domenica 27 marzo 2011

La privatizzazione della vita sociale



Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi con la vittoria dei SI alla strategia di ristrutturazione aziendale voluta da Marchionne, prelude a mutamenti sistemici dell’economia italiana in senso liberista. E’ dunque giunto al suo “naturale” compimento un processo di destrutturazione del modello di economia mista enunciato dalla carta costituzionale, che prevedeva il controllo, l’indirizzo e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’economia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende pubbliche, hanno fatto seguito le riforme strutturali della legislazione del lavoro, con l’introduzione di forme diversificate di lavoro precario, le riforme pensionistiche con l’allungamento della vita lavorativa, le limitazioni della tutela sindacale. La nuova strategia industriale inaugurata da Marchionne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a tutti i settori della produzione. La svolta “Marchionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria di adeguare l’economia italiana alla competitività dei mercati internazionali: pertanto essa comporta l’aggancio dei salari alla produttività, la compressione dei diritti sindacali e l’esclusione dalle trattative aziendali di quei sindacati che non accettino i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, oltre alla abrogazione, nei fatti, del contratto collettivo di lavoro. Il nuovo modello di sviluppo è quindi fondato sulla unilateralità del modo di produzione imposto dalla grande industria e dalle banche in relazione alle condizioni, in termini di produttività e competitività poste dal mercato globale. In realtà, quali che siano le prospettive di sviluppo della Fiat – Chrysler, certo è che l’economia italiana ed europea non potrà mai essere competitiva con quella cinese e/o asiatica, data la minima incidenza del costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai lavoratori europei. Si è comunque determinata una svolta epocale nei rapporti di produzione: è scomparsa la funzione di mediazione dello Stato nei rapporti tra le parti sociali (il governo ha peraltro sostenuto la strategia di Marchionne), si è svuotato di contenuto il ruolo dei sindacati, quale controparte rappresentativa dei lavoratori nelle trattative con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di Marchionne), si dissocia dalla propria associazione sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio contratto di lavoro. I costi sociali di tale trasformazione del modello economico, in termini di salario, tutela sindacale, occupazione, qualità della vita, sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre evidenziare come la ristrutturazione industriale imposta da Marchionne si realizzi nel contesto di una fase storica in cui si verifica nella società italiana una trasformazione sociale e culturale che potremmo definire “privatizzazione della vita sociale”. Infatti, nell’ambito della giustizia civile l’orientamento riformatore è quello di sviluppare la pattuizione privata, la conciliazione, un tipo di contrattualistica in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti. Nel campo penale, la depenalizzazione di molte fattispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggiamento, sono fenomeni di analoga ispirazione. Nello stesso diritto del lavoro tutta la legislazione sul lavoro precario e flessibile, è, nei fatti, sostitutiva dei principi della contrattazione collettiva, e della stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri settori (vedi il tessile), prima del “modello” Marchionne si sostituirà nel tempo la contrattazione privata individuale. Sta emergendo un processo riformatore in cui gli organi legislativi e giurisdizionali dello Stato vengono estraniati dalle loro funzioni istituzionali: il legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento dello Stato come fonte normativa primaria e devolvendo alla sfera privatistica la regolazione dei rapporti tra le parti sociali, il giudice è destinato asvolgere una funzione giurisdizionale limitata alla legittimità, estraniandosi cioè dal merito delle controversie tra i cittadini.

R. Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servire da bussola concettuale per una corretta ricostruzione storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica diventa impossibile opporvisi se non in modo puramente lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giornalisti e clero universitario parlino di “responsabilità sociale dell’impresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti, ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare un poco più in profondità.

In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma anche concettualmente inconcepibile. Questo non significa affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. E’ interessante che lo stesso termine latino privatus non alludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”, ma indicasse al contrario l’operazione di “priva- zione” dal godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus, che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato” volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico” alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes) non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo per uno spaesamento concettuale necessario per farci relativizzare i significati attuali dei termini, che sono storici e non “naturali”.

Il modello politico e sociale della polis greca classica era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, vedendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fusione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illimitata di valore, infatti, permette di incorporare integralmente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno del processo di alienazione, cioè di espropriazione integrale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.

Questo – val la pena ripeterlo senza stancarsi – non comporta assolutamente conclusioni ‘’nostalgiche” nei confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orientale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta individuazione della genesi storica della società caratterizzata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventata scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visibilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della natura del precedente illuminismo (Aufklärurng). Ciò che cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è appunto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista integralmente individualistico e privatistico dell’empirismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente.

Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco, e soltanto dopo, quello dell’empirismo inglese, in modo che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia maggiormente visibile. Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, degli esiti della critica illuministica appare già chiaro al primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese culturali Eugenio Scalfari), Fichte considera l’illuminismo in termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi ancora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile (e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legittimata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che invece caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazione (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire, perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, romaniche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria, aveva comportato uno stato di anomia individualistica, di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che Fichte definì in termini di “epoca della compiuta peccaminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione dell’ascetismo della morale in regno animale dello spirito”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di interpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte e di Hegel, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirittura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali e postmoderni.

Ci sono molti modi alternativi di esporre e di riassumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno comparativamente e contrastivamente migliore degli altri: Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mondo migliore la distinzione e nello stesso tempo la complementarietà convergente del Privato e del Pubblico, ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero – come può essere agevolmente dimostrato – partendo da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione della vita sociale. E’ utile ripercorrere sommariamente il suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti interamente legittimi.

Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto sociale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturalismo ed il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo. Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la nostra postuma ammirazione.

Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’origine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappone ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in termini di perdita e di successiva ricomposizione di un Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfondire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre una totalità organica originaria decaduta (Lucio Colletti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnaturalistiche astoriche. Hegel critica la teoria del contratto sociale per le stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto originario, ma all’origine la società si è costituita sulla base di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Privato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazione di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito biblico del peccato originale, radice unica di tutte le successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta Marx in termini di secolarizzatore utopico della escatologia giudaico-cristiana (ad esempio Löwith, ed oggi la stragrande maggioranza della filologia universitaria sia moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al contratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile) dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente Fine prefissato.

Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esattamente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico interviene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pedofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non può che avere un carattere pubblico. La stessa società civile fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento della professionalità e l’assistenza pubblica non possono essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo compassionevole”.

Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra (hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come minimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo privatizzatore. E’ invece utile esaminare la corrente dell’ empirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno.

Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’essenziale ereditata da Marx nella forma del superamento-conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da una tendenza di privatizzazione individualistica integrale del pubblico). L’origine sta forse in una particolare secolarizzazione del calvinismo, una forma di religione che tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologia dell’arricchimento privato come segnale della elezione divina. Ma già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico, sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo sociale per la divisione giusta ed armonica del potere e delle ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà privata è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico di progressiva privatizzazione di una precedente comunitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi “robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson Crusoè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisica di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione gnoseologica, è una metafora politica per la negazione di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David Hume, e nel suo particolare modo di respingere il contratto sociale che nelle concezioni del tempo era considerato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel (e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica della convivenza umana perchè considerava il contratto una istituzione puramente privatistica, non adatta a fondare concettualmente la società umana (rifiutando così la concezione della società umana come rete contrattuale di individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla socialità costituenti), Hume considera il

contratto sociale inutile, dal momento che la società si istituisce spontaneamente senza contratto sulla base delle attese di scambio reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accetterà integralmente questa autofondazione dell’economia su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione del primato dell’economia in dittatura totalitaria della crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia, capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono sostenere che la critica di Hume alla categoria di causalità non nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale accorgimento gnoseologico. In questo modo, la privatizzazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile primato del modello neoliberale di economia su tutti gli altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio dei mercati, eccetera).

E’ interessante che nell’ultima opera di Toni Negri, questo giocoliere che ricava il suo comunismo anarchico dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica, ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pubblico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune” attinto direttamente da individui onnipotenti animati da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalorizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti “intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’idealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un andamento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che resta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo), quanto da una più modesta sociologia degli intellet- tuali accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali commentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Obama e del modello neoliberale dì gestione “democratica” del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci costringono a sopportare impotenti questa dittatura della manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una congiuntura temporanea.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2317

mercoledì 23 marzo 2011

Contro l’interventismo “umanitario” bombardatore. Fuori l’Italia dalla guerra, no alle ingerenze imperialiste. Solidarietà alla Libia




Comunicato del laboratorio politico Comunismo e Comunità

Da ormai quattro giorni persiste l’attacco aereo contro la Libia ed i bombardamenti hanno già prodotto decine di morti e distrutto importanti infrastrutture del paese. L’aggressione, di pieno carattere neocoloniale e imperialistico, è stata avallata da un’opportunistica e ambigua risoluzione del consiglio di sicurezza dell’ONU approvata dalla maggioranza dei membri con l’astensione di Russia, Cina, India, Brasile e Germania. Tale risoluzione, partendo dalla declamata esigenza di creare una zona di interdizione aerea sui cieli libici, sta avallando di fatto (anche se formalmente non li prevede) i bombardamenti condotti dalla coalizione delle potenze imperialistiche “volenterose”: Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis con l’ausilio di altri paesi, tra cui l’Italia, che ha concesso le proprie basi militari ed inviato suoi aerei da combattimento.


Ancora una volta, con la scusa grottesca dell’intervento umanitario, i paesi occidentali violano militarmente un paese sovrano. La scusa questa volta è stata una ribellione di gruppi dissidenti interni alla Libia da sempre ostili a Gheddafi, circoscritti peraltro alla regione della Cirenaica. Una ribellione almeno in parte foraggiata fin dal principio con armi, denaro e appoggio logistico dagli stessi paesi oggi in prima fila nel lanciare bombe sulla Libia. Questa ribellione armata, che ha ovviamente anche le sue componenti endogene, è stata tuttavia presentata falsamente come rivolta popolare generalizzata, alla stregua delle rivolte popolari avvenute in Tunisia ed Egitto. Per giorni i media al fine di preparare l’opinione pubblica ad accettare la soluzione “inevitabile” dell’intervento armato hanno insistentemente descritto uno uno scenario inesistente: quello cioé di una massa inerme rivoltosa e di un regime spietato che bombarda la folla e il suo stesso popolo. Fonti numerose, analogamente a quanto accadde in Jugoslavia, hanno poi smentito molte delle immagini e dei racconti ad alto impatto emotivo che venivano riportati.


Lo scenario reale interno, va detto, non é di immediata e semplice comprensione e probabilmente sarà conoscibile pienamente quando gli eventi prenderanno una direzione più chiara. Tuttavia a grandi linee si può dire che vi sia stata ed è in corso una ribellione armata relativamente ristretta e territorialmente limitata, di cui non è affatto chiara la composizione sociale e che non ha mai esplicitato con chiarezza quali siano i suoi obiettivi politici (salvo il generico rovesciamento di Gheddafi) e i suoi riferimenti (salvo esporre a più riprese la bandiera della Libia monarchica e filo-coloniale del Re Idris, rievocando così il passato di avamposto dell’imperialismo). A tale ribellione armata il governo libico ha reagito duramente (se la reazione sia stata più o meno sproporzionata o totalmente fuori misura e criminale è assai difficile saperlo) . E’ cosa certa, tuttavia, che alle armi si è risposto con le armi e che, come sarebbe avvenuto in qualsiasi altro paese del mondo, un esercito armato ha risposto ad una ribellione armata. Negli ultimi giorni degli scontri tra truppe governative e ribelli, l’esercito aveva recuperato gran parte del territorio libico finito sotto il controllo dei rivoltosi e la situazione sembrava volgere al termine (vi era stata anche una proposta governativa di cessate il fuoco e amnistia generale per i ribelli). Nel frattempo i paesi sudamericani dell’ALBA avevano proposto una soluzione diplomatica di mediazione congiunta di tutti i paesi per favorire il cessate il fuoco.


Le potenze interventiste, consce del rischio di una situazione che andava normalizzandosi poco a poco), avevano fretta di entrare in scena, determinare per vie dirette la caduta del governo libico (evidentemente fallita tramite la ribellione) e spartirsi le ingenti risorse energetiche del paese strappandole prima di tutto ai libici e in secondo battuta alle potenze concorrenti (tra cui l’Italia) che usufruivano di contratti in loco. E così in fretta e furia, facendo leva sulla cosiddetta “legalità internazionale” si sono adoperati per scatenare quella che si configura contemporaneamente come una guerra di aggressione neo-coloniale e una guerra “mondiale” tra blocchi geopolitici e tra potenze, dove da un lato vi sono gli Stati Uniti e i loro accoliti francesi e inglesi (dove i francesi guidati dal cinico Sarkozy, ormai padre consolidato dell’occidentalismo di regime, appaiono come i più determinati ad assumere un ruolo di spicco); dall’altro vi sono altri paesi emersi come potenze sempre più insofferenti verso la volontà di egemonia (ormai solo politico-militare, non più economica) del blocco occidentale. In proposito va sottolineata l’apparente stranezza del mancato veto posto da Russia e Cina che dall’alto del loro ruolo, avrebbero potuto bloccare la risoluzione ONU. Probabilmente, alla luce delle nette dichiarazioni di indignazione dei due paesi all’indomani dell’attacco si è trattato di un atteggiamento guidato dalla paura che la guerra sarebbe stata ugualmente scatenata, ma sotto l’egida NATO (quindi totalmente fuori dal loro controllo). Da sottolineare lo scontro interno (di cui da tempo vi erano segni premonitori di difficile interpretazione) manifestatosi in Russia tra Putin (cha ha usato parole coraggiose e chiarissime) e Medvedev (che le ha ufficialmente respinte e ridotte a opinione personale del presidente).


L’Italia si trova a giocare la parte più paradossale, imperialistica e insieme servile verso nazioni terze, in quanto paese legato da propri interessi consolidati con la Libia nonché da un trattato di amicizia e reciproco rispetto sovrano, avvenuto con tanto di risarcimento dei crimini coloniali. Il nostro paese si è lasciato vilmente trascinare nella criminale avventura bellica fondamentalmente per due ragioni: 1- ha subito pesantissime pressioni esterne poiché le sue basi mediterranee erano la condizione per un comodo attacco non basato soltanto sul dispiegamento di portaerei in mare; 2- ha ceduto vigliaccamente alle pressioni non solo per paura di ritorsioni, ma anche per sperare di ottenere le briciole della spartizione coloniale della Libia posto che probabilmente la guerra sarebbe stata scatenata ugualmente. Un atteggiamento dunque della peggior specie: prepotente, imperialista e servile.


Il governo (con l’eccezione delle Lega) e l’opposizione (quest’ultima con maggior convinzione e protervia umanitaria), (fatta salva l’IdV) hanno votato a favore del coinvolgimento del paese nell’attacco. Di rilievo la posizione quasi fanatica espressa più volte dal nostro presidente della Repubblica prodigo nel ribadire l’importanza dell’intervento umanitario, legandolo tra l’altro sciaguratamente alla celebrazione dell’unità d’Italia, scatenando quella nazionalizzazione imperialistica delle masse (oggi umanitaristica, ieri razzista, ma ugualmente suprematista) che è il vero scivolamento ed effetto collaterale principale verso cui precipita il senso di appartenenza nazionale (di per sé elemento di forza e solidarismo) quando egemonizzato da forze sistemiche.


Il governo ha mostrato e mostra tutt’ora un evidente imbarazzo nella gestione della vicenda, proprio perché stretto tra i due fuochi dei suoi stessi interessi energetici e geopolitici e della paura di emergenza immigrati di vaste proporzioni, da un lato, e delle pressioni ricevute dalle potenze protagoniste dell’attacco nonché dalla volontà di spartirsi le briciole del paese neo-colonizzato, da un altro lato. Di qui le posizioni di attuale prudenza che però, malgrado le spinte leghiste, non si traducono al momento in nessuna significativa scelta di ripensamento almeno neutralista (come ad esempio ha fatto la Germania fin dall’inizio, naturalmente per proprio interesse).


Siamo di fronte ad un vasto tentativo di riposizionamento strategico delle grandi potenze, in primis degli Stati Uniti (il cui ruolo è in apparenza mascherato dal protagonismo anglo-francese) che tramite le continue aggressioni belliche, le rivoluzioni colorate e le pesanti ingerenze negli affari delle nazioni sovrane tentano di mantenere la propria egemonia nel mondo arginando la forza e l’influenza delle nuove potenze emerse. Come in tutte le fasi di declino, lo scontro interimperialistico diventa diretto ed acceso e chi ne fa le spese sono i popoli e gli Stati che assumono posizioni scomode di autonomia decisionale magari optando per strategie geopolitiche indipendenti.


La Libia di Gheddafi, nel 2003, a seguito dell’invasione dell’Iraq fece scelte in chiave di “riappacificazione” con l’occidente e sottomissione ai voleri nord-americani ed Europei, in buona parte proprio per evitare di finire sotto i colpi assassini delle bombe umanitarie. Le privatizzazioni (parziali) e le liberalizzazioni dell’economia libica evidentemente non sono bastati per accontentare l’imperialismo USA e le scelte geostrategiche di Gheddafi favorevoli alla formazione di un accenno di asse geopolitico inedito (Italia, Russia, in parte la stessa Germania) gli sono costate care.


Inoltre l’Africa, come il MedioOriente e l’Asia centrale è un continente che fa gola alle potenze imperialiste (tra i paesi europei spicca la Francia che ha sempre mantenuto il suo legame post-coloniale), sia come “discarica” delle scorie radioattive, sia come sorgente di rifornimento energetico ed infine come asse geografico di scontro con l’espansione commerciale cinese.


Non possiamo che denunciare con fermezza l’ennesima guerra “umanitaria” devastatrice ribadendo il principio di sovranità degli Stati e dei popoli manipolato ancora una volta dalle Nazioni Unite tramite un vero e proprio colpo interno delle nazioni occidentali.


I problemi interni alla Libia sono e restano problemi della Libia, nei confronti dei quali l’unica ragionevole soluzione è quella di una mediazione diplomatica promossa da tutti i paesi di concerto al solo fine di evitare spargimenti di sangue da una parte e dall’altra (senza ingerenza alcuna nelle scelte politiche sovrane del popolo libico). Ma questo non è naturalmente l’obiettivo dei paesi che hanno scatenato la guerra, dal momento che mentre scriviamo la popolazione del Bahrein è sotto occupazione militare saudita e subisce i colpi della repressione del proprio governo; analoga repressione governativa avviene nello Yemen; la Costa d’Avorio è insanguinata da una nuova guerra civile, i palestinesi subiscono la quotidiana repressione dei corpi di sicurezza israeliani e rimangono imprigionati in uno Stato occupato senza sovranità. La sicurezza e la tutela dei civili privati di diritti e libertà non è evidentemente la preoccupazione delle potenze imperialiste.


La posizione da assumere in queste ore non può essere ambigua. Slogan opportunistici “né Gheddafi, né la guerra” non possono trovare spazio. I giudizi per certi versi anche negativi sul governo Gheddafi e le dinamiche, senz’altro complesse, interne al paese libico fanno parte di tutt’altro piano del discorso che non può essere confuso con le urgenze attuali. Se lo si fa si cade nella confusione interpretativa finendo per legittimare indirettamente l’ottica suprematista e la protervia interventista dei paesi occidentali.


Quello che oggi dobbiamo reclamare con urgenza qui in Italia é:


1-l’immediato ritiro dell’Italia dalla guerra d’aggressione.


2-la chiusura di tutte le basi militari alle forze armate aeree straniere.


3-l’assunzione esplicita da parte dell’Italia di una politica autonoma e sovrana di contrarietà all’aggressione militare e di riabilitazione del trattato di non aggressione e non ingerenza italico-libico.


Esprimiamo inoltre un messaggio di esplicita solidarietà alla Libia aggredita, rivendicandone il diritto naturale alla resistenza contro gli occupanti.


Ci sentiamo vicini a tutti quei comunicati che sono stati diffusi in questi giorni i cui contenuti e le cui priorità si accostano a quelle qui espresse. Ribadiamo inoltre la necessità di un coordinamento il più ampio e trasversale possibile di tutte le forze contrarie alla guerra e favorevoli all’assunzione da parte dell’Italia di una politica autonoma di pace.

La redazione, www.comunismoecomunita.org

sabato 12 marzo 2011

Acéphale




I miti moderni sono fascisti per natura?

Sugli stessi problemi che ora riguardano la crisi della sinistra e le attrattive acquisite dalla macchina del fascismo si erano interrogati sia Furio Jesi, che, quarant'anni prima, Bataille, Caillois e gli altri «congiurati» raccolti intorno alla rivista «Acéphale» La crisi della capacità comunicativa della sinistra non si limita alla sola incomprensione della realtà e delle sue modificazioni, ma investe, ben più gravemente, il piano simbolico. Infatti, ad essersi inceppata è la «macchina mitologica», la capacità di produrre un senso mitologico

di Rocco Ronchi

In una intervista pubblicata alla vigilia delle elezioni che avrebbero segnato l'azzeramento della sinistra radicale e il trionfo della peggiore reazione, Fausto Bertinotti lamentava una grave crisi nella capacità comunicativa della sinistra italiana. Le proporzioni della disfatta, l'onda lunga e nera che ha generato, costringono a una riflessione radicale sulla natura di questa crisi che, a differenza di quanto credono gli operatori del marketing elettorale, non è riducibile alla ben nota difficoltà di far arrivare alla base un «messaggio» convincente e chiaro da parte di gruppi dirigenti sempre più distaccati dalla realtà. Comunicare, infatti, non è trasmettere. Nel suo senso proprio, significa creare un luogo comune in grado di «legare» una comunità, anche minoritaria, dando ad essa identità e riconoscibilità. Comunicazione è questa produzione di un senso comune, il quale, come una stella cometa, deve poter orientare in modo quasi irriflesso la concreta prassi politica, fungendo da tacito e indiscutibile presupposto.

Quel che scrisse Sartre

Il «comunismo» (che è altra cosa dal «marxismo») nella storia italiana del dopoguerra è stato soprattutto la lenta sedimentazione nelle coscienze di milioni di persone dell'immagine condivisa di una comunità: una comunità alternativa a quella data, della quale i «comunisti» denunciavano proprio la carenza di legame, la dispersione atomica degli individui e la loro trasformazione in elementi sostituibili al servizio del capitale. Bene lo spiegava Sartre, nel primo tomo della Critica della ragion dialettica, un libro che apparve all'indomani della catastrofe ungherese e che si rivolgeva «da sinistra» ai marxisti. L'analisi sartriana della pratica rivoluzionaria era imperniata sulla opposizione tra due tipi di «insiemi pratici»: il «collettivo», che è caratterizzato da serialità e fungibilità, nel quale ognuno è anonimamente come gli altri, e il «gruppo in fusione» rivoluzionario, che è invece alimentato dal calore bianco di un fuoco comunitario. A differenza del collettivo, che è in una «relazione di esteriorità» con i suoi elementi, il gruppo, al pari della sostanza di Spinoza che per esistere non ha bisogno di nulla all'infuori di sé, insiste invece come un tutto in ognuno dei suoi «modi».

Da Kéreny a Furio Jesi 

Il «militante» insomma non è mai solo: l'assoluto della Storia, del Partito, della comunità a venire, è sempre con lui. Anzi è lui, pervade ogni fibra del suo essere, non essendo il militante altro che una «incarnazione» del gruppo: un individuo comune. Gli stessi orrori del comunismo erano spiegabili, secondo Sartre, alla luce di questa dialettica: il terrore rosso era da intendersi come feroce «totalizzazione» delle differenze individuali che minacciano di incrinare l'unità mistica del gruppo. La crisi della capacità comunicativa della sinistra italiana è allora qualcosa di ben più grave di una semplice incomprensione della realtà e delle sue modificazioni. È una crisi che investe il piano simbolico. Ad essersi inceppata, in modo forse definitivo, è la «macchina mitologica» della sinistra, la sua capacità di produrre un luogo comune e del senso condiviso. E tanto non funziona più a sinistra quanto «marcia» perfettamente sul fronte opposto. Un fatto, questo, in grado di spiegare meglio di qualsiasi analisi socio-economica il travaso di voti da uno schieramento all'altro. Il desiderio di comunità - un desiderio al quale si è disposti a sacrificare perfino il proprio interesse personale (gli operai che votano Lega...) - resta infatti una grandezza invariante che può essere soltanto diversamente distribuita tra le forze in campo.
Per trovare una ragione che rendesse conto della fascinazione fascista Furio Jesi, il germanista studioso del mito e della cultura di destra, aveva coniato l'espressione «macchina mitologica» e quando la utilizzò, nel 1977, erano ormai passati quarant'anni dai problemi che avevano tormentato il gruppo di dissidenti comunisti e surrealisti raccolto dal 1936 al 1939 intorno alla rivista «Acéphale». Collegata alle attività del Collegio di sociologia, fondato nel '37 da Georges Bataille, Roger Caillois e Michel Leiris, la rivista si poneva gli stessi obiettivi, sebbene proiettandoli su un piano più speculativo: non si trattava solo di spiegare l'origine del contagio che, partendo dall'Italia, attraversava la civile Europa, ma anche di preparare le armi più efficaci per combatterlo. La «sociologia sacra» non era, insomma, il nome di una nuova disciplina, bensì una professione di antifascismo militante.
Dal suo maestro Károly Kéreny, Furio Jesi aveva ripreso la nozione di «mito tecnicizzato», vale a dire di mito imbastardito escogitato per mobilitare quelle masse che, come il loro stesso nome indica, sono caratterizzate da una inerzia costitutiva. I fascisti italiani avevano compreso che la tendenza all'immobilismo delle masse poteva essere vinta solo riaccendendo il più inattuale dei fuochi, quello che due secoli di critica illuminista avrebbe dovuto da tempo spegnere. La ragione era infatti impotente a muoverle e a commuoverle. Non solo il Thomas Mann del Doctor Faustus ma anche la più avveduta storiografia contemporanea - da Zeev Sternhell a Emilio Gentile fino al recente Avant-garde FASCISM di Mike Antliff - è ormai concorde nell'individuare il battesimo del fascismo europeo nella rivalutazione del mito da parte di Georges Sorel. Il mito - secondo la diagnosi fatta dal filosofo francese in Riflessioni sulla violenza - era infatti il solo fondamento capace di indurre alla mobilitazione, e siccome il mito è fondato sul rapporto con l'arcaico, la sola mobilitazione effettiva si riduce, di fatto, alla mobilitazione reazionaria. Di certo, quel che veniva chiamato in causa non era il mito autentico che, traducendosi in sublime poesia, estasiava colti umanisti come Kérenyi. Se ne rese ben conto, peraltro, anche lo stesso Jesi, in saggi che segnarono il suo violento distacco dal maestro, riflettendo sul fatto per cui una macchina mitologica non ha affatto bisogno, per funzionare, che al suo interno si celi una immagine del dio. Funziona benissimo anche senza quella immagine. Funziona anche se dio è morto o è assente. Secolarizzazione, desacralizzazione e demitizzazione, il «moderno», insomma, non scalfiscono la macchina mitologica.

L'eredità dei congiurati di sinistra

L'importante, scrive Jesi in pagine memorabili, è che dalla macchina fuoriesca una musica «che faccia danzare», che trascini cioè piedi stanchi in un ritmo che, come il sogno, non presuppone coscienza, distanza, critica. La macchina mitologica è una macchina onirica che, mobilitando le anime, crea un «luogo comune» condiviso.
Ed è una macchina enunciativa: la sua musica è, come ogni musica, fatta di «frasi» che sono come ritornelli capaci di catturare la mente costringendo a una ripetizione ottusa: basta, per verificarlo, che si sfogli la nostra stampa e si ascoltino i nostri telegiornali. Prima di tutto la comunicazione è questa danza che celebra l'esserci della comunità. Ogni etnologo che abbia lavorato sul campo lo può confermare.
In Spartakus. Simbologia delle rivolta (Bollati Boringhieri), ragionando sulla insurrezione berlinese del 1919, Jesi si interrogò anche su un possibile funzionamento alternativo della «macchina». Quei rivoluzionari comunisti che volevano sospendere l'ordine del tempo, identificato con quello dell'oppressione, attingevano anch'essi ad un mito «tecnicizzato». La rivoluzione, insomma, incrocia la storia, ma non le appartiene interamente. A differenza del fascismo, tuttavia, il «luogo comune» che sogna - il comunismo come «sogno di una cosa» - è una comunità di uomini liberi e la dea che onora è la ragione.
Quarant'anni prima, in qualità di testimoni dell'epidemia fascista, Bataille e gli altri «congiurati» di sinistra raccolti intorno a «Acéphale» si erano interrogati su questi problemi che sono ancora i nostri. Data la crisi comunicativa della sinistra (che per loro era evidente nella torsione sostanzialmente fascista del comunismo staliniano e nell'impotenza della sinistra parlamentare) e data la necessità della comunità, senza la quale resta solo quella caricatura di uomo che è l'individuo astratto dal legame sociale, come inceppare la macchina mitologica fascista?
È possibile un altro mito, alternativo a quello fascista, oppure il mito, nella modernità, è fascista per natura? È possibile una «comunicazione» che sia emancipazione oppure la comunicazione è soltanto produzione di un legame, di un «fascio», di una «lega», di una identità posticcia e violenta?

L'impossibile comunità

Bataille esitò a lungo tra queste ipotesi. Tra i suoi compagni di strada, Roger Caillois fu quello che si mostrò più ottimista e anche più ingenuo. Per lui era insomma possibile rifare «da sinistra» quello che era stato fatto dalla destra fascista (e, prima di tutti, dai seguaci di Sorel) e cioè mobilitare con il mito masse rivoluzionarie. Lo battezzò un «sublime socialmente imperativo», ma le sue raffinatissime analisi delle pulsioni mitologiche che attraverserebbero le masse metropolitane, rendendole permeabili a un contagio del sublime, altro non erano che una brillante fenomenologia del fascismo incipiente. La macchina mitologica, sposandosi con i nuovi media della comunicazione di massa, continuerebbe di fatto a funzionare in una sola direzione.
Tutt'altra era la consapevolezza della situazione che Bataille andava maturando. Proprio lui, che aveva dato il via all'impresa del Collegio e di «Acéphale», sembrava persuaso che, sul piano pubblico, il fascismo nella modernità avesse sempre l'ultima parola. L'aggettivo che più spesso ritornava nella sua prosa per qualificare la natura di una comunità finalmente libera è infatti «impossibile». Negli ultimi trenta anni brillanti filosofi hanno versato fiumi di inchiostro a proposito di questo aggettivo. Il senso di quella impossibilità è tuttavia chiaro ed è un senso tragico: non si dà nessuna libera comunità che sia effettuale, non si dà luogo comune che possa aspirare a farsi in senso lato «stato». Appena esso si dà è già immancabilmente perduto (i membri del Collegio rifletterono a lungo sul senso mitologico dell'imbalsamazione di Lenin nel 1924).

Sotto il segno dell'Acefalo 

Non resta allora che la comunità «inoperosa» (e vagamente aristocratica) di chi si sa irrimediabilmente sconfitto sul piano della storia effettuale? La comunità degli amanti o dei letterati? Molti tra quelli che oggi spengono sprezzanti la televisione lo pensano, ma non è stata questa la risposta di Bataille, il quale, nel 1937, individuava il proprio modello di comunità in Numanzia, l'eroica città che resiste fino alla morte all'assedio fascista di Scipione.
L'indicazione è precisa e suona assai inattuale alle nostre orecchie bipartisan: solo l'antifascismo può costituire il cuore di una comunità in divenire, solo l'antifascismo - un antifascismo vissuto fino allo spasmo nella sua dimensione metapolitica e «impossibile» - può essere il mito che fonda il luogo comune di uomini liberi. L'Acefalo disegnato da Masson sul frontespizio della rivista ne fu l'immagine convulsa.

Sullo scaffale
Qualche indicazione su «Acéphale» e i titoli di Furio Jesi

La rivista «Acéphale» venne fondata da Georges Bataille, Pierre Klossowski e André Masson, e uscì in quattro numeri tra il giugno del 1936 e il giugno del 1939. Nel primo numero apparve, con il titolo «La congiura sacra», il suo manifesto, a firma di Bataille, nel quale si rivendicava il carattere «ferocemente religioso» e metapolitico dell'impresa. I due numeri del 1937 presentano, tra l'altro, la fondamentale lettura batailleana di Nietzsche con la quale il filosofo tedesco veniva sottratto all'uso ideologico che ne avevano fatto i nazisti. La grafica della rivista era affidata a Masson che disegnò a più riprese l'Acefalo simbolo del movimento. Ma «Acéphale» è anche il nome della società segreta che raccoglieva attorno a Bataille alcuni dei suoi amici e collaboratori. Di questa avventura intellettuale e umana tratta il volume titolato «Georges Bataille, La congiura sacra» (a cura di Marina Galletti con una introduzione di Roberto Esposito), Boringhieri, Torino 2008 (ristampa). Tra i titoli di Furio Jesi reperibili: per Bollati Boringhieri, «L'accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita», «Bachofen» e «Spartakus. Simbologia della rivolta»; per Quodlibet «Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke», e «Letteratura e mito», per Einaudi, «Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea»

giovedì 10 marzo 2011

Libia e il Ritorno dell’Imperialismo Umanitario 

 

 
Il ritorno di tutta la vecchia gang

Di JEAN BRICMONT
da CounterPunch (trad. di Piero Pagliani)

Tutta la vecchia gang ritorna: I partiti delle Sinistra Europea (che raggruppano i partiti comunisti europei “moderati”), il “Verde” José Bové ora alleato con Daniel Cohn-Bendit che non c’è stata guerra USA-NATO che non gli sia piaciuta, vari gruppi trotzkisti e, ovviamente, Bernard-Henry Lévy e Bernard-Henry Lévy, tutti ad esortare a qualche tipo di “intervento umanitario” in Libia o ad accusare la sinistra latino-americana, le cui posizioni sono molto più ragionevoli, di essere degli “utili idioti” per il “tiranno libico”.
Dieci anni dopo siamo di nuovo al Kosovo. Centinaia di migliaia di Iracheni morti, la NATO bloccata in Afghanistan in una posizione impossibile, e non hanno capito nulla! La guerra in Kosovo fu fatta per bloccare un genocidio inesistente, la guerra afgana per proteggere le donne (andate a vedere la loro situazione ora) e la guerra in Iraq per proteggere i Curdi. Quando capiranno che tutte le guerre proclamano di avere una giustificazione umanitaria? Anche Hitler “proteggeva le minoranze” in Cecoslovacchia e in Polonia.
Dalla parte opposta, Robert Gates avverte che ogni futuro segretario di stato che consigliasse ad un presidente USA di inviare truppe in Asia o in Africa “dovrebbe farsi esaminare la testa”. L’ammiraglio Mullen, similmente, invita alla cautela. Il grande paradosso del nostro tempo è che i quartier generali del movimento pacifista devono essere cercati nel Pentagono o nel Dipartimento di Stato, mentre il partito della guerra è una coalizione di neo-conservatori e di progressisti interventisti di varia specie, inclusi guerrieri umanitari di sinistra, così come Verdi, femministe e comunisti pentiti.
Così ora tutti devono tagliare i loro consumi per via del riscaldamento globale, ma le guerre della NATO sono riciclabili e l’imperialismo è diventato parte dello sviluppo sostenibile.
Ovviamente gli USA andranno o non andranno ad una guerra per ragioni che sono del tutto indipendenti dai consigli offerti dalla sinistra guerraiola. Il petrolio non sembra essere uno dei fattori più importanti nelle loro decisioni, dato che ogni futuro governo libico dovrà vendere petrolio e la Libia non è sufficientemente grande per influire in modo significativo sul prezzo del greggio. Chiaramente i disordini in Libia danno il destro alla speculazione, che invece influenza i prezzi, ma questo è un altro paio di maniche. I sionisti hanno probabilmente due opinioni riguardo la Libia: odiano Gheddafi e lo vorrebbero vedere rimosso, come Saddam, nel modo più umiliante possibile, ma nemmeno sanno se la sua opposizione gli piacerà proprio (e dal poco che sappiamo, non sarà così).
L’argomento principale a favore della guerra è che se le cose andranno velocemente e facilmente gli interventi umanitari della NATO saranno riabilitati, dato che la loro immagine è ora appannata dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova Grenada o, al più, un nuovo Kosovo, è proprio ciò che ci vuole. Un altro motivo per intervenire è quello che così si controllano meglio i ribelli, poiché si arriva per “salvarli” nella loro marcia per la vittoria. Ma questo è proprio difficile che funzioni: Karzai in Afghanistan, i nazionalisti kosovari, gli Sciiti in Iraq e, ovviamente, Israele, sono perfettamente felici di ricevere l’aiuto americano, quando serve, dopo di che lo sono di seguire la loro proprio agenda. E un’occupazione della Libia a tutto campo dopo la sua “liberazione” sembra tutto tranne che sostenibile, cosa che ovviamente rende l’intervento poco attraente per gli USA.
D’altro canto, se le cose si dovessero mettere male, si tratterebbe dell’inizio della fine dell’impero americano; da qui la cautela della gente che è realmente in posizione di decidere e non solo di scrivere articoli su Le Monde o sbraitare contro i dittatori davanti alle telecamere.
E’ difficile per un normale cittadino conoscere esattamente cosa sta succedendo in Libia, dato che i media occidentali si sono completamente screditati in Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina e le fonti alternative non sono sempre affidabili. Questo, chiaramente, non impedisce alla sinistra pro-guerra di essere assolutamente convinta della verità dei peggiori resoconti su Gheddafi, così come lo erano dodici anni fa riguardo Milosevic.
Il ruolo negativo della Corte Internazionale dell’Aja è di nuovo evidente in questo caso così come lo fu quello del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per il caso del Kosovo. Uno dei motivi per cui c’è stato un relativamente modesto spargimento di sangue in Tunisia ed Egitto è che c’è stata una via d’uscita per Ben Ali e Mubarak. Ma la “giustizia internazionale” vuole assicurarsi che non ci sia una via d’uscita per Gheddafi e probabilmente per le persone vicine a lui, così da costringerli a lottare a tutti i costi.
Se un “altro mondo è possibile”, così come la sinistra europea continua a ripetere, allora anche un altro Occidente dovrebbe essere possibile e la sinistra europea dovrebbe lavorare in quel senso. Il recente incontro dell’Alleanza Bolivariana dovrebbe servire da esempio: la sinistra latino americana vuole la pace e vuole evitare ogni intervento da parte degli USA, poiché sanno che sono nelle mire degli USA e che il loro processo di trasformazione sociale richiede innanzitutto la pace e la sovranità nazionale. Per cui hanno suggerito di inviare una delegazione internazionale, possibilmente guidata da Jimmy Carter (difficilmente definibile un tirapiedi di Gheddafi) per iniziare un processo negoziale tra il governo e i ribelli. La Spagna ha espresso interesse per l’idea, che ovviamente è stata rifiutata da Sarkozy. Questa decisione può sembrare utopistica, ma non sarebbe così se fosse sostenuta da tutto il peso delle Nazioni Unite. Questo sarebbe il modo per onorare la propria missione, cosa che ora è resa impossibile dall’influenza statunitense ed occidentale. Tuttavia non è impossibile che oggi, o in qualche crisi futura, una coalizione di nazioni non interventiste, includente la Russia, la Cina, l’America Latina ed eventualmente altri, possa lavorare assieme per costruire alternative credibili all’interventismo occidentale.
A differenza della sinistra latino americana, la sua patetica versione europea ha perso ogni idea di cosa significhi fare politica. Non cerca di proporre soluzioni concrete ai problemi ed è solo capace di prendere posizioni morali, in particolare denunciando dittatori e violazioni dei diritti umani con tono magniloquente. La sinistra socialdemocratica insegue la destra se va bene con qualche anno di ritardo e non ha nessuna idea propria.
La sinistra “radicale” spesso riesce a denunciare i governi occidentali in ogni modo possibile e chiedere contemporaneamente che quegli stessi governi intervengano militarmente in tutto il globo per difendere la democrazia. La sua mancanza di riflessione politica la rende altamente vulnerabile alle campagne di disinformazione facendola diventare una passiva ragazza pon-pon delle guerre della NATO.
Questa sinistra non ha un programma coerente e non saprebbe cosa fare nemmeno se un dio la rimettesse al potere. Invece di “sostenere” Chávez e la Rivoluzione Venezuelana, una affermazione priva di senso che alcuni amano ripetere, dovrebbero umilmente imparare da loro e, prima di tutto, re-imparare cosa significhi fare politica.
Jean Bricmont insegna Fisica in Belgio ed è membro del Tribunale di Bruxelles. Il suo libro “Imperialismo Umanitario” è pubblicato dalla Monthly Review Press. Può essere contattato all’indirizzo Jean.Bricmont@uclouvain.be.

domenica 6 marzo 2011

Sul manifesto per eliminare e rimuovere il Sistema capitalista



Sul manifesto per la Libertà e la Sovranità

1. Abbiamo ricevuto un “Manifesto per le Libertà e Sovranità monetaria, economica, culturale, comunitaria e politica” che come sottotitolo recita: «Come contrastare, abbattere, eliminare e rimuovere il Sistema capitalista. Come combattere il Signoraggio bancario e l’Usura internazionale. Come abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. Come affrontare e vincere l’imperialismo statunitense. Come liberarci dai banchieri centrali e commerciali. Come fuoriuscire dal Nichilismo occidentale. Come prospettare una Decrescita graduale. Come contrastare le catastrofi ecologiche. Come giungere ad un Mondo multipolare. Come abolire le Imprese multinazionali. Come raggiungere la Giustizia sociale. Come risollevare la nostra Europa» .
Potremmo allora aggiungere: «Come non essere lì per lì d’accordo? Non sono cose che anche noi andiamo dicendo?».
Lì per lì la risposta è positiva, ma in realtà, come vedremo, solo lì per lì, perché la risposta profonda è “No, non possiamo essere d’accordo”.
Già quegli obiettivi ad una seconda lettura iniziano a convincerci poco. Il “Signoraggio bancario e l’Usura internazionale” cosa sono? Qual’è il ruolo dei “banchieri centrali e commerciali”? Perché dovrebbero essere l’obiettivo principale? Che cosa c’entrano con la “proprietà privata dei mezzi di produzione” e con la sua “rimozione”, che come la Storia del Novecento insegna ha portato allo statalismo lassalliano e non al comunismo pensato da Marx? E infine cos’è la “nostra Europa”? Perché dovrebbe essere “nostra”? Perché ci viviamo? perché riconosciamo nella sua civiltà qualcosa di superiore, di irrinunciabile? perché può giocare un ruolo geopolitico?

2. Non è possibile esaminare tutte le tesi di queste fittissime ottanta pagine. Anche perché non sono né ordinate sequenzialmente né ordinate conseguenzialmente. I temi vanno e vengono, spariscono, vengono ripresi sotto altra forma, in una sorta di caos dove sembra che manchi un centro, un nucleo da cui partire.
Ora, la mancanza di un metodo non è di per sé un peccato mortale. Lo diventa quando non permette di districarsi in un ammasso di concetti e pensieri presi un po’ da chiunque, da Marx a Claudio Mutti, passando attraverso ogni pensatore di estrema sinistra o di estrema destra che sia considerato “creativo”, da Giulietto Chiesa e Costanzo Preve a Tiberio Graziani e Alessandra Colla, senza dimenticarsi del Campo Antimperialista.
Ora, anche noi siamo molto interessati ai pensatori di estrema sinistra “creativi” (di quelli di estrema destra ci interessa meno), perché riteniamo che la sinistra tardo-marxista sconti un grave ritardo rimanendo legata a certi concetti ereditati da una gloriosa tradizione e mantenuti ormai per superstizione. Ma la nostra critica al marxismo novecentesco è una critica per superare la crisi del marxismo che si è accompagnata alla sconfitta del comunismo storico, non è l’apertura a tutto e a tutti, non è il trionfo dell’eclettismo. Infatti è una critica che vuole essere marxista, ovvero che segue il metodo di Marx. E qui c’è la prima grande differenza, perché in realtà un metodo gli estensori del “manifesto” ce l’hanno ed è antimarxiano.
Così come hanno un metodo hanno anche un nucleo dal quale iniziare la sua applicazione. Tale nucleo è il concetto di “Moneta” con tutti i suoi annessi e connessi (signoraggio, usura, banchieri centrali e non, oligarchie finanziarie mondiali, eccetera). Il metodo è invece lo sprofondamento dall’apparenza del concreto agli abissi dell’astrattezza, laddove il metodo di Marx – che noi rivendichiamo – è la nota “risalita dall’astratto al concreto”, ovvero la deduzione logica delle categorie interpretative dai rapporti sociali storici.
La differenza si nota subito e in verità subito la fanno notare anche gli autori del “manifesto”:
« … siamo autorizzati a credere che la Moneta-debito per Marx sia l’Essere-economico che dà luce all’ente Merce. Rileggendo con lenti heideggeriane quel passaggio si potrebbe azzardare che – rimanendo sullo sfondo, rivelandosi e nascondendosi al tempo stesso, e lasciando l’intera scena alla Merce – la Moneta venga ridotta all’oblio pur essendo essa il vero centro dell’analisi. Il Feticismo della Merce sarebbe, dunque, il Feticismo del denaro. E Marx, se lo avesse detto e scritto, si sarebbe messo al riparo da questa nostra critica».
Per fortuna che Marx non l’ha detto, commentiamo noi. E non poteva dirlo, proprio perché non partiva da “enti” astratti; e non lo faceva per il semplice fatto che i feticci lui non li adorava ma li svelava come tali. Rimandiamo alle sue Glosse a Wagner dove dice sprezzantemente agli economisti accademici tedeschi: «Prima di tutto, io non parto da “concetti” [...]. Ciò da cui io parto è la forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale società, il prodotto in quanto “merce”».
Marx parte dalla merce perché la merce è il momento di sintesi dei rapporti sociali capitalistici. Per Marx il capitalismo non è una cosa, non è un modello di sviluppo, è un rapporto sociale costituitosi storicamente. Essendo un rapporto rovesciato, perché avendo al centro la merce i rapporti sociali sono reificati e i rapporti tra cose sono personificati, esso si basa su un meccanismo invertito che si presenta però come naturale: un feticcio, per l’appunto.
La moneta non può essere dedotta che da questa prima contraddizione, anche se storicamente, come dice Marx in “quel passaggio” di cui parla con rammarico il “Manifesto per le Libertà e Sovranità monetaria …”, il debito pubblico, l’accumulazione di strumenti finanziari, è stato uno strumento potente per sostenere l’iniziale espansione del capitalismo moderno. Ma ci sono stati anche altri strumenti per accumulare mezzi di pagamento. I principali: la rapina del Bengala e poi dell’India intera, che ha trasformato il suo surplus in un debito verso l’Inghilterra, e il commercio triangolare atlantico basato sulla tratta degli schiavi.

3. Se il processo di accumulazione è D-M-D’, è chiaro che il D iniziale deve pur esserci, filogeneticamente e ontogeneticamente. C’è in quanto disponibilità finanziaria “originaria” e rimane nel processo in quanto debito pubblico e credito nazionale e internazionale. Ma l’espansione materiale capitalistica ha il suo nucleo nella contraddizione reale tra valore d’uso e valore (di scambio) immanente alla merce.
Mettere al centro la Moneta è una manovra accattivante in un periodo di finanziarizzazione dell’economia come la nostra. Ma i casi sono due: o si deduce la finanziarizzazione dalle dinamiche capitalistiche reali o si ribalta la direzione della deduzione mettendo alla radice il capitale finanziario, come fanno gli estensori di questo “manifesto”.
A nostro avviso il primo approccio – che per noi è quello giusto – permette essenzialmente solo due varianti, una che chiameremo “ricorsiva” e una che chiameremo “stadiale”.
Secondo quest’ultima la finanziarizzazione è dovuta alla sospensione della legge del valore, per cui il capitale – per cause sociali, come i conflitti di classe – non si può più autovalorizzare col ciclo D-M-D’ e deve ricorrere al ciclo breve D-D’ (la finanziarizzazione, per l’appunto). Il rapporto sociale capitalistico, che si esplica nella produzione di merci e quindi nel ciclo D-M-D’ sarebbe allora tenuto in vita a mo’ di zombie dal “comando capitalistico”. La finanziarizzazione farebbe quindi un tutt’uno con la biopolitica. Questa è la soluzione à la Toni Negri, la più brillante se si rimane strettamente nei canoni marxisti.
La spiegazione “ricorsiva” è data invece da Giovanni Arrighi. Anche Arrighi critica il fatto che «l’attenzione che Marx prestò agli aspetti interni dell’accumulazione del capitale gli impedì di apprezzare la persistente importanza del debito pubblico in un sistema di Stati in costante concorrenza reciproca per la conquista del sostegno dei capitalisti ai loro obiettivi di potere». Ma ciò non ha nulla a che vedere con un mondialismo finanziario. Questa concorrenza si esaspera infatti quando entra in crisi un ciclo sistemico mondiale di espansione materiale egemonizzato dallo scambio politico tra il Potere del Denaro ed un particolare Potere del Territorio (ovvero una fase monocentrica egemonizzata da uno specifico stato-nazione). Queste crisi sistemiche sono caratterizzate dalla sovraccumulazione di capitali accumulati nel ciclo D-M-D’ che quindi devono rivolgersi al ciclo breve D-D’ che è facilitato dalla concorrenza per il capitale mobile tra i vari Stati, principalmente tra i competitor della nazione egemone in declino.
L’unica cosa che resta da capire è se gli effetti accumulati dai precedenti cicli sistemici permetteranno una nuova espansione materiale oppure no. E’ un compito difficilissimo ma il problema sta tutto lì, perché il ciclo D-D’ è un po’ come un elefante che vola, e gli elefanti non possono volare indefinitamente.
Ad ogni modo in nessuno dei due casi, né nell’ipotesi stadiale né in quella ricorsiva, il motore immobile è la Moneta-debito, bensì il motore rombante sono i rapporti sociali conflittuali del capitalismo.

4. Negli estensori del documento in oggetto c’è invece un’ossessione che ricorda troppo da vicino le teorie dei “complotti mondialisti plutocratici” che riteniamo inaccettabili:
«Chi governa il Mondo non è necessariamente chi produce, chi distribuisce o chi consuma Merci, Servizi o Beni. Chi governa i destini del Mondo è colui il quale emette moneta e la presta, anche stabilendo complicità e agendo osmoticamente con le alte sfere del capitale produttivo».
Si noti che chi a sinistra parla di oligarchie finanziarie sovranazionali parla lo stesso linguaggio, che lo voglia o no, che lo sappia o no.
E’ il linguaggio delle apparenze, del Sole che gira attorno alla Terra, che può servire eventualmente per orientarsi solo finché non si ha necessità di vedere il sistema nel suo complesso.
In questo c’è da dire che gli estensori del “manifesto” sono in compagnia di tutta quella sinistra che ha preso sul serio ciò che gli agenti della cosiddetta “globalizzazione” volevano che apparisse:
«Il superamento di questo modello di Sviluppo e di prevaricazione dell’Economia sulla Politica provocherà la fine delle ragioni stesse che muovono un altro dei sintomi del Sistema Occidente: l’imperialismo americano. E’ da sottolineare come quest’ultimo – con la sua capacità di persuasione economica, culturale, politica e, non di rado, militare – sia funzionale al sostentamento dell’Occidente sviluppista, monetarista e consumista. Gli USA difendono il modello di Sviluppo e Progresso sopra esposti. Infatti questo Occidente è americanocentrico».
In altre parole: l’economia capitalistica si è mondializzata e lo stato-nazione chiamato USA è, per sue capacità derivate da non si sa cosa, il fulcro e il garante ideologico, politico e militare di questo capitalismo sovranazionale caratterizzato dalla sudditanza della politica nei confronti dell’economia.
Non si capisce assolutamente da quale cilindro esca questo coniglio americano. Abbiamo capito poco oppure salta veramente fuori dal nulla. In realtà qui siamo nel caos interpretativo, un caos interpretativo di destra che condivide moltissimi elementi col caos interpretativo di almeno il 90% della sinistra. A partire dal concetto sballato di “modello di sviluppo”.
E il caos incomincia dall’inizio:
«Se si vuole indicare in un evento l’esempio in cui banchieri e capitalisti vincolano al Mondo intero i propri comuni interessi, noi indichiamo Bretton Woods, anno 1944. Quella non fu soltanto una Conferenza in cui si stabilirono delle regole sulla Politica monetaria internazionale, ma fu anche una Conferenza che stabilì degli Accordi per liberalizzare il Commercio internazionale».
Niente di tutto ciò.
Durante la Conferenza di Bretton Woods i banchieri nemmeno c’erano. Quegli accordi gettarono le basi per il rilancio dell’espansione economica mondiale postbellica sotto l’egemonia “armata di coercizione” degli USA ribaltando le basi costitutive storiche del sistema di produzione del denaro mondiale, in un senso contrario a quel che sostengono gli estensori del “manifesto”: di fatto il controllo della sua produzione e della sua gestione fu tolto dalle mani dei banchieri e dei finanzieri privati e messo in quelle di una gerarchia di organizzazione governative capitanate dagli Stati Uniti.
Bretton Woods fu all’insegna del fenomeno che caratterizzò tutto il periodo prebellico, ovvero il ritorno dopo la crisi del ’29 del controllo della politica sulla finanza, implementato negli USA dal New Deal, in Italia dal fascismo, in Germania dal nazismo e in Unione Sovietica dai piani quinquennali.
Per lo stesso motivo non ci fu nessun accordo di liberalizzazione del commercio internazionale. Il Congresso USA era persino restio ad accordi bilaterali e a fatica nel 1947 si arrivò al GATT. Il libero scambio di merci e capitali fu qualcosa di sconosciuto per tutto il ventennio di espansione che seguì la fine della II Guerra Mondiale.
Finché si arrivò alla dichiarazione di Nixon della inconvertibilità del dollaro in oro il 15 agosto del 1971. Quel giorno gli USA, sfidando il fatto che stavano perdendo la guerra del Vietnam e con essa la possibilità di penetrare in profondità in Asia, dichiararono che la finzione della parità del dollaro con l’oro era finita e che il sistema internazionale si reggeva solo sulla potenza statunitense.
Gli estensori hanno un bel criticare Marx perché non si sarebbe accorto dell’enorme grado di indipendenza della Moneta-debito, ma la vera storia della Moneta-debito inizia quel giorno di Ferragosto, non poteva esserci ai tempi di Marx quando la base aurea riportava violentemente in riga il sistema monetario internazionale.

5. Dopo il cosiddetto Nixon Shock iniziava un periodo di scosse di assestamento che avrebbe portato ad un fatto totalmente inedito nella Storia: lo standard monetario internazionale era diventato un debito pubblico; il debito pubblico americano nei cui titoli, preferibilmente illiquidi, doveva essere convertito il surplus mondiale.
Il Nixon Shock era il segnale che il ciclo sistemico di accumulazione coordinato dagli Stati Uniti era entrato in crisi. I capitali sovraccumulati, abbandonando gli investimenti in commercio e industria e intrecciandosi con quei petrodollari che non venivano investiti in sistemi d’arma statunitensi, diedero vita al commercio di eurovaluta, cioè di dollari che sfuggivano al controllo delle banche centrali.
Per almeno sette anni il Governo Federale cercò di fare la guerra ai banchieri della City e di Wall Street immettendo nel sistema mondiale un crescente flusso di dollari (ormai stampabili a volontà) dando così luogo a quel fenomeno che nessun libro di economia prevedeva: la stagflazione. Poi nell’ultimo anno della presidenza Carter e più decisamente con Reagan, capì che quella guerra avrebbe portato alla rovina congiunta sia la potenza statunitense sia i propri capitalisti, industriali e finanziari.
Nacque la reaganomics, si proclamò la deregulation, si iniziò una deflazione spaventosa, gli investimenti per le Guerre Stellari attrassero capitali da tutto il mondo e si avviò la “globalizzazione”, cioè la più grande rapina di ricchezza mai avvenuta nella Storia, basata sull’imposizione alle altre nazioni degli “aggiustamenti strutturali”, tramite FMI e Banca Mondiale, basati sulla svendita dei settori pubblici e degli asset strategici dei Paesi bersaglio. Ciò succedeva con violenza nei Paesi debitori del Terzo Mondo, succedeva nella Russia cleptocratica di Yeltsin con milioni di morti per indigenza e succedeva anche in Europa Occidentale. In Italia fu ciò che caratterizzò i governi della Seconda Repubblica, a partire da quelli Amato e Ciampi, con una dedizione particolarmente canina da parte dei governi di centrosinistra i cui leader si estasiarono davanti alle politiche economiche che i Chicago Boys avevano sperimentato la prima volta in Cile sotto la protezione del golpista fascista Pinochet. Prima di accusare gli altri di non essere più sensibili alla distinzione destra-sinistra qualcuno dovrebbe accorgersi del trave nel proprio occhio!
Gli USA, il più grande Paese debitore del mondo, si proclamarono autoimmuni da ogni necessità di aggiustamento strutturale. Anzi, il loro compito era quello di incrementare il disavanzo commerciale e il proprio debito pubblico e di cercare i temibili avversari di turno per ricavare quella legittimità di “Paese indispensabile” sul quale si sosteneva tutto il sistema.
Ci fu l’11 settembre e il Grande Nemico Internazionale fu trovato. Un nemico perfetto, perché indefinibile e perpetuo.

6. Questa è stata la cosiddetta “globalizzazione”, un tentativo di gestire la crisi sistemica statunitense soggiogando il resto del mondo a un dominio di carattere imperiale. Si ha dunque un generale asservimento della politica al potere del denaro proprio perché esso è imposto da una superpotenza dove quell’asservimento non c’è ma dove al contrario si è ristabilito uno scambio politico tra i due tipi di poteri.
Se di “signoraggio” si vuole parlare allora si deve parlare di questo signoraggio imperiale. Il resto sono al più tecnicalità.
Così come sono effetti di queste dinamiche il cosiddetto “iperconsumo” e il percepito strapotere delle multinazionali (che in realtà hanno come necessità fondamentale quella di farsi la guerra l’un l’altra, ognuna appoggiandosi ai propri rispettivi poteri territoriali – quando la Boeing e Airbus litigano non lo fanno con i propri amministratori delegati, ma con i propri esponenti politici di altissimo rango).
Qui stiamo oltretutto parlando solo di meno della metà dell’umanità, e di una congiuntura particolare.
Cosa avviene invece, ad esempio, nell’Oriente asiatico, dove c’è la più grande concentrazione operaia di tutti i tempi? Quanto di queste analisi, quanto di queste categorie – iperconsumo, finanziarizzazione, nichilismo, eccetera – si adatta a quei popolosissimi Paesi?
E ancora, come fare per contrastare il feroce egemonismo statunitense e arrivare ad un mondo multipolare?
Gli estensori del “manifesto” contrappongono alla cosiddetta mondializzazione, che è descritta come una sorta di congiura di banchieri e capitalisti sovranazionali, il richiamo alla tradizione, il legame con la terra, la specificità culturale. E lo fanno in un modo che ricorda il culto del Blut und Boden.
Per noi su questo punto le cose stanno in un modo ben differente.
E’ evidente che in questo tipo di crisi se non si vuole gridare nel deserto non si può fare politica senza sporcarsi le mani con i concetti di “nazione” e di “territorio”. David Harvey e Giovanni Arrighi hanno sostenuto che addirittura non si può parlare di capitalismo senza usare quelle due nozioni e quindi senza fare i conti con esse non si può parlare nemmeno di anticapitalismo e di antimperialismo.
Se ciò è vero, allora è evidente il pericolo. Il marxismo ha quasi sempre lasciato ai suoi avversari questi punti centrali. Un po’ per un legittimo rifiuto del nazionalismo razzista imperialistico e coloniale, ma più che altro perché scambiando il modello del “modo di produzione capitalistico” con la complessità del reale, la tradizione marxista non ha visto altro che l’internazionalismo proletario e la rivoluzione mondiale. Ci volle il realismo di Lenin – che pure credeva in entrambe le cose – per criticare l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek all’idea di “autodeterminazione delle nazioni”.
Siamo ben consapevoli che il concetto di “sovranità nazionale”, nelle sue varie declinazioni che dipendono dalla posizione del Paese nella gerarchia imperiale, immette inevitabilmente in circolo elementi come “nazione” e “territorio”, “cultura” e “tradizione”. Il problema è allora come non rimanerne intossicati. E per non rimanerne intossicati c’è un solo modo: affrontarli in un’ottica marxista e leninista rinnovata, ovverosia che guardi da qui in avanti e non indietro. Non bastano gli scongiuri, non bastano i “guaritori” che ripetono le litanie della lotta di classe o della ribellione degli oppressi, agitando amuleti a forma di falce e martello. Se vogliamo rimanere puri e incontaminati possiamo farlo. Si sappia però che non riusciremmo mai a capire perché l’internazionalista Che Guevara usasse come slogan “Patria o muerte” esattamente come fanno oggi i Paesi dell’America Bolivariana, o perché i combattenti del Fronte di Liberazione Nazionale algerino e i Vietcong lottassero per l’indipendenza nazionale, o perché il progenitore dell’internazionalismo proletario, Marx, criticasse duramente l’internazionalismo dei prudhoniani francesi ritenendolo in realtà un sostegno dello sciovinismo francese: «Per negazione delle nazionalità, essi, a quanto pare, intendono inconsapevolmente l’assorbimento di nazionalità da parte della nazione francese modello» (mettete “americano” al posto di “francese” e vedrete come questa accusa si adatti perfettamente oggi).
Si sappia anche, cosa più importante, che la nostra “purezza” permetterebbe solo due alternative: o il rischio di consegnare le prossime mosse a una forza decisamente reazionaria (di cui la Lega è una prefigurazione, grazie al cielo autoconfinata in una piccola parte del territorio nazionale); oppure il rischio di lasciare che questi due orribili schieramenti continuino a spadroneggiare, ora l’uno ora l’altro o in condominio, protetti dai loro padrini statunitensi.
Se invece vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo essere consci dei rischi, delle poste in gioco pratiche e teoriche, delle differenze nette ma anche delle sottili linee rosse di demarcazione. Inutile nasconderselo: si camminerà su territori che quando va bene non sono di nessuno, ma spesso sono borderline, veri e propri campi minati.
Ma è un lavoro necessario per tentare di evitare catastrofi come quelle già viste nella prima parte del secolo scorso, quando la sottovalutazione di questi fattori aprì le porte alla soluzione nazista. Un lavoro poco piacevole, duro e che espone ad accuse grossolane e demagogiche. Che possiamo rispedire al mittente, perché presidiare i confini di regni di cui si vuole evitare l’invasione, non significa, come è evidente, servire il miserevole apparato pseudo-teorico dell’avversario, ma al contrario guardare nella direzione da cui viene il pericolo reale e non andare invece a combattere i mulini a vento dalla parte opposta.
Si tratta di capire che lo stato-nazione è un terreno favorevole alle classi subalterne, mentre i rimandi ad istanze sovranazionali incontrollabili (per ultima il dio remoto della “mano invisibile del mercato”) e il cosmopolitismo sono un terreno più favorevole al capitalismo e alla sua grande mobilità transnazionale.
Tutto ciò non significa nessun culto della tradizione, della terra e della nazione, che sono elementi transitori con una parabola che si compie nella Storia. Senza contare che la suddivisione degli uomini tra quegli elementi può essere tanto un’arma di difesa contro l’anomia capitalistica, quanto viceversa un’arma di attacco del capitalismo per imporre e riprodurre il proprio rapporto sociale. Le infinite storie di “balcanizzazioni” perpetrate o tentate dall’imperialismo ne sono testimonianza.
Ne consegue che la lettura heideggeriana che fanno di ciò gli estensori del manifesto che stiamo esaminando va proprio nella direzione da non prendere.
Infatti qui la riduzione della realtà all’Esserci, cioè al soggetto, fa piazza pulita della sostanza e quindi di ogni ontologia degna di questo nome. Questa distruzione di ogni distinzione entra a gamba tesa sull’oggetto e trasforma le categorie marxiane in categorie esistenziali soggettive, non a caso adorate da chi – tanto a destra quanto a sinistra – usa sostituire il proprio approccio soggettivo all’oggetto da esaminare. Così, chi governa le forze produttive, lo Stato, il Partito, le multinazionali, i tecnocrati, o addirittura le forze produttive stesse in quanto tecno-scienza, e via così a seconda dell’avversario di turno, non potrà essere concepito che come la sintesi di un “Esserci” manipolatorio e totalizzante che domina su una società caratterizzata dalla “dispersione nel Si-stesso” totalizzato e manipolato, un aggregato di singoli individui esistenzialmente dominati, alienati, al quale contrapporre una contro-alienazione soggettiva che quindi può assumere ogni forma, anche quelle sgradevoli già sperimentate nella Storia.

Rivista Comunismo e Comunità

martedì 1 marzo 2011

Le urgenze politiche italiane poste dalle rivolte arabe



 Piero Pagliani  



1. Parto dalle rivolte arabe per mettere sul tappeto un problema più generale.

Per quanto riguarda il mondo arabo ritengo che siamo di fronte a cose molto diverse.

In Egitto e Tunisia c'è il tentativo imperialista (USA) e subimperialista (UE) di mantenere il controllo della situazione cavalcando e indirizzando le rivolte popolari verso esiti rassicuranti e per certi versi preventivati, ovvero cambi delle guardia indolori, basandosi sui militari.
Non è per nulla detto che la cosa funzioni, ma se anche il movimento popolare non dovesse fermarsi qui, si deve dotare di una direzione e di un’organizzazione, altrimenti saranno guai. Non siamo noi a doverlo insegnare a nessuno: qui è la Storia che dà lezioni a tutti.

La Libia è invece oggetto di un tentativo di balcanizzazione basato sui conflitti interni al regime e alla stessa famiglia Gheddafi. Alcuni ex (da poco) membri del regime si sono recentemente espressi a favore di un "intervento umanitario" per “evitare la guerra civile”, come Mahdi el-Arab, il capo di stato maggiore aggiunto dell’esercito libico. Se ci fosse stato bisogno di una riprova ce l’abbiamo.

I militari si corrompono con i loro giocattoli preferiti, cioè con le armi. Non è azzardato vedere in quel che sta succedendo anche un side-effect della massiccia vendita di armi moderne alla Libia da parte degli USA.

Infine fonti diplomatiche ad Islamabad hanno riferito che gli USA, la Francia e la Gran Bretagna hanno già inviato centinaia di “consiglieri militari” ai rivoltosi.



2. Bisogna capire che la caduta di Gheddafi porterà alla destabilizzazione di tutta la zona subsahariana, che ha grosse riserve petrolifere, in primis Sudan, Ciad e Nigeria. Sono sicuro che si userà questo fatto anche per cercare di contenere la penetrazione della Cina in Africa (paradigmatico è l'abbandono della Libia dei tantissimi cinesi).

Per non contare la volontà-necessità imperialista di controllare Paesi dell'area che non sono ostili ma nemmeno ciechi servitori, come la Siria e il Libano (dopo che la carta dei fedeli di Hariri si è rivelata non vincente). Ovviamente c'é poi sempre l’Iran.

Ricordo allora che questa, come ha rivelato il Generale Wesley Clark, ex comandante supremo della NATO, era più o meno la sequenza prospettata da Dick Cheney, l’indimenticabile Segretario alla Difesa di Bush: invasione di Afghanistan, Iraq, Libia, Libano, Sudan, Somalia, Siria e infine Iran.

Il Nobel per la Pace Barack Obama ha evidentemente aggiornato la lista, dato che dopo l’attentato-bufala del volo Amsterdam-Detroit del Natale 2009, ha immediatamente parlato oltre che di Somalia anche di Yemen (Paesi entro cui, guarda caso, si adagia il Golfo di Aden, passaggio obbligato delle petroliere sulla rotta da e per Suez); e, inoltre, ha aggiunto i bombardamenti sul Pakistan.



3. Insomma, siamo in piena Terza Guerra Mondiale e bisogna partire da questa constatazione per capire cosa sta succedendo.

Bisogna ad esempio prepararci a capire cosa dire e cosa fare se per caso all'Italia venisse la brillante idea di inviare un “corpo di pace” in Libia esattamente a 100 anni dall’inizio della colonizzazione sotto Giolitti.

Purtroppo in Libia non c'è nessuna forza democratica e popolare di riferimento. E questo rende più difficile capire come opporsi ad un’eventuale spedizione (forse UE, forse NATO), senza con ciò lasciare il campo agli USA. Intendo dire che non basta opporsi a una spedizione europea (che probabilmente sarebbe principalmente composta da Germania, Francia, UK e Italia, come chiede Obama), non basta opporsi al nostro coinvolgimento, ma occorre opporsi a tutte le mire imperialistiche sulla Libia, pur in mancanza di un interlocutore politico sulla sponda opposta del Mediterraneo, cosa che rischia di trasformare quella opposizione in un favore a quelle potenze che nella Libia “liberata” stanno già mettendo buone radici.

Occorre premere perché l’Europa esprima una volontà e una capacità politica di essere una potenza autonoma e non un esecutore degli ordini statunitensi.

Ma ciò comporta automaticamente una lotta per una ridefinizione di tutta la politica estera europea, in senso unitario, neutrale e a-imperialista (antimperialista mi sembra troppo) e per una ridefinizione radicale della politica interna, in senso antiliberista e antimonetarista.



4. Tutte e tre le cose, cioè a-imperialismo, sovranità e neutralità in politica estera (e quindi anche energetica) e infine antiliberismo/antimonetarismo sono intrecciate strettamente e presumo che saranno temi che gli effetti delle rivolte arabe metteranno all’ordine del giorno.

Se non si riesce a creare un fronte di Paesi europei di peso che vada in quella direzione bisognerebbe allora essere pronti a chiedere che l'Italia si dissoci dalla UE, anche per quanto riguarda la politica monetaria (accordi di Maastricht, etc), altrimenti il rischio serio è che ci potremmo ritrovare a casa degli altri con truppe in Africa, in Kosovo, in Libano e in Afghanistan e a casa nostra con uno smantellamento selvaggio di ciò che resta dello stato sociale. I 150 anni dell’unità d’Italia verrebbero così festeggiati con un ritorno alle peggiori abitudini, una sorta di politica imperiale senza nemmeno il welfare fascista, il tutto però benedetto in modo bipartisan.

Non è per nulla facile, ma occorre essere preparati a contrastare queste possibilità e per di più in poco tempo.

I partiti della sinistra su questo non ci seguiranno, è inutile illudersi. Anzi è certo che ci contrasteranno, chi direttamente chi facendo confusione alla ricerca di alleanze incoerenti.

E’ invece necessario unirsi con chi concorda su pochi principi base di azione politica e su alcuni punti chiave di carattere generale che occorre definire per abilitare le lotte che saranno obbligatorie.

E’ un compito urgente perché le cose rischiano di precipitare da un momento all'altro.
  
Megachip.