venerdì 29 ottobre 2010


Chi sono (e cosa vogliono?) i lavoratori della conoscenza. 


Un’intervista a Sergio Bologna.

 

Sergio Bologna, storico del movimento operaio e teorico dell’operaismo italiano, è curatore di libri come “Il lavoro autonomo di seconda generazione” (Feltrinelli 1997, insieme a Andrea Fumagalli) ed è autore di “Ceti medi senza futuro?” (DeriveApprodi 2007). Ha creato riviste che hanno fatto un’epoca (Primo Maggio, raccolta riedita da DeriveApprodi nel 2010) e da 25 anni lavora come consulente nel campo della logistica (l’ultimo libro è “Le multinazionali del mare”, Egea 2010). “Abbiamo difeso il lavoro altrui, noi che operai non eravamo – ha scritto recentemente – Oggi dobbiamo difendere il lavoro cognitivo, il nostro lavoro, il lavoro intellettuale, più disprezzato e umiliato di quello manuale”. Con questa convinzione, Bologna segue da tempo le attività di Acta, l’associazione dei consulenti del terziario avanzato (www.actainrete.it), collaborando alla stesura del “manifesto del lavoro autonomo” (www.actainrete.it/2010/10/questo-e-il-nostro-manifesto). “Come molte altre associazioni in Inghilterra o negli Stati Uniti – spiega – Acta, per la quale curo i rapporti internazionali, denuncia le forti disparità di carattere previdenziale, fiscale, informativo e culturale del lavoro della conoscenza indipendente rispetto al lavoro dipendente e chiede nuove forme di welfare”.

Chi sono oggi i lavoratori della conoscenza?


C’è un po’ di confusione su questa espressione. Sono ormai molte le categorie ad usarla. I lavoratori della scuola e dell’università, ad esempio, gli avvocati, gli architetti, gli ingegneri, i notai, i pubblicitari, i traduttori. Lavoratore della conoscenza è la traduzione italiana di knowledge worker che è stata probabilmente coniata dal padre della teoria del management Peter Drucker negli anni Cinquanta. Oggi chi usa l’espressione “lavoratori della conoscenza” prova a definire in maniera più concreta la realtà in cui si trova.

Per quale ragione attribuisci a questi lavoratori un ruolo di primo piano nella nostra società?


Sono le cifre a dirlo. Mi riferisco ad una ricerca sui lavoratori della conoscenza presentata qualche tempo fa all’Assolombarda. Confrontato con il dato europeo e statunitense l’incidenza di quello che può essere chiamato “lavoro di conoscenza” raggiunge in Italia la pur ragguardevole percentuale del 41,49 per cento sulla forza lavoro occupata nel 2005, a fronte del 48,19 per cento in Germania e del 52,17 per cento in Gran Bretagna. Pur non condividendo del tutto i criteri di classificazione usati, il rapporto indica le caratteristiche che questi lavoratori offrono sul mercato: idee, beni immateriali, capacità relazionale, competenze.

L’istruzione ha un ruolo fondamentale per i lavoratori della conoscenza. Perché da vent’anni si continua a tartassarla con riforme che peraltro non sembrano funzionare?



Perché è stato deciso che la scuola e l’università non devono più dare una formazione completa ai giovani. Sbaglia chi pensa che bisogna dare più formazione ad un capitale umano non qualificato. E’ vero l’opposto: siamo in presenza di una generazione iperpreparata, mentre è il mercato ad essere dequalificato e non ha nulla da offrirle. Le riforme dell’università badano solo ai costi della formazione e su questi hanno modellato gli ordinamenti degli studi. Il processo di Bologna che le ha diffuse in tutta Europa è l’applicazione meccanica del modello americano. C’è una differenza, però. In Italia sono pochi i privati disposti a finanziare la ricerca. Da chi vai a chiedere soldi? Da Benetton? Della Valle? A quelli interessa sponsorizzare opere d’arte per valorizzare il proprio marchio. Quello che in Italia non si capisce è che negli Stati Uniti il 40 per cento del personale universitario è composto da fund raiser. Il problema di questo miserabile capitalismo italiano è che non abbiamo mecenati interessati alla ricerca e allo sviluppo. La ricerca dei privati si è tradotta nella caccia ai fondi pubblici superstiti e ai finanziamenti europei.

Dall’università, dai servizi, dalla scuola, dalle professioni giungono richieste di diritti essenziali e di sostegno al reddito. Una coincidenza?

Questo fenomeno si spiega con il fatto che il valore di mercato delle competenze dei lavoratori della conoscenza sta crollando. Il valore del loro lavoro si è svalutato molto di più di quello manuale. Prendete le tariffe orarie dell’uno e dell’altro e lo vedrete. In Italia chi ha una competenza dà fastidio. Quello che si cerca è una flessibilità esasperata che impone pagamenti inverosimili. Se finora questa situazione è stata sopportata senza eccessive proteste è perché la situazione di mercato era tollerabile. E’ facile prevedere che la crisi attuale, provocata da quella che Galbraith ha chiamato “economia della truffa”, porterà a situazioni di esasperazione e di totale sfiducia nelle istituzioni. La stessa svalutazione è presente nel lavoro dipendente. Dal 1992 in Italia c’è stata una stagnazione dei salari reali e in alcuni casi anche di quelli nominali.

Che rapporto ha il precariato con questa situazione?

La sua improvvisa visibilità è dovuta al fatto che la Confindustria, i partiti e il governo si sono resi conto che i contributi di milioni di precari sono fondamentali per finanziare la cassa integrazione da cui dipende la stabilità sociale in Italia. Senza questo ammortizzatore sociale arriveremmo al 12 per cento di disoccupati. Il modo in cui è amministrato il Fondo della Gestione Separata INPS alla quale si devono iscrivere i co.co.pro e i lavoratori autonomi è uno scandalo, che noi come ACTA continuiamo a denunciare e che i sindacati continuano a coprire. E’ questo che fa incazzare la gente. Questo accade perché abbiamo una rappresentanza politica, sindacale, associativa che non è interessata alle questioni vitali delle persone. Penso però che la democrazia corra un pericolo ancora più grave.

Quale?

Il disinteresse per il bene comune, la privatizzazione selvaggia che i milanesi conoscono bene, la mancanza di regolamentazione del mercato. Il pericolo non lo vedo tanto in un’organizzazione istituzionale, quanto nell’abitudine a dare una delega a chi fa politica di professione, come ha fatto fino ad oggi la sinistra, oppure a darla ad uno solo, come fa la destra. Bisogna convincere la gente ad uscire dalla passività e a difendere i propri diritti senza delegarli a terzi.

In tempi di antiberlusconismo credi che questo sia possibile?

Penso che l’antiberlusconismo sia di una sterilità mortale perché aumenta la passività, non la risolve. Il giustizialismo è un’aggravante. I magistrati più intelligenti lo sanno: pensare di rovesciare Berlusconi con la loro supplenza è la prova che la democrazia è in crisi. A chi pensa di affidare alla magistratura, o a Gianfranco Fini, la soluzione dei nostri problemi, rispondo: dov’era Fini durante le giornate del G8 di Genova? E che cosa ha deciso la magistratura su quei fatti? L’antiberlusconismo è l’ultima dimostrazione dell’incapacità della borghesia italiana di sviluppare un pensiero radicale e democratico della trasformazione. Il primo a dirlo è stato Gramsci. In questo paese nel dopoguerra lo ha fatto il proletariato. Una capacità che è andata persa dopo che la sinistra ha sciolto le sue strutture.

E’ possibile ricominciare? E da dove?

La forza motrice della resistenza sono le donne che oltre a lavorare, hanno un ruolo riproduttivo e di cura nella società. Per questo sentono di più il peso della crisi e reagiscono meglio. Non hanno una mentalità individualista, sanno che per ottenere qualcosa bisogna associarsi. Le donne sono una garanzia per la democrazia di questo paese.

Da alcuni anni parli di “coalizione”. Che cosa intendi precisamente?



Per coalizione non intendo un’organizzazione ma lo sviluppo di un atteggiamento soggettivo tra le persone affinché si associno con altri e rivendichino i propri diritti. La democrazia, come ha scritto Karl Polány, non è un sistema di governo, ma una forma ideale di vita. In Italia ci sarebbe spazio per creare una coalizione tra i vari tronconi del lavoro autonomo e precario per conquistare insieme certi diritti universali. I professionisti indipendenti possono dire ai giovani cos’è il mercato oggi, mentre i precari possono insegnare ai lavoratori autonomi a non chiudersi in un rivendicazionismo corporativo.

E il rapporto con i sindacati?

Con i sindacati bisogna dialogare, gli si deve però chiedere di abbandonare l’idea di aumentare gli oneri contributivi del lavoro autonomo e precario. Queste categorie sociali subiscono già una forte discriminazione sul piano delle prestazioni dello stato sociale. Dire che con l’aumento dei contributi si limita il ricorso ai contratti “atipici” è una bugia, la storia di questi anni lo dimostra.

Molecole
Idee per Agire

mercoledì 27 ottobre 2010

Rivolta delle élites e disfacimento del capitalismo

Luigi Tedeschi  intervista Costanzo Preve



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L.T. Le soluzioni alla crisi economico - finanziaria del 2008 appaiono incerte e problematiche. Esse infatti vengono costantemente ricercate all’interno di un sistema finanziario globale, che non viene messo in discussione, semmai, ne vengono criticati solo determinati eccessi. Le ricorrenti crisi dell’economia capitalista hanno sempre dato luogo a profonde trasformazioni degli equilibri politico - sociali preesistenti, con la conseguenza di espandere la base produttiva. Inoltre, la conflittualità sociale scaturita dalla crisi ha sempre condotto all’ampliamento sia della sfera dei diritti sociali dei lavoratori che della partecipazione politica delle masse. Le evoluzioni del capitalismo, per due secoli sembrano avere seguito tale direttiva come fattore costante del suo sviluppo storico. Oggi, la crisi globale sembra invece aver prodotto una fase involutiva del capitalismo stesso. In Italia e in tutto l’Occidente, si va delineando infatti un “autunno caldo del capitalismo”, in cui è la classe dominante dell’economia a pretendere riforme economico - sociali sistemiche, che comportano profondi mutamenti nella legislazione del lavoro, con la conseguenza di stravolgere materialmente un assetto normativo costituzionale ispirato allo stato sociale e alla solidarietà tra le classi. Gli investimenti della Fiat in Italia sarebbero possibili, secondo Marchionne e Confindustria, qualora si operassero ampie deroghe alla attuale contrattazione collettiva, alla legislazione del lavoro, alla rappresentanza sindacale, al fine di rendere competitiva l’industria italiana nel mercato globale. La crisi economica del 2008 ha reso necessario lo smembramento dello stato sociale, con energici tagli alla spesa pubblica. Ma, dinanzi a tali misure penalizzanti per la collettività, non si è generata alcuna conflittualità sociale da parte dei ceti subalterni, quali i disoccupati, i precari, i lavoratori a basso reddito, bensì si sono ribellate le classi privilegiate, le lobbies economiche, politiche, professionali, istituzionali, allo scopo di difendere le loro rendite di posizione, le élites cioè di una società stratificata sul privilegio sociale. Sembra dunque giunto a definitivo compimento quel processo iniziato alla fine degli anni ’70 con il reaganismo e il thatcherismo, denominato da Lasch “la rivolta delle élites”. Sembra, paradossalmente, che la Global Class protesti contro l’ordine economico e politico che ha loro consentito di costituirsi come élites. In questa fase storica si è manifestata la coscienza di classe delle élites, quale coscienza del loro ruolo dominante nella società. Si va delineando quindi una lotta di classe innescata dalla classe dominante, che, in quanto monopolista (o quasi) della struttura produttiva diviene autoreferente, con il fine di affrancarsi dalle strutture politiche istituzionali, quali sovrastrutture non più funzionali al modo di produzione capitalista globale. Si sta realizzando una rivoluzione marxista capovolta. Tale svolta involutiva della Global Class si manifesta come riflesso conseguente all’esaurimento epocale del primato dello sviluppo dell’economia produttiva. I volumi della produzione mondiale non hanno registrato incrementi rilevanti rispetto alla “età dell’oro” del trentennio ‘45 - ’75. Disoccupazione diffusa, precariato, perdita del potere d’acquisto dei salari non favoriscono certo crescita della produzione e del consumo. Inoltre, le stesse condizioni - capestro imposte ai lavoratori della Fiat, non saranno certo sufficienti a rendere l’industria italiana competitiva con la produzione asiatica. In realtà, l’attuale ristagno della crescita è esplicativo dell’esaurimento di una fase storica contrassegnata dallo sviluppo progressivo. Il capitalismo impone le proprie condizioni in una fase regressiva difesa delle proprie posizioni di privilegio. Tu hai spesso enunciato il concetto di “capitalismo feudale”. Tale definizione mi sembra appropriata in quanto rivela la doppia natura contraddittoria del capitalismo del XXI° secolo: è feudale nella conservazione dei privilegi monopolistici e nella sua arroganza nel pretendere sovvenzioni e aiuti di Stato, mentre è liberista in tema di produttività e competitività della forza lavoro, nell’esigere cioè precarietà, mobilità, assenza di vincoli sociali.

C.P. Di tutti gli stimoli contenuti in questa tua prima domanda mi permetterai di svilupparne soltanto uno, che però sarà forse il più interessante ed intrigante per i nostri lettori. Si tratta di quella “rivoluzione marxista capovolta”, che opportunamente Lasch ha definito “la rivolta delle élites”. È un fenomeno macroscopico, che è sotto gli occhi di tutti, e che viene sistematicamente rimosso in nome del “politicamente corretto”, che insiste nel sostenere che viviamo in una democrazia (sia pure imperfetta e minacciata all’interno dal populismo ed all’esterno dal terrorismo e dal fondamentalismo religioso), laddove non viviamo affatto in una democrazia (la cui precondizione irrinunciabile sarebbe il primato della decisione politica democratica sugli automatismi fatali ed incontrollabili dell’economia divinizzata), ma in una oligarchia finanziaria temperata da alcune garanzie individuali di godimento (limitato) di alcuni diritti civili.
Questa “rivoluzione marxista capovolta” è tuttavia parzialmente comprensibile utilizzando criticamente lo stesso apparato concettuale di Marx, al netto di due suoi giganteschi errori prognostici, il carattere rivoluzionario inter-modale delle classi popolari, operaie, salariate e proletarie (sulla base del recente bilancio storico bisecolare del tutto inesistente) e la pretesa incapacità delle classi dominanti borghesi-capitalistiche di continuare a sviluppare le forze produttive (sulla base del recente bilancio storico bisecolare del tutto inesistente). Se si mettono infatti fra parentesi questi due giganteschi errori prognostici (che non permettono in alcun modo di parlare del cosiddetto “marxismo” come di una scienza prognostica in senso naturalistico moderno e di tipo galileiano) resta però comunque qualcosa, e questo qualcosa non è soltanto la teoria della alienazione (che in un’opera di prossima pubblicazione Eugenio Orso ha collegato strettamente con la generalizzazione del lavoro flessibile e precario, fenomeno antropologico assai più che soltanto angustamente economico), ma è soprattutto una teoria della illimitatezza distruttiva della dinamica riproduttiva capitalistica, teoria che separa Marx dalla tradizione del progressismo positivistico (ideologia dominante nel comunismo storico novecentesco in tutte le sue versioni), e lo ricollega invece alla tradizione della filosofia greca classica, nata in opposizione alla smisuratezza del denaro e del potere non controllati dalla ragione (logos) e dalla misura (metron).
Questo Marx, quindi, sarebbe ancora non solo utile, ma addirittura indispensabile. Ma questo Marx non interessa né alle restanti comunità marxiste in attività (congreghe di atei positivisti in pieno sbandamento teorico e culturale) né alla cosiddetta “sinistra” (tribù post moderna di individualisti narcisisti odiatori del popolo realmente esistente accusato di razzismo populista). Marx resta quindi del tutto “virtuale”, e viene sempre preso “decaffeinato”, per poterne espungere gli aspetti inquietanti incompatibili con il Politicamente Corretto.
Studioso di Marx e della storia del marxismo da almeno quattro decenni, io non mi stupisco affatto di quella rivoluzione marxista capovolta cui assistiamo da almeno un trentennio. Mi sarei anzi stupito del contrario. Il fatto è che per “marxismo” tutti i dilettanti ed i fanatici intendono (ed hanno sempre pervicacemente inteso) il mito sociologico infondato della natura spontaneamente rivoluzionaria del proletariato di fabbrica moderno, mito epistemologicamente inferiore alla cosmologia Maya ed alle favole della nonna. A causa dell’egemonia incontrastata in Italia del cosiddetto “operaismo” (di cui l’ultima versione alla Negri è soltanto una forma adattata alla globalizzazione sotto dominio imperiale USA) nel nostro paese il pensiero di Marx è stato identificato per mezzo secolo con il mito sociologico del proletariato di fabbrica, uno dei grumi sociali meno rivoluzionari dell’intera storia universale comparata (l’eccezione russa del 1917 fa parte appunto di quelle eccezioni storiche che confermano la regola).
Bisogna quindi cercare di capire la natura storica e sociale profonda di questa rivolta delle élites. In primo luogo, non è la prima volta nella storia del capitalismo che questa rivolta delle élites ha luogo, ma almeno la seconda volta. La prima rivolta delle élites ha avuto luogo fra il 1871 (repressione della Comune di Parigi) ed il 1914 (scoppio della prima guerra mondiale), ed è strano che il pur benemerito Lasch non se ne sia accorto (ma questo è probabilmente dovuto all’assoluto e totale americano-centrismo di tutti gli intellettuali americani, compresi i più geniali e dotati). Nietzsche in filosofia e Pareto in sociologia sono stati i due principali teorici di questa prima rivolta delle élites, e non bisogna dimenticarlo mai.
Non considero invece i movimenti fascisti del periodo storico 1919-1945 episodi di rivolta delle élites, anche se cosi tendono a considerarli quasi tutti gli attuali contemporaneisti universitari (un pittoresco gruppo di antifascisti rituali in totale e conclamata assenza di fascismo). Sebbene i movimenti fascisti siano stati anche favoriti e finanziati da élites industriali, agrarie e finanziarie (a seconda ovviamente dei vari paesi), la natura profonda del fascismo non è stata quella di una rivolta delle élites, ma quella di un vasto e contraddittorio movimento dei ceti medi e della piccola borghesia tradizionale contro la proletarizzazione, rappresentata simbolicamente dalla minaccia del bolscevismo russo. Mi oppongo quindi con forza all’interpretazione storiografica dei fascismi in termini di rivolta delle élites, e questo del tutto indipendentemente dal giudizio morale, politico o storiografico sulla natura storica del fascismo in tutte le sue varianti.
A partire dal 1980 circa siamo invece di fronte ad una seconda vera e propria rivolta delle élites. Si tratta allora non tanto di condannarle moralisticamente, come fanno tutti coloro che si limitano a constatare che negli anni cinquanta del novecento il differenziale salariale fra un operaio Fiat ed il direttore Vittorio Valletta era di uno a venti, mentre oggi il differenziale salariale fra un operaio Fiat ed il direttore Sergio Marchionne è di uno a quattrocento. Questo non è certo dovuto ad irrilevanti sconfitte di scioperi operai, ma è dovuto esclusivamente ad un passaggio da un capitalismo prevalentemente produttivo, e quindi industriale, ad un capitalismo prevalentemente speculativo, e quindi finanziario. Mentre la prima rivolta delle élites (1871-1914) si basava prevalentemente sulla riorganizzazione della sovranità monetaria dello stato nazionale (con accompagnamento culturale alla Nietzsche-Pareto), questa seconda rivolta delle élites si basa prevalentemente sul controllo di uno spazio economico globalizzato, ed il suo accompagnamento culturale non è più prevalentemente di “destra” (Nietzsche, Pareto, Kipling, ecc.), ma è prevalentemente di “sinistra” (postmoderno, Ljotard, Bobbio, Rawls, Habermas, religione olocaustica di colpevolizzazione infinita dell’Europa, ideologia interventistica dei diritti umani, governo dei giudici e dei giornalisti, costituzione materiale basata sullo scandalismo, irrisione della religione vista come residuo superstizioso pre-moderno, sostituzione del Big Bang alla creazione divina, imposizione del coito e del godimento immediato al posto dell’amor cortese e del dolce stil novo, ecc.).
E tuttavia Lasch coglie il punto essenziale della questione, molto più dei cosiddetti “marxisti”, poveri positivisti subalterni di sinistra cultori dell’ideologia del progresso. Lasch è però “imbarazzante” sia per i ceti di sinistra postmoderni, di cui aveva precocemente diagnosticato la natura narcisistica, sia per la cultura dominante, che ovviamente gli preferisce generici tuttologi chiacchieroni che si limitano a denunciare forze anonime ed impersonali e non indicano mai con il dito gli oligarchi che ci dominano (la società liquida di Bauman, il destino della tecnica di Galimberti, ecc.).
So bene che la definizione di “capitalismo feudale” è provvisoria, e non è ancora certamente soddisfacente (sebbene ritenga in buona fede che il lavoro sociologico che ho scritto con Eugenio Orso si collochi al di sopra della produzione media della sociologia universitaria, ed è per questo ovviamente che è stato silenziato – le strutture culturali ufficiali sono prima di ogni altra cosa strutture selettive di silenziamento, all’interno appunto del fenomeno generale della rivolta delle élites). Ma questo ossimoro si pone tuttavia al di sopra di tutte le tranquillizzanti apologie che vanno da Sloterdjik a Rorty, da Rawls a Bobbio fino ad Habermas, il seppellitore dell’ultima manifestazione di inquietudine della vecchia coscienza borghese (la scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno). Non la considero però (come tu suggerisci) una fase involutiva del capitalismo. Come chiarirò meglio nella mia quarta risposta, tendo invece ad interpretare questa rivolta delle élites come un passaggio strutturale alla terza fase logica del capitalismo (la fase speculativa dopo le fasi astratta e dialettica), fase che deve cercare di limitare il più possibile gli elementi “dialettici” della fase precedente (comunitarismo borghese di Hegel, comunitarismo proletario di Marx, marxismo critico novecentesco, ecc.). Infine, last but not least, questa rivolta delle élites delle classi dominanti europee ed USA è anche stata una risposta preventiva all’incipiente sfida delle nuove classi capitalistiche della Cina, dell’India, della Corea e del Brasile. Come sarebbe stato infatti possibile competere con loro senza avere bastonato prima i propri riottosi plebei, senza precarizzare il lavoro, e senza colpire la conquista dei cosiddetti trenta anni gloriosi (1945-1975)?


 

L.T. La globalizzazione ha comportato l’uniformazione dei processi produttivi, degli scambi, della mobilità dei capitali e della manodopera, fenomeni peraltro resi possibili dal progresso tecnologico. La globalizzazione ha dunque condotto al fenomeno della interdipendenza mondiale dell’economia, della finanza, della cultura, degli equilibri politici di un ordine mondiale sempre più instabile e conflittuale. Pertanto, la crisi finanziaria del 2008, per sua genesi e natura di carattere globale, avrebbe richiesto soluzioni e riforme comuni, concordate in sede internazionali tra gli Stati e organismi sopranazionali. Ma finora non si registrano accordi internazionali in tal senso. Nessuna disciplina di controllo è stata varata per quanto concerne gli strumenti finanziari derivati, sono al di là da venire accordi che affranchino l’economia mondiale dal dollaro che resta valuta di riserva, rimane immutato il problema del cronico debito del terzo mondo e la sua dipendenza dal FMI. Anziché la globalizzazione delle politiche economiche e sociali, abbiamo assistito al prepotente riemergere degli egoismi nazionali e localistici, la politica economica della UE (specie da parte della Germania), nella vicenda del default del debito pubblico greco ce ne offre un esempio paradigmatico. Nelle crisi finanziarie, la politica degli Stati non è volta tanto a difendere la propria economia e la propria indipendenza nazionale dalle ricorrenti manovre antieuropee degli USA, quanto a salvaguardare i privilegi acquisiti nella propria area geopolitica di influenza. Si tratta in realtà di una strategia regressiva di impronta esclusivamente monetaria messa in atto dalla BCE, che peraltro comporta provvedimenti di natura fiscale e sociale che si rivelano penalizzanti per i popoli europei. Anche nella sfera individuale l’avvento della globalizzazione ha generato un individualismo egoista dagli orizzonti sempre più ristretti. La mobilità e la precarietà del lavoro hanno diffuso un modello di vita basato sull’incertezza permanente, il cui fine ultimo è limitato alla mera sopravvivenza. Inoltre, con il progresso tecnologico nel campo delle comunicazioni e l’incremento degli scambi, si è verificata un’espansione della produzione normativa a tutela dei diritti del singolo alla privacy e alla salvaguardia della sfera individuale che ha depauperato l’uomo della sua naturale tendenza allo spontaneismo sociale. L’eccessiva normatività giuridica crea rigidi codici di comportamento inderogabili (ideologia del politically correct). La libertà individuale si tramuta in uno stato di generalizzata il libertà collettiva, l’esercizio codificato dei diritti individuali produce estrema conflittualità nella società e soprattutto controllo sociale esterno nei comportamenti delle masse. Sembra che la globalizzazione abbia determinato solo l’universalizzazione degli egoismi.
 

 

C.P. Per rispondere correttamente all’insieme di problemi che tu poni è bene cercare una formulazione unitaria sintetica, che permetta di “stringere” il cuore della questione da te sollevata. Riporto qui allora una felice formulazione sintetica del grande sociologo francese Pierre Bourdieu, che ci offre tutti i dati teorici del problema. Ha scritto Bourdieu: “La nozione polisemantica di globalizzazione ha come effetto, se non forse come funzione, di nascondere nell’ecumenismo culturale o nel fatalismo economicistico gli effetti dell’imperialismo e di far passare un rapporto transnazionale per una necessità naturale”. Qui c’è proprio tutto, se si usa ovviamente la lente adatta.
In primo luogo, la globalizzazione non soltanto non ha fatto scomparire il buon vecchio imperialismo (matrice principale del grande macello impropriamente chiamato dagli storici “prima guerra mondiale”), ma ne è semplicemente la forma specifica dell’attuale periodo storico. In una prospettiva secolare (l’unica illuminante e sensata) l’imperialismo ha assunto fino ad oggi tre forme, il mercantilismo seicentesco e settecentesco, l’imperialismo vero e proprio ottocentesco e novecentesco, ed infine l’attuale globalizzazione. La decadenza della sinistra europea è cominciata proprio quando negli ultimi due decenni del novecento e nel primo decennio del ventunesimo secolo questo informe conglomerato postmoderno ha abbandonato la categoria di imperialismo ed ha adottato categorie sostitutive come la religione olocaustica, il bombardamento aereo in difesa dei diritti umani, l’attenzione ossessiva ed esclusiva per le minoranze sessuali, gli zingari ed i migranti, il disprezzo per il popolo accusato surrealmente di “populismo”, ecc. (il punto più basso a livello europeo è stato raggiunto in proposito dal Partito della Rifondazione Comunista italiano sotto la direzione dilettantesca ed infantile di Fausto Bertinotti). È bene in proposito ricordare che il solo elemento permanente della tipologia a tre stadi sopra ricordata (mercantilismo, imperialismo propriamente detto ed infine globalizzazione) è stata, è e sarà la funzione diplomatica e militare degli stati nazionali, che certo in questa terza fase “si ritirano” dalle funzioni sociali dette di welfare, ma non si ritirano affatto dalla pressione diplomatica e dall’intervento militare.
In secondo luogo, Bourdieu ricordala funzione di manipolazione ideologica della cosiddetta “necessità naturale”. È una vecchia, vecchissima storia, ma le sue manifestazioni empiriche sono sempre nuove, e richiedono quindi sempre un’attenzione particolare. Le religioni monoteistiche hanno a lungo esercitato la funzione ideologica di far passare concreti interessi sociali di classe per “naturale” adeguamento ai voleri divini (in questo il monoteismo è stato sempre molto più “performativo” del politeismo o del panteismo a base naturalistica), ma da circa mezzo secolo questa “naturalizzazione” è passata all’economia politica santificata e deificata. Per questa ragione il cosiddetto “pensiero laico”, che vorrebbe liberarci il cervello sostituendo la teoria darwiniana dell’evoluzione al cosiddetto “disegno intelligente divino” è in ritardo di almeno un secolo (e mi esprimo qui in modo particolarmente indulgente e pacato). Le facoltà di economia sono oggi l’equivalente delle facoltà medioevali di teologia, mentre le facoltà di filosofia e di scienze sociali sono ridotte ormai a supporti secondari di questa naturalizzazione (consulenze filosofiche per narcisisti in crisi di identità, inutile epistemologia alluvionale, integrale destoricizzazione e desocializzazione della teoria della conoscenza scientifica, diffamazione insistita e petulante della metafisica umanistica classica, ecc.).
In terzo luogo, Bourdieu ci ricorda che l’ecumenismo culturale ed il fatalismo economicistico sono una sola ed unica unità dialettica, anche se, in linguaggio marxista, potremmo anche dire (ma sarebbe meno preciso) che il fatalismo economicistico è la struttura e l’ecumenismo culturale è la sovrastruttura. La globalizzazione finanziaria si pone in forma fatalistica come gabbia d’acciaio (Max Weber) o come destino della tecnica (Martin Heidegger), e si ha così il paradosso (per altro facilmente decifrabile) per cui una Grande Narrazione (più esattamente, la più oscena delle grandi narrazioni mai concepite nella millenaria storia dell’umanità) si presenta come la smentita definitiva e “liberatoria” di tutte le grandi narrazioni precedenti. Contestualmente, tutta la superficiale retorica ecumenica (multiculturalismo, multietnicità, ecc.) non è che l’abito di Arlecchino indossato sopra il giubetto antiproiettile usato per le guerre occidentalistiche di civiltà (Irak, Afghanistan, domani chissà). Qui la funzione di occultamento del circo mediatico e del clero universitario appare in piena luce, e gli unici a non capirlo sono i semicolti presenzialisti che affollano le conferenze per gente di una certa Kual Kultura (i K maiuscoli sono dell’umorista italiano Stefano Benni).
In quarto luogo, il fatalismo economicistico che permea la nostra cultura come una nuvola velenosa di smog è già stato diagnosticato da alcuni decenni, ma è impossibile fare passi avanti se non si diagnostica il male alla radice. Bisogna quindi risalire a due concezioni alternative di economia politica per potere respingere la prima ed accettare la seconda. Secondo una prima concezione di economia politica essa è frutto di una autofondazione su sé stessa senza alcun fondamento pre-esistente di tipo religioso, filosofico e politico (David Hume) e di una rigorizzazione della mano invisibile del mercato (Adam Smith), per cui il legame sociale fondato sullo scambio fa venir meno qualsiasi altro presunto Assoluto (in questo modo la metafisica economicistica si presenta come liberazione da ogni altra precedente metafisica – il massimo della sfacciata mistificazione!). Ma in base ad una seconda concezione l’economia politica deve rispondere non al mercato ma al “sistema dei bisogni” sociali (Hegel e poi Marx), ed è quindi una disciplina dipendente dalla politica, e non viceversa (Aristotele, Tommaso d’Aquino, Polany, interpretazione di Hegel di Pierre Naville, interpretazione di Marx di Michel Henry, Henry Denis, Denis Collin ed infine se me lo si permette – di chi scrive). La prima concezione non è riformabile, perché sfocia sempre gravitazionalmente in un monoteismo fatalistico del mercato. La seconda è invece la “regola d’oro” da sviluppare, ma la via è bloccata dalla “saracinesca” formata dalle oligarchie finanziarie, dal ceto politico, dal circo mediatico e dal clero universitario di economia, filosofia e sociologia.
In quinto luogo, infine, l’ecumenismo culturale, lungi dall’essere progressista, emancipatore e di “sinistra” è soltanto la copertura culturale per conniventi e per allocchi di un nuovo capitalismo finanziario globalizzato che per rimuovere la generalizzazione del lavoro flessibile, temporaneo e precario deve promuovere la formazione di un nuovo esercito industriale di riserva multiculturale, multirazziale, multietnico, multireligioso, linguisticamente unificato (inglese operativo) e sessualmente omogeneizzato (omo ed etero al posto delle vecchie noiose famiglie borghesi). Tutto questo non ha assolutamente nulla a che fare con il vecchio concetto greco di ospitalità verso lo straniero (xenos) in cui lo straniero era bensì ospite, ma mai ci si sarebbe sognati di rinunciare alla propria identità culturale greca, di cui si era anzi non solo fieri ma fierissimi. Ultimamente questo è stato chiarito da un magistrale saggio di Luca Grecchi (uno dei più promettenti filosofi italiani contemporanei, ed appunto per questo silenziato ed ignorato dalla mafia mediatico-accademica al servizio delle oligarchie), che confuta con ricchi argomenti l’errata concezione dei greci come nazionalisti, sciovinisti e razzisti. I greci erano fieri della propria irripetibile identità religiosa, culturale e linguistica, e nello stesso tempo aperti al cosiddetto “diverso” (oggi trasformato in un inesistente Diverso per colpevolizzare la legittima difesa economica e culturale delle comunità).
La formula che tu utilizzi alla fine della tua domanda (la globalizzazione come universalizzazione degli egoismi) è particolarmente felice, perché suggerisce al lettore che abbia ancora voglia di pensare che l’universalizzazione degli individualismi acquisitivi (non importa se dal lato dell’Imprenditore o dal lato del Consumatore) universalizza soltanto l’individualismo acquisitivo stesso. È questo un ennesimo ossimoro (l’universalizzazione dell’individualismo), che non potrebbe però concretamente realizzarsi senza la perdita della stabilità del lavoro (l’individuo flessibile è il vero coronamento di ogni individualismo, perché porta lo sradicamento al suo punto più alto) e senza la distruzione delle vecchie comunità familiari e religiose in nome di nuove comunità provvisorie fittizie (la folla anonima dei centri commerciali, il concerto rock, ecc.).
L’antropologia sociale di questa nuova ed inedita universalizzazione dell’individualismo anomico deve ancora essere studiata, e non possiamo certamente aspettarci alcun aiuto dalle caste mediatiche ed universitarie. E tuttavia io credo nella natura umana, e quindi non credo nella sua manipolabilità infinita. Se la natura umana fosse infinitamente manipolabile, non ci sarebbero soggetti sociali capaci di tirarci fuori, né tanto meno futurismi tecnologici o ideologie del progresso. Per questo non bisogna chiedere aiuto all’ideologia, ma ad un rinnovamento filosofico. Ma dal momento che la tua terza domanda verte appunto su questo, svilupperò il mio discorso proprio nella mia terza prossima risposta.

 

L.T. Come già accennato, il capitalismo del XXI° è caratterizzato dalla propria autoreferenzialità, dato che non esistono ad oggi modelli economico - sociali alternativi ad esso. E’ l’economia capitalista globalizzata ha creato un modello rigido, sia dal punto di vista economico che ideologico, che legittima o condanna la politica degli Stati. Tuttavia, si rileva, che il capitalismo, sin dalla sua nascita al tramonto del mondo feudale, si è dimostrato vincente proprio in virtù della sua capacità di adattamento a situazioni storiche e geografiche estremamente diversificate nello spazio e nel tempo. Il capitalismo è sopravvissuto così  a lungo, grazie alla sua capacità di recepire e omologare alle sue esigenze i valori e i costumi delle civiltà preesistenti ad esso ed è stato in grado di far proprio il progresso scientifico - tecnologico, coinvolgendolo nelle logiche di mercato. Il modello capitalista fino ad oggi non è mai stato unitario: la storia del mondo moderno è costellata da una estrema diversificazione di modelli socio - politici ispirati al capitalismo, ma compatibili con le peculiari realtà storiche  e sociali del tempo. Oggi si afferma, e non senza ragione, che il capitalismo occidentale si è dimostrato vincente rispetto alle ideologie del XX° secolo, proprio per la sua estrema capacità di trasformazione, che gli ha consentito di evolversi e di superare sempre le sue crisi interne, più volte diagnosticate erroneamente come sintomi della sua ineluttabile decadenza. I modelli politici basati invece su dogmi ideologici (fascismo e comunismo), sono stati travolti sia a causa delle guerre (fascismo), che per la loro estrema rigidità nell’affrontare i problemi del proprio tempo nell’ottica ideologica, che si è peraltro rivelata incapace di riformare il sistema politico ed economico dinanzi ai mutamenti in atto di un mondo in continua evoluzione (comunismo). Il capitalismo del XXI° secolo invece presenta caratteristiche rigidità ed univocità strutturale nel qualificarsi come unico modello universale di sviluppo. Attualmente il sistema capitalista è incapace di mediazione tra un liberismo ormai chiuso nel suo assolutismo ideologico - economicista e la realtà storico sociale contemporanea. E’ assente oggi una dialettica sociale che abbia la funzione di determinare quella necessaria contrapposizione tra le classi sociali, i gruppi politici, le diverse culture, da cui poi possano emergere delle sintesi in cui trovino la loro composizione le diverse istanze poste dalla conflittualità politico - sociale. Alla dialettica sociale si è sostituito uno stato di conflittualità permanente all’interno dell’economia di mercato, che scaturisce dalla concorrenza selvaggia, dalle tensioni sociali senza soluzione, dalle guerre infinite per l’appropriazione delle risorse. Nella realtà odierna, è tuttavia impensabile una dialettica conflittuale tra le classi, perché, mentre le élites della “Global Class” hanno creato un modello economico - sociale strutturato in funzione del proprio unilaterale ed oligarchico dominio sull’economia e sulla finanza, la “Pauper Class” è un’entità indefinita, un fenomeno non originario, ma derivato dalla dissoluzione delle vecchie classi sociali, dalla marginalizzazione progressiva di grossa parte della popolazione attiva. La mancanza di conflittualità sociale è dovuta proprio alla indefinibilità degli interessi e dei valori comuni delle classi subalterne che possono essere identificate solo nella loro fuoriuscita dal mondo economico, dalla loro frantumazione sociale e dalla loro emarginazione politica.

C.P. Il capitalismo è una totalità processuale in pieno svolgimento, ed essendo una totalità processuale in pieno svolgimento non è scientificamente conoscibile, almeno secondo i criteri della scienza moderna. Nella terminologia della filosofia di Kant, il capitalismo è assimilabile ad una Cosa in Sé, cioè ad un Pensabile ma non Conoscibile. Ciò che è scientificamente conoscibile deve poter essere determinato in uno spazio ed in un tempo, ed il prolungamento nel futuro può soltanto essere fatto in base al presupposto della cosiddetta “uniformità della natura” (Stuart Mill). Ad esempio, noi possiamo scientificamente prevedere le eclissi di luna e di sole anche fra alcuni secoli, ma possiamo farlo soltanto con il presupposto della stabilità omogenea ed uniforme dello spazio e del tempo. Già la teoria detta del Big Bang non è affatto scientificamente sicura al cento per cento, ed infatti ci sono fisici e cosmologi che non la condividono assolutamente. Il futuro processuale del capitalismo inteso come totalità dinamica in svolgimento non è per nulla prevedibile, ed è per questo che ho sempre definito il marxismo un utopismo scientifico, perché è una utopia positivistica e deterministica pensare di poter determinare scientificamente il futuro di una totalità dinamica in pieno svolgimento.
Fatta questa necessaria premessa, tu avanzi una ipotesi degna di essere presa in considerazione. In primo luogo, utilizzi il concetto darwiniano di adattabilità (fitness), per cui la vittoria del capitalismo nel recente passato storico è interpretata non tanto come semplice capacità di favorire lo sviluppo delle forze produttive (secondo il criterio tradizionalmente accettato dai marxisti, sia ortodossi che eretici), ma come adattabilità darwiniana all’ambiente storico e sociale circostante. In secondo luogo, ipotizzi che l’attuale capitalismo neoliberale globalizzato stia perdendo questa adattabilità, diventando paradossalmente sempre più “ideologico”, e ripetendo cosi gli errori dei suoi due grandi avversari storici novecenteschi, il fascismo ed il comunismo. Vale quindi la pena cercare di sviluppare e di discutere l’ipotesi che tu proponi.
Dal momento che il capitalismo non è una cosa, ma un rapporto sociale di produzione (qui sta la relativa superiorità di Marx su Heidegger), la sua forza è direttamente proporzionale alla debolezza dei suoi possibili avversari strategici. Se è vera, ammesso che sia vera, la trasformazione del proletariato storico in Pauper Class (secondo l’ipotesi proposta da me e da Orso, che non è ideologica ma soltanto sociologica – e vorrei sinceramente che fosse falsa, ma penso purtroppo che sia vera), allora non siamo tanto di fronte ad una ideologizzazione rigida” del capitalismo (come tu sembri ipotizzare), ma ad una situazione storica e sociale temporanea (temporaneità che può durare anni, decenni o secoli, il futuro è imprevedibile), in cui il capitalismo si sviluppa unicamente come rete concorrenziale di diverse unità capitalistiche in reciproco conflitto strategico (secondo l’ipotesi di Gianfranco La Grassa), restando invece del tutto latente, virtuale ed  ineffettuabile la lotta di classe. Sul piano storico, non considero le pur benemerite lotte sindacali vere lotte di classe, perché esse sono del tutto interne e “sistemiche” alla riproduzione del modo di produzione capitalistico. Andando contro la tradizione marxista, considero “lotta di classe” soltanto quel tipo di lotta strategica che mette realmente in discussione la riproduzione “modale” del capitalismo. So che questo mi farà diventare ancora più antipatico di quanto già lo sia ai “sinistri” di ogni tipo, ma ritengo che è giunta l’ora di smetterla di “raccontarci delle storie” (Althusser).
La vera novità storica di questo ultimo ventennio è l’entrata nel mondo della concorrenza strategica dei capitali indiani, cinesi, turchi, brasiliani, eccetera. Credo che la rigidità ideologica neoliberale, che tu correttamente rilevi, sia soltanto la ricaduta sovrastrutturale di queste novità, da cui derivano fenomeni del tutto secondari come il conflitto fra Marchionne e la Fiom di Pomigliano.
Come cercherò di chiarire nella mia prossima quarta risposta, che considero la più importante di tutte, il problema sta nel capire se ed in che modo dalla Pauper Class possa scaturire l’insieme di soggettività politiche rivoluzionarie in grado di confrontarsi con il capitalismo in questa terza fase “speculativa” del capitalismo. Questo non può essere oggetto di scienza, perché è imprevedibile,  ma solo di filosofia, nel senso di una filosofia della prassi basata su di una ontologia dell’essere sociale. E tuttavia, qualcosa si può pur sempre dire, anche se bisogna abbandonare l’idea della prevedibilità del futuro, su cui si è mosso per due secoli il pensiero anticapitalistico.
In primo luogo, bisogna separare decisamente i concetti di progresso e di emancipazione, che la tradizione marxista ci consegna unificati, e che invece non sono affatto unificati, e soprattutto non sono unificabili, né teoricamente né praticamente. Il concetto di progresso deve essere cortesemente archiviato, mentre quello di emancipazione deve essere invece messo al centro. Ma spieghiamoci meglio.
Il concetto di progresso nasce nel settecento borghese europeo, e prima non c’era. Tutti i tentativi di “retrodatarlo” all’antichità classica, al medioevo ed al rinascimento sono scorretti, perché individuano concetti di generica possibilità di miglioramento delle condizioni sociali o programmi di perfezionamento spirituale dell’uomo che non corrispondono affatto al concetto settecentesco di progresso. Il concetto di progresso è il fondamento ideologico di legittimazione della borghesia settecentesca, perché sottrae la sovranità sulla totalità temporale alla precedente sovranità religiosa, i cui apparati teologici si erano schierati dalla parte della riproduzione signorile e tardo-feudale. Più esattamente, il concetto di progresso storico è estrapolato da un fatto materiale, il progressivo perfezionamento degli strumenti tecnologici di conoscenza della natura astronomica, fisica, chimica, geologica e biologica. Questo perfezionamento è per sua propria natura potenzialmente infinito, perché non esiste e non può esistere lo strumento “definitivo”. Questo carattere potenzialmente infinito del perfezionamento dello strumento tecnologico è estrapolato nel campo umano e sociale, e Kant ne è il maggiore e migliore interprete filosofico.
Il concetto di emancipazione non è invece di origine illuministica (se non in forme ancora non sistematizzate), ma è di origine idealistica, e trova nell’idealismo di Fichte la sua prima forma compiuta. L’emancipazione non è in alcun modo un progresso potenzialmente infinito estrapolato dall’infinito perfezionamento degli strumenti di ricerca, ma un rapporto fra l’Io (metafora ideale dell’intera umanità concepita come un solo soggetto storico emancipatore attivo) ed il Non-Io (metafora dell’insieme di resistenze che si oppongono storicamente e socialmente al processo emancipatore). Qui – come è chiaro – non c’è più nessuna metafora del progressivo perfezionamento degli strumenti, ma il solo riconoscimento della prassi emancipativa umana.
In secondo luogo (e questo secondo aspetto è ancora più importante del primo) bisogna diagnosticare con precisione l’origine di quella posizione patologica che pretende di dominare la conoscibilità del futuro. Qui la confusione regna in genere sovrana, perché nella tribù dei filosofi universitari politicamente corretti domina la teoria per cui la cosiddetta grande narrazione marxista (da superare secondo Habermas con un pensiero decisamente postmetafisico: traduzione, capitalistico) non sarebbe che una secolarizzazione della vecchia escatologia ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica moderna. Una sorta di Apocalisse di Giovanni, in cui però Giovanni, avendo imparato l’inglese, ha potuto leggere Smith e Ricardo.
Si tratta di pompose sciocchezze. La pretesa di conoscere il futuro non ha alcun carattere escatologico-apocalittico, ma deriva dallo sviluppo unilaterale del concetto di capitalismo come “spazio uniforme” allo spazio della natura. E cosi come le eclissi si possono prevedere (in nome della uniformità dello spazio-tempo prevedibile), nello stesso modo il futuro storico può essere previsto, sulla base della quantificazione e della matematizzazione delle grandezze sociali. Ma le sole grandezze sociali quantificabili e matematizzabili sono quelle puramente economiche, sulla base del concetto di valore economico come tempo di lavoro sociale medio incorporato nel bene-merce. Lo spazio sociale prolungato nel fuguro diventa cosi effettivamente uno spazio prevedibile, ma soltanto se esso viene ferreamente limitato alla dimensione economica dello scambio delle merci.
Chi capisce questo (ma non facciamoci illusioni – l’intera comunità universitaria rema contro) capisce che la pretesa di conoscere il futuro del capitalismo come se fosse un oggetto scientifico non trova affatto la sua radice nel pensiero greco, nella escatologia cristiana o nell’idealismo tedesco di Fichte e di Hegel (i confusionari postmoderni sono particolarmente attaccati a questa ultima versione), ma trova la sua origine in una estrapolazione economicistica della futurizzazione del tempo storico, sorta all’interno dell’economia politica inglese e poi generalizzata dal positivismo e dal suo grillo parlante, il  neokantismo universitario arrogantemente “post-metafisico”.
Poveri noi! 


L.T. Dalle precedenti considerazioni emerge chiaramente che è in atto attualmente un processo di progressiva estraniazione del capitalismo dalla realtà storica presente. Il capitalismo globale, che ha la sua espressione politica originaria nella superpotenza statunitense, si afferma come uno stato di fatto compiuto in se stesso: è un fenomeno imposto dalla sua logica di dominio economica e politica incontrastata. La sua fuoriuscita dalla storia è delineata dalla progressiva smaterializzazione dell’economia stessa: al declino dell’economia produttiva fa riscontro l’avvento della finanza virtuale, al potere derivante dal possesso dei mezzi di produzione si è sostituito il potere sulla conoscenza e sull’informazione. In una società dominata da rapporti sociali improntati alla logica economicista del mercato, si può constatare solo l’assenza di ogni forma di progettualità che implichi trasformazioni politiche e nuovi e diversi modelli di sviluppo. Le stesse crisi economiche non possono essere superate da un capitalismo ormai incapace di progettualità ed evoluzione: esso non è in grado di mettere in dubbio sé stesso e i propri dogmi economici e politici. La storia non può essere ridotta ad un divenire interno alle strategie economiche. Paradossalmente, il concetto di “fine della storia” espresso da Fukujama rivelerebbe una sua credibilità, se riferito al fenomeno capitalista del XXI° secolo, data la sua incapacità di ulteriori evoluzioni. In tale contesto viene meno la stessa concezione del progresso, che è stata l’idea trainante dello sviluppo capitalista. Costatiamo dunque come il fenomeno capitalista abbia condotto alla completa oggettivazione dell’uomo nei processi economici, in una fase storica in cui la logica dello scambio ha prodotto un tipo umano espropriato della coscienza di sé stesso e del senso della sua esistenza nel divenire storico. In questo processo di alienazione globale dell’uomo nell’oggettività immanente, possiamo dunque scorgere i sintomi di una crisi sistemica involutiva del fenomeno capitalista, che, spogliandosi di ogni contenuto umanistico, è giunto probabilmente alla fase terminale della sua parabola epocale.

C.P. Vorrei partire dalla formulazione con cui tu concludi la tua quarta ed ultima domanda, per cui “il fenomeno capitalistico, spogliandosi di ogni contenuto umanistico, è giunto probabilmente alla fase terminale della sua parabola epocale”. Questa mia quarta risposta sarà allora uno sviluppo dialogico di questa tua affermazione.
In primo luogo, bisogna capire se si tratta di un auspicio, oppure di una diagnosi, o detto altrimenti di un auspicio soggettivo o di una diagnosi oggettiva. Entrambe le cose, ovviamente, ma è comunque bene disarticolare la formulazione.
Se si tratta di un auspicio soggettivo, lo condivido interamente, e la nostra differenziata provenienza ideologico-politica mostra alla luce del giorno che oggi (2010) la dicotomia Destra/Sinistra è una pura semplice protesi di manipolazione politica volta a rinfocolare identità ed appartenenze ormai più tribali che politiche in senso greco-classico, mentre il solo fattore che conta è l’approdo culturale ad un comune giudizio critico sul capitalismo neoliberale globalizzato di oggi. Apprezzo anche il tuo riferimento ai valori umanistici. Ho messo infatti molto tempo (forse troppo) per capire che la critica strutturalistica all’umanesimo, in parte giustificata sul piano strettamente epistemologico, era però totalmente fuori bersaglio sul piano filosofico. Io mi considero oggi un umanista filosofico, e credo di esserlo tanto più quanto più ho metabolizzato interamente le tesi dell’anti-umanesimo filosofico, che ho conosciuto in gioventù al livello più alto di sistematizzazione (Heidegger, Althusser, Foucault, ecc.). La consuetudine amicale con persone come te e come Luca Grecchi mi ha molto aiutato, e non vi sarò mai grato abbastanza.
Siamo però sempre a livello dell’auspicio, non ancora di una diagnosi e di una prognosi. Dal momento che verso il capitalismo ho un approccio dialettico, considerandolo in termini di unità di emancipazione e di alienazione, il problema si riduce allora a diagnosticare quando gli aspetti emancipativi si riducono fino ad annullarsi e quando gli aspetti alienanti diventano dominanti. Ho già rilevato in una precedente risposta, ed ora lo ribadisco con forza, che oggi gli aspetti alienanti sono passati in primo piano, sia verso gli equilibri ambientali del pianeta sia verso la stessa conservazione degli elementi minimi della tradizione culturale, artistica e religiosa dei popoli e degli individui. E dunque, se si parla di auspicio, sono diventato un anticapitalista radicale, e tanto più radicale quanto più mi sono liberato degli elementi del positivismo scientifico della vecchia sinistra e degli elementi dell’individualismo anomico ed anarchico della nuova sinistra.
Passiamo invece alla prognosi. Già nella precedente terza risposta ho fatto notare che il futuro è assolutamente imprevedibile, e che l’ipotesi della sua prevedibilità è stata costruita sulla base erronea dell’assimilazione dello spazio-tempo storico allo spazio-tempo fisico, per cui da questa inesistente omogeneità era estrapolata la pretesa della prevedibilità degli eventi futuri pensati come eventi naturali. Gran parte del marxismo (se non tutto) è da mettere agli archivi, perché in esso l’anticapitalismo morale è fondato sulla previsione scientifica degli esiti socialisti, comunisti o almeno comunitari del capitalismo. Non è così, ed è meglio smettere di perdere tempo per farsi “accreditare” da parte di chi pensa in questo modo. In fondo, nessun astronomo serio perderebbe tempo a farsi accreditare presso sostenitori del geocentrismo o della terra piatta. Da studioso della storia del marxismo, mi sono inevitabilmente occupato della teoria del cosiddetto “crollo del capitalismo”, teoria infinitamente più debole di tutte le cosmologie Maya. Non voglio in proposito proporre un paragone fra gli economisti neoliberali ed i teologi bizantini, perchè rispetto troppo i teologi bizantini per offenderli con questa comparazione.
Cerchiamo di impostare correttamente il problema, partendo con il piede giusto. Si tratta di distinguere a proposito del capitalismo fra livello logico (più esattamente, logico-ontologico) e livello storico (più esattamente, storico-economico). I due livelli non si sovrappongono, e la loro eventuale errata sovrapposizione da luogo appunto a quella costellazione chiamata “storicismo”, il cui raddoppiamento inevitabile è allora l’economicismo (la storia del futuro, infatti, viene “prevista” in base alle estrapolazioni delle tendenze prevedibili delle quantità economiche). In termini più semplici e comprensibili, bisogna distinguere fra periodizzazione logica e periodizzazione storica del capitalismo, e comprendere che la periodizzazione logica non si sovrappone alla periodizzazione storica. Ma cerchiamo di scendere brevemente nel merito.
A proposito della periodizzazione logica del capitalismo, credo che l’approccio più utile, fecondo e ricco di effetti secondari di conoscenza sia quella dialettica ricavata dalla logica di Hegel, per cui il capitalismo si sviluppa secondo un ritmo triadico da una prima fase “astratta” ad una seconda fase “dialettica” ad una terza fase “speculativa”. Non ho qui purtroppo lo spazio sufficiente per dettagliare in modo articolato questa periodizzazione, ma l’ho fatto altrove con dovizia di argomentazioni storiche e filosofiche. I manuali di storia e di storia della filosofia non ci aiutano per nulla in questa comprensione, pur essendo ovviamente ricchi di informazioni e di dettagli, e bisogna quindi integralmente riscriverli dalle fondamenta. Così come sono sono infatti inutilizzabili, e non permettono quel riorientamento gestaltico che fa da premessa indispensabile per la ricostruzione di una catena metafisica alternativa del passato, sia storico che filosofico. Per ora basti dire che in questa mia periodizzazione logica del capitalismo sono arrivato alla (sempre fallibile e rivedibile, in presenza di argomenti consistenti) conclusione per cui abbiamo da poco superato a livello mondiale la fase dialettica del capitalismo (caratterizzata da dicotomie come Progresso/Conservazione, Destra/Sinistra, Fascismo/Antifascismo, Comunismo/Anticomunismo, Laicismo/Religione, Occidente/Oriente, ecc.), e siamo entrati in una incipiente fase speculativa, in cui ormai il capitalismo frammenta l’intero genere umano in pulviscolo di atomi di consumo sradicati da ogni identità che non sia l’accesso a consumo stesso, e quindi la merce pura si specchia ormai in uno specchio (speculum). Alla luce di questa periodizzazione logica il capitalismo è effettivamente ormai giunto al suo “ultimo stadio”, perché logicamente non è ipotizzabile nessun suo stadio ulteriore.
Ma, attenzione, la periodizzazione logica non coincide, e quindi non deve essere sovrapposta, alla sua periodizzazione storica. La periodizzazione storica non consente infatti ultimi stadi di nessun tipo, in quanto la storia si svolge in modo del tutto imprevedibile, anche se è un errore ribattezzare questa imprevedibilità in termini di “aleatorietà”, secondo la moda catastrofica dell’ultimo althusserismo (in proposito La Grassa ha scritto nero su bianco che a questo punto l’avvento del comunismo è assimilabile nella sua aleatorietà alla caduta di un meteorite). Chi ha un pensiero dialettico (e quindi, non certo gli althusseriani) non deve stupirsi: l’aleatorietà è sempre e dovunque il grado supremo del determinismo, e l’esito obbligato di ogni tentativo di previsione necessaristica del futuro storico.
La periodizzazione storica, quindi, non segue nessuna logica triadica (astratto-dialettico-speculativo), e nello stesso tempo non è il regno dell’arbitrio e della casualità assoluta. In questo senso, La Grassa ha le sue ragioni nel parlare di ricorsività storica, anche se ovviamente nessun “ricorso” è mai eguale al “ricorso” precedente. Se ci si limita infatti alla riproposizione della benemerita teoria di Vico dei corsi e dei ricorsi storici si può cadere in quel fatale errore che definirò in termini di “incantesimo dell’analogia”. Marx, ad esempio, sulla base proprio dell’incantesimo dell’analogia partì dalla palese incapacità delle classi feudali europee  a sviluppare le forze produttive e ne dedusse che anche la borghesia capitalistica sarebbe incorsa in questa analoga incapacità. Ma si trattò di un errore, proprio sulla base dell’incantesimo dell’analogia. Il capitalismo è invece capacissimo di sviluppare le forze produttive in modo infinito ed indeterminato (l’apeiron di Anassimandro), non ha razionalità (logos), non ha misura (metron), non ha freno (katechon), e per questa ragione l’antica filosofia greca è oggi mille volte potenzialmente più anticapitalistica di cento e cinquanta anni di cosiddetto “marxismo”, un positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana che ha come suo povero fondamento metafisico un’ideologia del progresso illimitato estrapolata dal perfezionamento potenzialmente illimitato degli strumenti di misura.
In che modo può allora articolarsi la periodizzazione storica del capitalismo sulla sua inevitabile periodizzazione logica? Qui sta il problema, dal momento che esse non possono essere come la res cogitans e la res extensa in Cartesio, che non hanno alcun punto di tangenza e che solo Dio può unire e connettere. È questo il problema fondamentale per una teoria del capitalismo oggi. Io ritengo di averla correttamente impostata, ma non sono tanto presuntuoso da pensare di averla risolta. Ma la risoluzione verrà da uno sforzo collettivo e comune, di cui (il futuro è imprevedibile) non possiamo avere conoscenza, tantomeno “scientifica”. E tuttavia, non partiamo da zero.

martedì 26 ottobre 2010

Dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi 
 


della Redazione



Venerdì 22 Ottobre, nella sala del sindacato Failea-Falcev, il laboratorio Comunismo e Comunità ha dato spazio ad una lezione del compagno logico-matematico nonché studioso di economia marxiana Piero Pagliani. Si è trattato di un’interessante sintesi di suoi recenti studi sull’economia capitalistica basati sulla rielaborazione, influenzata in diversi punti dalla critica di Costanzo Preve, di lavori che oltre a quelli di Marx vanno dalle analisi sui cicli sistemici di accumulazione e sulle diverse forme di imperialismo di Giovanni Arrighi, con cui Pagliani aveva militato a Milano negli anni Settanta e al quale riconosce il proprio fondamentale debito intellettuale, fino a David Harvey passando per gli studi di Karl Polanyi, di Marcello De Cecco e per quelli di Michael Hudson. Una rielaborazione che confluirà ben presto in un libro (il terzo di carattere politico, dopo “Alla conquista del cuore della Terra”, Punto Rosso 2003 e “Naxalbari-India. La rivolta nella futura terza potenza mondiale”, Mimesis, 2007) .

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=1778

domenica 24 ottobre 2010

Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx





 Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp.320

Intervista di Giovanni Perazzoli a Roberto Finelli in occasione della pubblicazione del libro:


1) Uno degli scopi del suo libro è quello d’infrangere, se non di rovesciare, una linea di continuità e di progresso filosofico che una certa storiografia ha sempre visto nel rapporto Hegel-Feuerbach-Marx, quale un nesso di pensiero che dall’idealismo maturerebbe verso il materialismo. Da dove nasce la diversa lettura che lei propone? Qual è il motivo di fondo che giustifica la critica di una storiografia filosofica e politica, che sembrava ormai lungamente consolidata?

L’iconografia teorica ufficiale dei Partiti comunisti si è sempre ritrovata e rassicurata nell’immagine di un cammino progressivo della verità dall’idealismo dialettico di Hegel al materialismo dialettico e storico di Marx e di Engels. A partire dall’autorappresentazione e dell’autolegittimazione che di quella vicenda teorica già alla fine dell’800 aveva fornito lo stesso Engels. Dato che è stato certamente Engels, e non Marx – alla sorta di quanto fece Paolo con il cristianesimo – ad essere il vero e proprio fondatore del marxismo quale corpo dottrinario organico, che potesse valere, nell’estensione generale della dialettica a legge generale della realtà e della storia, come “credo” e canone per l’azione pratico-concreta dei comunisti nella lotta sociale e politica. Come testo più celebre di Engels a tal riguardo penso ovviamente al Ludwig Feuerbach und der Ausgang del klassischen deutschen Philosophie, nel quale appunto, com’è noto, si diceva che, se con la dialettica di Hegel la filosofia moderna aveva raggiunto il suo grado maggiore possibile di verità, solo con il materialismo antropologico di Feuerbach, prima, e poi definitivamente con il materialismo storico di Marx si era usciti, approfondendo ed elaborando l’ispirazione dialettica dell’hegelismo, dalla filosofia come teoria contemplativa e si era giunti ad una filosofia come immediatamente risolta nella prassi della trasformazione-rivoluzione sociale. Secondo tale canone dottrinario Hegel, pur dando vita alla dialettica moderna, avrebbe con l’Idea negato e annichilito la natura e il mondo concreto, facendone solo emanazione ed incarnazione dello Spirito; Feuerbach, rovesciando Hegel, avrebbe fatto invece della materia e della natura il fondamento d’ogni cosa, concependo l’attività spirituale solo come un derivato da quella sensibile; e infine Marx ed Engels avrebbero tradotto il materialismo, ancora solo naturalistico e genericamente umano, di Feuerbach nel materialismo pienamente storico, fondato sulla centralità del lavoro e della prassi quale principio base di ogni forma di vita umana e di ogni tipo di organizzazione sociale: prassi lavorativa da spiegarsi appunto nel suo statuto intrinsecamente contraddittorio con la teoria dialettica dell’opposizione e della contraddizione. Questa cronologia iconografica, partorita da Engels, ha caratterizzato sostanzialmente senza eccezioni (forse solo per il marxismo fortemente idealistico e antinaturalistico di Gramsci), il marxismo così della II come della III Internazionale, per essere poi codificata e ulteriormente imbalsamata con il marxismo sovietico. Quanto ad es. Togliatti sia stato culturalmente e ideologicamente subalterno rispetto a tale tradizione è appunto confermato dalla cornice obbligata che egli ha assegnato a tutto il marxismo italiano, nel verso di una continuità, che sul piano della filosofia classica tedesca vede appunto la triade Hegel-Feuerbach-Marx, e sul piano della cultura nazionale vede un’analoga progressione dall’hegelismo di De Sanctis e Spaventa, attraverso lo storicismo di Croce, fino alla filosofia della prassi di Gramsci.
Con il parricidio mancato io ho voluto mettere in discussione questa linearità storicistica, finalizzata al culto dell’eroe (nel caso in questione Marx, il quale fin dalla sua giovinezza, secondo la liturgia comunista, non poteva non essere nella verità e non essere perciò ulteriore sia ad Hegel che a Feuerbach) e argomentare che l’antropologia che mette in campo il giovane Marx per criticare e uccidere il padre Hegel è assai meno ricca e articolata di quella hegeliana e che in effetti Marx prende la scorciatoia, che gli offre l’umanesimo di Feuerbach, per interessi troppo frettolosamente pratici: quali un abbandono assai sbrigativo della filosofia e un passaggio precipitoso a una prassi politica che pretende di configurarsi come rovesciamento totale e palingenetico dell’intero assetto storico-sociale. Per dire cioè che il materialismo del primo Marx (inclusa la concezione materialistica della storia depositata nelle pagine dell’Ideologia tedesca) nasce da una negazione troppo facile di uno Hegel, peraltro schematicamente ridotto all’icona di uno spiritualismo trascendente e metastorico. Con la conseguenza che il concetto marxiano di praxis, in questo rovesciamento troppo frettoloso di ogni istanza spirituale, rimane paradossalmente legato a ciò che nega. E così, a ben vedere, implica una dimensione di onnipotenza spiritualistica, che si fa creatrice, in una visione prometeica del lavoro e dello sviluppo delle forze produttive, dell’intera realtà.
Salvo poi, tale assolutizzazione della praxis umana in quanto lavoro – nella sua negazione radicale della funzione di ogni idealità nella costruzione della società e della storia – a non poter giustificare la medesima teoria del materialismo storico, la quale, o è falsa, in quanto teoria e come tale lontana dall’unica verità costituita dalla prassi, o è vera, ma come tale contraddicente lo stesso materialismo storico, che non ammette la verità di alcuna teoria, sempre ridotta e dequalificata a ideologia..

Segue: http://www.semperfil.it/?page_id=86

sabato 23 ottobre 2010

 
Lenin: un genio rivoluzionario





Ho paura che una corona sulla sua testa

possa nascondere la sua fronte

così umana e geniale,

così vera. Sì, io temo

che processioni e mausolei,

con la regola fissa dell'ammirazione,

offuschino d'aciduli incensi

la semplicità di Lenin; io temo,

come si teme per la pupilla degli occhi,

ch'egli venga falsato

dalle soavi bellezze dell'ideale.
 

V. Maiakovsky 


                                                          di Giancarlo Paciello




Parte prima





1. Il destino dei grandi




Se è scontato (ed opportuno) che si discuta il pensiero e l'operato dei grandi del passato, non dovrebbe essere altrettanto scontato (ed opportuno) che ci si accanisca contro di loro, criminalizzandoli, quando il loro pensiero e la loro azione sono in contrasto con il nostro modo di vedere di oggi o, peggio ancora, per pura strumentalità. Succede soprattutto ai rivoluzionari, in verità, ma anche a filosofi eccezionali, come Hegel ad esempio. E così, nell'ottantesimo anniversario della morte, è toccato a Lenin, un genio della politica come vedremo, essere vilipeso e caricato di una montagna di responsabilità da coloro che, sotto la sapiente (!?) guida di Silvio Berlusconi o forse sarebbe meglio dire del mondo del politicamente corretto, operano con tenacia alla criminalizzazione del comunismo. Operazione, a dire il vero, cominciata ben prima dell'arrivo del cavaliere alla ricerca del comunismo inesistente.



Eppure l'esperienza storica del comunismo (1917-1991), consumatasi nell'arco del secolo breve, secondo la felice definizione di Hobsbawn, ha inizio a sette anni dalla morte di Lenin, che dunque ha potuto poco, quale che fosse la sua diabolica influenza, sulla evoluzione complessiva dell'esperienza comunista.



Certamente Lenin contribuì, con la sua genialità, a trasformare una guerra imperialista, un massacro immondo, che rimane ancora privo di diaboliche responsabilità, in una rivoluzione, la Rivoluzione d'ottobre, contro un potere oppressivo, quello degli zar, in una Russia dalla quale, chi poteva, fuggiva. Tanto per fare un esempio scelto a caso, più di un milione di ebrei emigrò dalla Russia, negli anni che vanno appunto dal 1882 al 1914, per la quasi totalità negli Stati Uniti, oltre che, in minima parte, in Palestina.



Non è mia intenzione polemizzare con i "maestri" di storia dei nostri quotidiani, che si sono accaniti con Lenin, né con le assai prudenti e ahimè modeste risposte che a costoro sono state date sulle pagine di Liberazione, quanto piuttosto ripercorrere, da ammirato estimatore, il percorso seguito da Vladimir Iljic Uljanov nella sua breve quanto emozionante vita di rivoluzionario. Ripeto, del riferimento a questa criminalizzazione mi sono servito soltanto per un incipit di totale presa di distanza dal modo di concepire una rievocazione e soprattutto la Storia.



E, visto che mi è scappata la maiuscola, è opportuno indicare a chi mi sono ispirato, derubandolo spesso anche nella formulazione del testo. Si tratta dello storico e filosofo Massimo Bontempelli, del quale non mi stancherò mai di elogiare le capacità, anche narrative.



In particolare, mi riferisco a quel prezioso libro "Il respiro del Novecento, Percorso di storia del XX secolo" uscito nel 2003 per i tipi della C.R.T. di Pistoia. Un libro scritto per coloro che amano la storia, per coloro che si occupano di politica e vogliono farlo in modo storicamente consapevole e soprattutto per gli studenti. La società in cui viviamo è una società interamente dominata dal mercato e continuamente riplasmata dai suoi automatismi, e non ha più riferimenti che la preservino da mutamenti umanamente devastanti. Perciò la nostra società, i giovani soprattutto, hanno bisogno di un'educazione all'autonomia di pensiero e al valore della personalità spirituale dell'uomo. Ed è proprio la conoscenza storica, in quanto conoscenza particolarmente in grado di far emergere possibilità antropologiche cancellate dall'attuale sviluppo sociale, ma custodite nella memoria del passato, che può favorire tutto questo.



Riconciliatomi con un orizzonte di senso molto significativo, affronto questo lavoro che, da solo, non avrei nemmeno osato pensare di cominciare, e del quale però mi assumo totalmente la responsabilità.




Ma chi è dunque?

Quali gesta ha compiuto?

Di dove viene quest'uomo

di ogni uomo più umano?


Segue: http://comunitarismo.it/lenin_genio.htm

venerdì 22 ottobre 2010

Dopo il neoliberismo. 

Il nuovo ruolo del Sud 

del mondo

 

di Giovanni Arrighi e Lu Zhang

 

[Un'anticipazione dal cap. 5 di Capitalismo e (dis)ordine mondiale, raccolta degli scritti di Giovanni Arrighi a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, in uscita presso Manifestolibri]

Questo capitolo analizza quel che si può chiamare la “strana morte” del Washington consensus, con particolare riferimento al rafforzamento economico della Cina e a un cambiamento fondamentale nelle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo1. Ciò che è “strano” riguardo questa morte è che essa sia avvenuta in un momento in cui le dottrine neoliberiste promosse dal consensus godono di un’autorità apparentemente incontrastata. Proprio per questa ragione, questa morte è stata poco notata, e le sue cause e conseguenze rimangono avvolte in una gran confusione.

Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politica mondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da Walden Bello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, il modello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno più fiducia in esso”. Inoltre, nuove dottrine stanno emergendo, principalmente nel Nord del mondo, che tentano di rianimare aspetti del vecchio consensus in forme più realistiche ed accettabili2. La nostra analisi non esclude né la residuale influenza del neoliberismo, come modello “standard”, né la possibilità di una sua rinascita in forme nuove. Semplicemente essa evidenzia che la contro-rivoluzione neoliberista dei primi anni Ottanta, della quale il Washington consensus è stato parte essenziale, ha fallito, creando le condizioni per un’inversione delle relazioni di potere tra il Nord e il Sud del mondo che sta già cambiando sia la politica mondiale che la teoria e la pratica dello sviluppo nazionale.

Inizieremo con lo schematizzare le origini e gli obiettivi della svolta, o contro-rivoluzione, neoliberista del 1979-82 nelle politiche e nell’ideologia statunitense. Dopo aver sottolineato l’impatto della svolta neoliberista nelle relazioni Nord-Sud, focalizzeremo l’attenzione sull’ascesa economica della Cina, quale sua conseguenza imprevista più importante, profondamente radicata nelle tradizioni cinesi, compresa quella rivoluzionaria dell’era di Mao. Concluderemo indicando l’impatto dell’ascesa cinese sulle relazioni Nord-Sud, con particolare riferimento al possibile emergere di una nuova alleanza fra i paesi del Sud su fondamenta più solide di quella stabilita a Bandung negli anni Cinquanta, e considerando le sfide e opportunità che l’attuale crisi economica crea per la Cina e altri paesi in via di sviluppo.

Segue: http://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/1057-arrighi-e-lu-zhang-dopo-il-neoliberismo-il-nuovo-ruolo-del-sud-del-mondo

mercoledì 20 ottobre 2010

Conferenza teorica “Dalla crisi del marxismo  

al marxismo della crisi”

 
Conferenza sul tema “Dalla crisi del marxismo al marxismo della crisi”

Relatore: Piero Pagliani

Venerdì 22 ottobre 2010, ore 18.00

Nella sede sindacale Failea-Falcev di via di Pietralata, 394
(fermata Pietralata metro B)

Ai partecipanti sarà consegnata una dispensa

Organizza la rivista “Comunismo e Comunità”

Locandina: http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2010/10/locandina.pdf

lunedì 18 ottobre 2010


D. Sacchetto M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria.  
Politica e lavoro nel mercato mondiale. Ed. Ombre Corte (euro 18,00)

  Nell'epicentro della lotta di classe


 
di Andrea Fumagalli

Tutte le volte che il mondo attraversa una crisi sistemica di forte intensità non ascrivibile a disfunzioni congiunturali, viene riscoperto Karl Marx, uno che le crisi le analizzava bene. "La lunga accumulazione originaria" (Ombre Corte, 18 euro) curato da Massimiliano Tomba e Devi Sacchetto (entrambi docenti dell'Università di Padova) riparte proprio da una rilettura del pensiero di Marx e dal recupero di quelle categorie che molti autori marxisti ritengono imprescindibili per leggere l'odierna attualità economica. Nella prefazione dei due autori si legge infatti: "L'attenzione (...) è rivolta all'accumulazione originaria da intendersi non come fase storica di transizione, quanto piuttosto come condizione costitutiva dei rapporti sociali che quotidianamente si esprimono. Abbiamo quindi parlato di accumulazione originaria perché se, da un lato, la cosiddetta accumulazione originaria non è confinabile alla solo protostoria del modo di produzione capitalistico, dall'altro occorre mettere in evidenza i caratteri di novità dell'odierno ciclo di accumulazione".
L'intento del volume è di rimettere al centro l'interpretazione secondo cui il sistema capitalistico si basa su un processo di espropriazione violenta (una sorta di continua accumulazione originaria, appunto) insito nel rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. L'essenza dell'espropriazione non si modifica e non è quindi soggetta a fasi di "transizione", anche se cambia forma in seguito all'evoluzione sociale, politica e tecnologica.
Che il sistema capitalistico si fondi sulla rigenerazione continua del processo di espropriazione è opinione condivisa e radicata nei vari marxismi. Essa, ad esempio, è ben presente nella voce sull'accumulazione originaria scritta da Sandro Mezzadra per il testo "Lessico marxiano". Le divergenze interpretative nascono, semmai, sull'analisi della dinamica di tale espropriazione. Uno dei punti nodali riguarda il passaggio dalla "sussunzione formale" alla "sussunzione reale" del lavoro al capitale, che ha inizio con l'accumulazione originaria - la quale ci conduce nel capitalismo vero e proprio. Come scrive lo stesso Marx la fase dell'accumulazione originaria è caratterizzata dall'estrazione di "plusvalore assoluto" (ovvero di un plusvalore ottenuto con la continua estensione della giornata lavorativa). E' la fase in cui "il modo di produzione capitalistico non ha ancora carattere specificatamente capitalistico": la prestazione lavorativa, pur soggetta a dominio e sfruttamento, non è stata ancora direttamente organizzata dal capitale attraverso la sua trasformazione in lavoro salariato. Il passaggio alla "sussunzione" reale, e quindi alla prevalente estrazione di "plusvalore relativo" - tramite l'ammodernamento delle tecniche (variazione della composizione organica del capitale) e con il crescere dell'intensità di sfruttamento (saggio di sfruttamento) - rappresenta il moderno sistema di produzione e di organizzazione capitalistica.
L'analisi del rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale viene oggi rivisitato alla luce dei processi di globalizzazione che hanno interessato l'economia mondiale negli ultimi tre decenni. I contributi del testo curato da Sacchetto e Tomba "si interrogano (...)sul significato di mercato mondiale e sulle categorie necessarie a comprenderne i mutamenti" (p. 9). Essi riaffermano la centralità del rapporto capitale-lavoro come luogo dove cogliere che le condizioni di lavoro presentano le caratteristiche dell'estrazione di plusvalore assoluto. Secondo gli autori, il Marx de Il Capitale torna così ad essere lo strumento concettuale più adeguato alla comprensione del sistema capitalistico, mentre i Grundrisse svolgono un ruolo preparatorio alla stesura de Il Capitale, a dispetto di chi (come i neo-operaisti) ritiene i Grundrisse un'opera compiuta e autonoma e anche più idonea alla comprensione "marxiana" dell'oggi.
E' questo in ultima analisi lo scopo del volume. Soprattutto nel saggio di Bellofiore si dà una lettura dei Grundrisse a partire da quella de Il Capitale. L'intento - oltre alla critica delle analisi dell'operaismo teorico italiano di Tronti e Negri - è quello di evidenziare come non esistano due Marx (quello de Il Capitale e quello dei Grundrisse), ma una sola continuità teorica che parte sin dai Manoscritti Storico-filosofici del 1844 e che va a Il Capitale per poi tornare a ritroso ai Grundrisse. Viene così negata la distinzione tra un Marx più "teorico-analitico" teso a cogliere le tendenze principali dell'evoluzione delle forme capitalistiche di produzione (Grundrisse) e un Marx più "politico" teso ad analizzare la struttura del capitalismo così come si presentava ai suoi occhi con lo scopo di coglierne le contraddizioni interne e quindi operare sul piano dell'azione politica (Il Capitale).
Nel saggio di Caffentzis, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ad esempio, viene analizzata alla luce della dinamica della composizione organica del capitale, che si riduce nei settori non investiti in pieno dal progresso tecnologico o nelle aree di più recente industrializzazione - a minor contenuto tecnologico. Ciò non comporta il crollo del sistema capitalistico o il suo superamento grazie al poderoso sviluppo della scienza e del general intellect come profetizzato da Marx nei Grundrisse.
I contributi di Basso e Finelli pongono l'accento sulle peculiarità del modo di produzione capitalistica come sistema sociale nel quale l'individuo (la sua soggettività, diremmo noi) diventa soggetto che si definisce nel suo antagonismo al capitale. Finelli, inoltre, vede nel Marx dei Grundrisse il limite di una filosofia della storia che evidenzia fasi progressive come costituenti il percorso della storia. A simili conclusioni arrivano anche Bonefeld e Tomba. Il primo sostiene la tesi che il sistema capitalista può essere inteso come una perenne "accumulazione originaria". Di conseguenza, come sostiene anche Tomba nel suo saggio, non è possibile una concezione lineare e progressiva della storia, ma, piuttosto, una dialettica che ripropone fasi alterne che si rincorrono a seconda della combinazione di plusvalore assoluto e relativo.
De Angelis analizza la crisi dei subprime e la crisi economico-finanziaria globale come un meccanismo che tende a due obiettivi, sui quali concordiamo: da un lato, il controllo del lavoro vivo nelle sua più moderne forme, dall'altro, la necessità di imporre nuovi patti sociali in grado di delimitare il grado di conflittualità che la situazione di crisi rischia di far emergere. Il riferimento all'esperienza del New Deal è palese. Rimane aperta tuttavia la questione se oggi vi siano le condizioni per la definizione di un nuovo patto sociale adeguato ai nuovi processi di accumulazione. Ancora più concreto è il saggio di Sacchetto che analizza i processi di organizzazione e ristrutturazione della produzione nei Paesi dell'Est Europa. Forte di un'attività di ricerca sul campo che è unica nel suo genere, Sacchetto evidenzia come il tentativo di fare di alcuni paesi orientali una sorta di enclave produttiva sul modello delle zone di libera esportazione di tradizione cinese incontri non poche difficoltà nell'opposizione delle soggettività operaie che ivi emergono e si organizzano.
Il piano dell'organizzazione - o meglio dell'autorganizzazione - rappresenta il leit motiv degli ultimi due saggi del libro, quello di Goldner sulle lotte operaie in Corea del Sud e di Silver e Lu Zhang sulla dinamica produttiva della Cina. I due saggi sono accomunati dalla constatazione del fallimento del tentativo di politiche di dumping salariale a danno dei lavoratori di questi due Paesi. Se le lotte degli operai coreani sono sufficientemente note, il caso della Cina riveste particolare interesse, nel momento stesso in cui, secondo Silver e Lu Zhang, il grande paese asiatico sta diventando l'epicentro della nuova lotta di classe, "smentendo così le teorie dello scivolamento verso il fondo delle condizioni di lavoro a livello internazionale". Questa conclusione è particolarmente interessante. Essa ci dice che la storia solo apparentemente si ripete. Nella sostanza del conflitto sociale e delle soggettività, mai.


 

domenica 17 ottobre 2010

Karl Marx, un contemporaneo
 
di Vladimiro Giacchè
 
 



Ironie della storia. Mentre in Germania viene festeggiato il 20° anniversario della fine della Repubblica Democratica Tedesca, si assiste ovunque a un grande risveglio di interesse nei confronti di quello che ne fu (inconsapevolmente) il filosofo ufficiale: Karl Marx. Soltanto in Italia da giugno ad oggi sono uscite due biografie: la traduzione del testo di Francis Wheen (Karl Marx. Una vita, Isbn edizioni, p. 400) e il volume di Nicolao Merker Karl Marx. Vita e opere (Laterza, pp. 261). Se il primo testo è avvincente, il secondo riesce a fare il miracolo: ossia a darci una panoramica completa della vita di Marx e delle linee di fondo del suo pensiero.
Merker inizia ricordando che “il pensiero di Marx sta nei suoi scritti”. Non si tratta di una banalità, ma di una doverosa cautela, visto l’uso a dir poco disinvolto che spesso si è fatto del pensiero di Marx. I testi di Marx vanno letti e collocati nel loro contesto storico. Ma non per farne altrettanti “classici” da tenere sullo scaffale, bensì per capire cosa ci possono dire sull’oggi. Questo utilizzo è possibile in quanto la struttura economica della società in cui viviamo è ancora quella descritta da Marx. Anzi, per certi aspetti il mondo attuale è più vicino ai testi marxiani di quanto lo fosse la realtà dei suoi tempi: basti pensare alla “globalizzazione”, ossia alla creazione di un mercato mondiale.
Merker nella sua ricostruzione del pensiero di Marx non ha timore di andare controcorrente. Come quando denuncia “l’infatuazione per i Grundrisse che alcuni decenni addietro regnò nella letteratura su Marx”, insistendo invece sulla centralità del Capitale (tanto del primo libro, pubblicato da Marx nel 1867, quanto dei manoscritti che dopo la sua morte Engels pubblicò come secondo e terzo libro del Capitale nel 1885 e nel 1894). E soprattutto quando afferma l’importanza della “teoria del valore e del plusvalore”, che a suo giudizio “spiega tanto la dinamica del particolare modo di produzione capitalistico quanto gli elementi generali di ogni sistema produttivo”. La forza-lavoro umana, osserva Merker, “fornisce sempre con il suo pluslavoro un valore economico maggiore di quanto essa costa”; è infatti l’unica merce che possiede la caratteristica di creare nuovo valore (cosa di cui non è capace neppure la macchina più sofisticata,
che se non viene messa in opera dal lavoro umano non soltanto non crea nuovo valore, ma perde anche quello che possedeva). La peculiarità del sistema capitalistico consiste nel fatto che “i risultati del pluslavoro - cioè il plusprodotto e il corrispettivo plusvalore – non sono proprietà del soggetto che lavora. Questo carattere del capitalismo non viene modificato dal numero dei ‘colletti bianchi’ che sostituiscono le ‘tute blu’. Conserva il connotato che la proprietà e gestione dei mezzi di produzione non è proprietà e gestione sociale”.
Proprio da questo Marx fa derivare le crisi: esse sono infatti – ci spiega Merker – “conseguenza dell’antitesi, nell’economia di mercato, tra la produzione moderna a carattere sociale e l’appropriazione privata del profitto”. In questo modo ci viene offerta una chiave di lettura anche della crisi odierna molto diversa da quelle correnti. “A un certo punto il mercato non assorbe più tutte le merci che vengono offerte. Mancano gli acquirenti perché il sistema è caduto in un circolo vizioso: non appena le merci invendute affollano i magazzini, il capitalista riduce la produzione chiudendo fabbriche e licenziando operai, sicché a causa del diminuito potere d’acquisto dei consumatori la montagna dei beni invenduti continua a crescere e la crisi si avvita su se stessa. Alla fine il sistema la risolve soltanto a costo di enormi distruzioni di mezzi di produzione e di prodotti. Fabbriche smantellate, lavoratori disoccupati, beni di consumo
al macero e una crescente concentrazione di capitali perché i capitalisti deboli, rovinati, escono dal mercato: sono questi i fenomeni che accompagnano le crisi periodiche”. Le crisi sorgono insomma, come ci ricorda lo stesso Marx, perché nel sistema capitalistico “l’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma …in base al profitto e al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato”.
Secondo questo punto di vista, a differenza di quanto ci è stato ripetuto in questi anni, le crisi non rappresentano un incidente di percorso o una sciagurata eccezione all’interno di un sistema che per sua natura sarebbe in equilibrio, ma sono necessarie per correggere – attraverso la distruzione di forze produttive su larga scala – i profondi squilibri che inevitabilmente caratterizzano l’“anarchia della produzione”capitalistica.
Nelle ultime pagine del suo libro Merker si chiede quindi se quel “contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso” sia ineliminabile nella società umana. E osserva che “quest’istanza teorico-pratica, certamente non scaduta, viene dal Marx del Capitale, e attende risposte che funzionino nella prassi socio-politica”.
La più grande sfida dei nostri tempi è precisamente questa.

su il Fatto Quotidiano del 15/10/2010