista socialista Eugene V. Debs. E altri come loro, naturalmente.

Che Zinn abbia a volte semplificato e reso fin troppo lineare la sua narrazione è giusto dirlo. Non avrebbe avuto milioni di lettori se non fosse stato così, se la sua narrazione storica fosse una puntigliosa esercitazione della professione, invece di essere quello che è: una dimostrazione appassionata che la storia di una nazione è percorsa da molti fili intrecciati, che è caratterizzata da equilibri e squilibri nei rapporti di potere sociali, economico e politico, che non è un viaggio trionfale di una classe o di un ceto, ma il prodotto di una dinamica o dialettica incessante. Marx aveva detto che la storia è la storia della lotta di classe; Zinn – da marxista che è avvertito sulla storicità dello stesso marxismo – aggiorna il maestro e alle classi aggiunge sesso, razza, appartenenza culturale e nazionale. E’ giusto puntare il dito sugli errori fattuali o le forzature interpretative e le diversità di giudizio rispetto a chi ci precede nella scrittura; fare questo è parte integrante del mestiere dello storico. Ma non è lecito gonfiare surrettiziamente i “difetti” fino a dimensioni che portino a delegittimare l’opera in quanto tale e la prospettiva di cui essa è portatrice. Non è lecito nascondere il proprio disagio, magari derivante dal non avere detto noi cose che lo storico radical invece dice senza peli sulla lingua, dietro il paravento di quello che Peter Novick ha definito il “nobile sogno” dell’obiettività.

Quanti, fino a pochi anni fa hanno scritto la storia tenendo conto del modo in cui la realtà poteva essere vista dagli indiani, dagli schiavi, dalle donne, dai lavoratori, immigrati o nativi che fossero? Quanti sono gli storici che hanno fatto l’apologia di Thomas Jefferson senza dire una parola dei suoi rapporti con la sua schiava Sally Hemings, madre dei suoi figli? Quanti hanno spiegato il fordismo e scritto di Henry Ford senza dire che era un virulento antisemita, insignito della massima onorificenza hitleriana e un “disprezzatore” della gente comune? Quanti apologeti della “democrazia jacksoniana” hanno scritto che Andrew Jackson era proprietario di schiavi e sostenitore della schiavitù, che deportò le popolazioni indiane per fare spazio per le piantagioni di cotone? Quanti si sono scrollati di dosso la soggezione al mito di Theodore Roosevelt e ne hanno denunciato l’aggressività espansionistica, l’imperialismo? Mi riferisco non ai biografi accademici o agli autori di monografie, cioè agli specialisti che scrivono per specialisti, ma agli estensori dei libri di storia per le scuole, i college e le università. Contro tutti questi, nel 1980 ha fatto la sua comparsa, per fortuna, la Storia di Howard Zinn, che per prima ha cercato di rispondere a domande come quelle appena formulate. Se quelle cose non sono più la faccia nascosta della luna è anche grazie a quella sua prima esplorazione.

Bruno Cartosio (1943) insegna storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti, collabora con varie testate giornalistiche (tra cui “il manifesto”) ed è autore di numerose pubblicazioni. Dirige, con Alessandro Portelli e Giorgio Mariani, “Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”. Tra i suoi volumi: Anni inquieti. Società, media, ideologie negli Stati Uniti da Truman a Kennedy (1992), L’autunno degli Stati Uniti (1998), Da New York a Santa Fe. Terra, culture native, artisti, scrittori nel Sud-ovest, 1865-2002 (2002), Più temuti che amati. Gli Stati Uniti nel nuovo secolo (2005), New York e il moderno (2007).