lunedì 26 marzo 2012

IL PROBLEMA, PER I LAVORATORI, È LA “LOGICA DELLA DELEGA”

di Sebastiano Isaia

                                                Cosa presuppone la puntualità tedesca?

Dal «modello sovietico» dello scorso millennio all’attuale «modello tedesco»: la “sinistra sindacale” ha fatto un passo nella giusta direzione. Verrebbe da dire: eppur si muove! Giusta direzione, beninteso, dal punto di vista della modernizzazione capitalistica. C’è, però, una quasi insignificante considerazione che complica un po’ le cose. Infatti, il tanto rinomato «modello tedesco» in materia di mercato del lavoro (una locuzione senza peli benecomunisti sulla lingua) presuppone la cosiddetta «economia sociale di mercato» made in Germany, ossia un sistema capitalistico altamente produttivo, efficiente, disciplinato, tutto orientato alle esportazioni di «beni e servizi».
                                              Modello tedesco. Un Capitalismo coi fiocchi!

È il caso del Bel Paese? Ovviamente no. Per implementare il welfare tedesco in Italia ci vorranno parecchi decenni di accumulazione capitalistica, perché la manna del valore, che rende possibile la sopravvivenza e lo sviluppo della società basata sul profitto, non cade dal cielo, ma viene fuori smungendo la Vacca Sacra del lavoro salariato (vedi Art. 1 della Costituzione). Detto per inciso, il progressista Cancelliere Schröder, oggi al servizio della rendita petrolifera russa, a suo tempo “riformò” radicalmente il «modello tedesco», adeguandolo alle nuove necessità del Capitale Teutonico post unificazione. E nulla osta a una sua ulteriore «manutenzione», per esprimermi come il salumiere che protempore guida il PD, se nuove esigenze apparissero all’orizzonte.Questo per dire quanto illusorie siano tutte le illusioni circa «modelli sociali» buoni per i lavoratori nell’ambito del vigente regime sociale mondiale. La finzione dell’autonomia dello «Stato Sociale» dal processo allargato dell’accumulazione capitalistica non regge ai colpi della crisi economica.

Franco Piperno ha dichiarato che la “riforma” dell’Art. 18 non intacca tanto il potere dei lavoratori, quanto «il potere contrattuale del sindacato». Del sindacato collaborazionista (o consociativo, ovvero corporativo), aggiungo io. Non c’è dubbio. Come ho più volte scritto, intorno a quell’articolo, e sulla pelle dei lavoratori, si gioca una partita politica tutta interna alla cosiddetta «sinistra italiana», cioè a dire alla galassia formatasi dopo il Big Bang del PCI. Ma non solo, naturalmente. La crisi economica ha fatto venire al pettine le annose magagne sociali (economiche, istituzionali, politiche, ideologiche, persino psicologiche) del Paese, a partire da quel Capitalismo assai “partecipato” dallo Stato che oggi non trova più alcuna base materiale (valoriale direi). Non c’è più trippa da spartire, signori! Questo ci dice la crisi finanziaria del Sovrano. Di qui, la crisi di una «sovrastruttura» (sindacalismo collaborazionista compreso) in larga misura sorta negli anni Trenta del secolo scorso come risposta alla Grande Crisi del ’29, di cui la pratica consociativa tra Stato-Confindustria-Sindacato è una plastica testimonianza. La “dissidenza” di Marchionne va inquadrata in questa crisi di sistema.
                                                   Mario è in Asia, per il bene del Paese.

Da buon liberale, Mario Monti ha dichiarato di non aver nulla in contrario agli scioperi proclamati dal sindacato, «perché il conflitto sociale fa parte della democrazia». La pratica consociativa aveva di mira proprio quel conflitto, per evitarlo o comunque depotenziarlo, «per il bene superiore del Paese». “Pace sociale” in cambio di qualche briciola da far cadere soprattutto sulla classe operaia delle grandi imprese, controllate dai sindacati di massa, espressione di lavoratori ridotti al rango di una massa inchiodata alla croce della «delega democratica», ai partiti, allo Stato, ai sindacati.

                                                                     Non si tocca?

Ecco perché, a mio modesto avviso, più che difendere l’Art. 18, diventato il feticcio ideologico e lo strumento politico degli ex militanti e simpatizzanti del «più grande partito comunista occidentale» (“comunista” qui sta per stalinista o statalista), chi vuole sviluppare una reale capacità di reazione dei lavoratori agli attacchi del Capitale nazionale e internazionale, deve porre la questione della loro attuale sudditanza nei confronti della maligna «logica della delega» che li rende politicamente e socialmente impotenti e incoscienti della loro straordinaria potenza sociale.

domenica 18 marzo 2012

Monti: la mutazione antropologica degli italiani


Luigi Tedeschi intervista Costanzo Preve.

Chi è Mario Monti? E perché è stato chiamato a varare manovre impopolari con il sostegno incondizionato dei partiti in Parlamento? Nell'attuale panorama politico e geo-politico ha ancora senso la dicotomia destra-sinistra? Chi esercita realmente il potere e quali scenari si aprono con l'avvento del nuovo capitalismo assoluto e "speculativo"? Alle soglie di un nuovo Medioevo degli "Economisti taumaturghi" la descrizione del presente in una discussione serrata sulla crisi della politica e sulla costruzione del consenso.

Luigi Tedeschi

Il 2011 sarà ricordato come un anno decisivo per l’Italia: un anno cioè in cui si sono determinati mutamenti rilevanti nella struttura della società italiana. Nel 2011, in conseguenza dell’aggravarsi della crisi del debito e dell’innalzamento dello spread, a seguito del declassamento delle agenzia di rating Moody’s e Standard & Poor’s, l’Italia ha subito dapprima il commissariamento della sua politica economica da parte della BCE, poi l’imposizione da parte del presidente Napolitano, con procedure di dubbia costituzionalità, di un governo tecnico guidato da Mario Monti, con l’unico inesorabile mandato di varare le manovre economiche imposte dalla UE.

Secondo l’orientamento della grande stampa e della quasi totalità dei media, “l’annus horribilis” 2011 si è concluso con un lieto fine: Mario Monti sarebbe dunque il nuovo uomo della provvidenza, l’ultimo in ordine storico, giunto per grazia bancaria a salvare l’Italia dal baratro del default finanziario e ad imporre una trasformazione sistemica in senso liberista della società italiana. La grande sconfitta è stata la politica. I grandi partiti, PdL e PD, già “mortalmente” contrapposti, si sono omologati nel sostegno incondizionato a Monti. Quest’ultimo ha infatti varato manovre impopolari che nessun governo precedente avrebbe potuto realizzare, se non con la prospettiva di perdere vaste fasce del proprio consenso elettorale.

L’unica polemica tra destra e sinistra, consiste attualmente nel rivendicare a sé il merito del sostegno incondizionato ed entusiasta a Monti, di aver già previsto e proposto senza successo manovre similari. La continuità tra Monti e i governi precedenti è evidente. Destra e sinistra rivelano dunque, se mai ce ne fosse stato bisogno, la loro gemellare e speculare identità nei programmi e nella prassi politica: la loro unica funzione da 20 anni a questa parte è stata quella di legittimare in Italia l’ordine economico e geopolitico occidentale. Ma il sostegno di PdL e PD a Monti ha accentuato la divaricazione già evidente tra classe politica e paese reale. Monti, al di là delle manifestazioni di protesta anche accentuate, oggi gode del consenso della maggioranza degli italiani, che, atterriti dallo spettro di una Italia condannata a seguire il destino della Grecia, giudicano positivamente l’operato del governo Monti, nella misura in cui specularmente rifiuta i politici e i partiti, la loro corruzione, la loro incapacità ad affrontare la crisi economica.

Il governo Monti, dunque rappresenterebbe il superamento della vecchia dicotomia destra/sinistra? Sembrerebbe di si, dal momento che entrambe convergono nella condivisione dei contenuti delle manovre “lacrime e sangue”, rivelando un insospettabile senso di responsabilità nazionale, un “patriottismo” finanziario-liberista che annulla tutte le contrapposizioni in nome della “salvezza nazionale”. In realtà, non è nei programmi del governo Monti realizzare un nuovo progetto di riforme politiche, semmai esso porta a compimento un processo di disgregazione della politica italiana e la sua omologazione alle direttive finanziarie UE, perpetrata attraverso l’azzeramento di ogni dialettica di ogni contrapposizione politica. In effetti il governo Monti non ha un programma politico, né vuole essere rappresentativo di una fantomatica unità nazionale.

È un governo “non politico”, composto da tecnici e come tale, non ha programmi progettuali, ma di mera attuazione delle direttive della BCE, in accordi con i gruppi finanziari di oltre Oceano, quali Goldman Sachs. Il governo Monti non svolge quindi nemmeno una politica economica. Che le misure di smantellamento dello stato sociale, di aggravio della pressione fiscale, di riforma in senso liberista della legislazione sul lavoro comportino cali di produzione, disoccupazione, recessione generalizzata, non è un fatto rilevante per Monti & C: le conseguenze sull’economia reale e l’impatto sociale delle manovre sono temi estranei alla azione governativa. Monti non è un premier eletto e non ha responsabilità dinanzi agli elettori: il suo mandato è limitato alle problematiche finanziarie connesse allo spread del debito pubblico e come tale, è tenuto a rispondere solo alle direttive sovranazionali della UE.

La classe politica si è omologata a Monti non per responsabilità, ma per allinearsi alla sua deresponsabilizzazione, che inevitabilmente comporta l’abiura cosciente e volontaria della sovranità nazionale, ormai ridotta a fardello inutile e rischioso nel mondo finanziarizzato occidentale.



Costanzo Preve

I colpi di stato oggi non si fanno più con i carri armati e con l’incarcerazione e la fucilazione degli avversari politici (si tratterebbe di patetici residui del cosiddetto “secolo breve”), ma con un’abile gestione extraparlamentare di magistrati, giornalisti ed economisti.

È il post-moderno, bellezza! Quello di Monti del 2011 peraltro non è il primo, è il secondo, dopo quello di Mani Pulite del 1992.

Nel primo caso si trattò di un colpo di stato giudiziario extraparlamentare, rivolto ad abbattere il sistema partitico della Prima Repubblica, certamente corrotto (ma non certo più corrotto di quello venuto dopo), ma pur sempre garante di un certo assistenzialismo sociale e di una sovranità monetaria dello stato nazionale, sia pure all’interno dello schieramento post-bellico americano. In questo secondo caso il colpo di stato non ha avuto bisogno di giudici e di manette, ma sono bastati i mercati internazionali e soprattutto la regia di Napolitano, il rinnegato ex-comunista passato al servizio degli americani.

Vorrei far notare quest’ultimo punto perché già nel 1992 i rinnegati ex-PCI erano stati decisivi per il colpo di stato giudiziario extraparlamentare, allora per odio verso Craxi, oggi per odio verso Berlusconi, entrambi già largamente indeboliti e delegittimati da asfissianti campagne di stampa. Lasciate cadere le chiacchiere demagogiche sulla “via italiana al socialismo” di berlingueriana memoria, i rinnegati si trovavano improvvisamente privi di qualunque legittimazione storico-politica, ma ancora dotati di un seguito identitario inerziale da sfruttare come risorsa politologica. I loro babbioni identitari furono prima fanatizzati contro Craxi (il corrottone, il porcone, il maialone), e poi contro Berlusconi (il nano di Arcore, il puttaniere, il crapulone). Certo Gramsci non avrebbe mai potuto immaginarlo, ma è questa la vichiana eterogenesi dei fini e la hegeliana astuzia della ragione storica.

La politica non è stata sconfitta solo nel 2011, perché era già stata sconfitta nel 1992. Inoltre, l’Italia nel 2011 non è stata sconfitta solo una volta, ma due volte. La prima volta è stata sconfitta in Libia, in cui è stata costretta dalla NATO a fare una guerra contro i più elementari interessi nazionali ed economici, con barbarico linciaggio finale del nazionalista panarabo nasseriano Gheddafi, trasformato in feroce dittatore dai gestori simbolici monopolisti dei cosiddetti “diritti umani”. La seconda volta appunto a Roma, con il commissariamento diretto del suo governo.

E’ assolutamente chiaro che ormai destra e sinistra sono solo segnali stradali e simboli di costume extra-politico (la sinistra vota il transessuale Luxuria, mentre la destra non lo voterebbe mai), ma appunto per questo la dicotomia è continuamente reimposta per motivi di tifo sportivo dal ceto intellettuale. Si tratta di una inestimabile protesi di manipolazione simbolica di un vero e proprio MAB (Meccanismo Acchiappa-Babbioni). Il suo potere inerziale è ancora forte.

Quando Bobbio difese la dicotomia, sostenendo che la sinistra era egualitaria, e la destra anti-egualitaria, descriveva uno scenario sorpassato, perché questo scenario presupponeva la sovranità monetaria dello stato nazionale e delle scelte politiche alternative di redistribuzione dal reddito. Ma questo scenario non esiste più, ed al suo posto ci sono questioni di gusto estetico e di snobismo culturale. Vorrei insistere su quanto ho già detto. La classe politica si è allineata a Monti non per responsabilità, ma proprio per il suo contrario, per deresponsabilizzazione.

Ricattati dalle polemiche contro la “casta”, inseguiti dalle plebi furiose per i loro privilegi alla mensa semigratuita di Montecitorio, essi si sono consegnati ad una “giunta di economisti” per cercare di zittire, almeno provvisoriamente, il linciaggio mediatico. Questo mi ricorda il caso di Eltsin, che consegnò la Russia in mano a miliardari mafiosi, ma quando fu nominato dall’idiota Gorbaciov si fece strada con una campagna contro i privilegi della “casta burocratica”. Ricordo che quando lessi per la prima volta il nome dell’ubriacone siberiano fu perchè aveva pescato un burocrate comunista moscovita con l’automobile piena di salsicce e di salsiccioni. Scilipoti e Scajola potranno forse rosicchiare di meno (ma ne dubito fortemente), ma in compenso le forbici di redditi fra i poveri ed i ricchi aumenteranno. E la plebaglia applaudirà perchè gli straccioni del ceto politico saranno obbligati a mangiare polenta e merluzzo anzichè crema di mais con pesce veloce del Baltico!

L’importanza storica di questi due fenomeni (linciaggio di Gheddafi con il nostro attivo contributo ed insediamento della giunta Monti) è di importanza assolutamente epocale. Per il resto condivido ovviamente le tue osservazioni, che sono addirittura troppo educate e gentili. Ma cosa sono le povere puttane del guardone impotente Berlusconi rispetto alla piaggeria giornalistica rispetto alla giunta Monti? E’ così che possiamo diventare “presentabili” all’estero? Totò avrebbe detto: ma mi faccia il piacere!

Luigi Tedeschi

Secondo la vulgata dei media e della cultura universitaria ufficiale, l’Italia necessita di profonde riforme strutturali, sia economiche che istituzionali, che liberino il paese dallo statalismo, affranchino l’economia dalla burocrazia, dalle eccessive tutele sociali che impediscono la mobilità del lavoro, da una spesa pubblica che comporta una pressione fiscale troppo elevata a carico delle imprese: deve essere attuato un programma di liberalizzazioni che affranchi l’economia dalla soffocante egemonia dello stato, al fine di promuovere crescita e sviluppo perché il paese si renda competitivo in un mercato globale in cui viene sempre più marginalizzato. Pertanto, l’insediamento del governo Monti è stato salutato entusiasticamente come l’avvento di una taumaturgia liberista che realizzasse in Italia quelle riforme di apertura al mercato indispensabili per omologare il nostro paese alle trasformazioni strutturali già attuate nell’occidente anglosassone.

Monti sarebbe quindi il messia da lungo tempo atteso dalla dottrina liberista? Sembra un paradosso, ma è lecito chiedersi, alla luce della svolta economica in atto, se Monti sia veramente liberale. A quanto è dato di costatare dalla realtà socio economica italiana i dubbi in proposito sono più che legittimi. Senza dubbio, Monti cresciuto e vissuto all’interno del capitalismo anglosassone è portatore di una visione esclusivamente finanziaria dell’economia: la strategia economica è decisa sulla base di provvedimenti solo di ordine finanziario, cui l’economia produttiva deve adeguarsi, come logica e necessaria conseguenza.

Il primato dell’economia finanziaria è estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e Smith, in cui il libero scambio è il risultato dell’attività produttiva degli individui, il libero mercato e la concorrenza (almeno in via teorica ed astratta), determinano la selezione delle capacità individuali e realizzano spontaneamente gli equilibri necessari tra domanda ed offerta. Ma il liberismo classico è distante anni luce dall’attuale mercato globale creato e governato dalle holding finanziarie che si impongono agli stati, ai popoli.

Ma al di là delle teorie liberali che tali sono e restano, esaminiamo i provvedimenti “salva Italia” di Monti & C. Essi hanno determinato rilevanti aggravi della pressione fiscale e tariffaria a carico di tutti i cittadini, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, con necessario impoverimento della popolazione, calo dei consumi e recessione prossima ventura. Un governo liberale, allo scopo di sviluppare la produzione, sarebbe alla diminuzione del carico fiscale, sarebbe contrario alla tassazione patrimoniale (quale è l’IMU), accentuerebbe il prelievo sui consumi anziché sui redditi.

Nella manovra montiana è stato accentuato il ruolo delle banche che accumuleranno profitti sull’incremento delle transazioni, ma nulla è stato previsto circa l’ampliamento della erogazione del credito, specie in tempi di crisi di liquidità. Le riforme del lavoro sono certo ispirate dalle pretese della grande industria, che però beneficia di sgravi fiscali e contributi pubblici. Lo stato liberale dovrebbe combattere gli oligopoli con leggi anti-trust che favoriscano la concorrenza. I tagli imposti allo stato sociale e l’innalzamento dell’età pensionabile pregiudicano l’accesso agli studi e le prospettive occupazionali dei giovani, con gravi lesioni al principio liberale di eguaglianza e impediscono il ricambio generazionale, la meritocrazia, la mobilità sociale, quali fattori necessari alla modernizzazione dl paese.

Lo stato liberale non offre tutele sociali, è non interventista in economia, ma dovrebbe (almeno in teoria), abbattere i privilegi e favorire l’individualismo oltre al ricambio sociale e generazionale. Il liberalismo offre (o almeno dovrebbe), meritocrazia e opportunità: prospettive estranee al governo Monti. Lo stato liberale non eroga servizi sociali né garantisce stabilità economica, ma non pretende tasse e contributi a fronte di tutele e previdenze oggi quasi inesistenti, né opera tassazioni che si rivelano espropriazioni di risorse a discapito dello sviluppo: l’esatto contrario della manovra “salva Italia”. Quanto poi alle liberalizzazioni attuate allo scopo di abolire lo statalismo e i privilegi della casta, costatiamo che una buona parte del governo Monti è composta da alti burocrati dello stato e che nessun provvedimento è stato previsto contro la casta dei dirigenti pubblici, della spesa pubblica improduttiva, del parassitismo locale e nazionale della politica. L’ideologismo liberale montiano ha la funziona di legittimare l’oligarchia finanziaria che governa la società italiana nell’economia e nelle istituzioni. L’orientamento dirigista – oligarchico del governo Monti apre una nuova fase politica ispirata e legittimata da un nuovo statalismo sovranazionale senza stato e senza democrazia.

Costanzo Preve

Tu osservi correttamente come quello di Monti sia un ben strano liberalismo ed un ben strano liberismo, che infatti non sono affatto tali, ma il loro rovesciamento nell’esatto contrario. Un ben strano liberalismo, perché il fondamento del liberalismo nella sua moderna forma liberaldemocratica è la volontà popolare espressa da un corpo elettorale sovrano, laddove il caso della Grecia, ma anche quello della giunta Monti, ci mostra l’esatto contrario. Un ben strano liberismo, perché il liberismo non risulta affatto da pretese (ed in realtà inesistenti) armonie economiche della mano invisibile del mercato, ma viene imposto in modo dirigistico. Insomma, un liberalismo senza volontà popolare (magari con la risibile scusa che la volontà popolare sarebbe “populista”, o quale altro aggettivo potrebbero trovare per babbionare la gente), ed un liberismo imposto in modo dirigistico. Kafka, Ionesco e Beckett diventano autori di un realismo naturalistico di fronte a questi ossimori!

Nel Medioevo c’erano i Re Taumaturghi. Ma oggi il medioevo è finito, e ci sono gli Economisti Taumaturghi. Tu fai giustamente notare che il presunto liberalismo di Monti non esiste neppure, alla luce di un corretto uso dei concetti, perché il primato dell’economia finanziaria é estraneo ai fondamenti filosofici ed economici dell’individualismo liberale classico di Locke e di Smith. Giustissimo, ma qui interviene la logica dialettica di hegeliana e marxiana memoria, che spiega la trasformazione di una realtà storica processuale nel suo contrario. Il rapporto di Monti e di Draghi con Locke e con Smith è simile, analogicamente, al rapporto di Lenin e di Stalin con Marx. Il paragone potrà sembrare ardito e paradossale, ma lo è molto meno di quello che si può credere.

Marx aveva immaginato un comunismo sulla base dell’autogoverno politico e della autogestione economica diretta della classe operaia, salariata e proletaria, senza burocrazia politica intermedia ed in vista dell’estinzione dello stato. Si trattava di un’utopia assolutamente inapplicabile, nonostante si fosse cercato di giustificarla in modo “scientifico”.

In primo luogo, lo stato non può estinguersi, e si trattava di un’utopia in parte romantica, in parte fichtiana ed in parte saint-simoniana (al posto dello stato politico, l’amministrazione delle cose).

In secondo luogo, le capacità di autogestione economica e di autogoverno politico senza mediazione organizzativa burocratico-partitica della classe operaia, salariata e proletaria sono pari a zero, come duecento anni di esperienza storica moderna mostrano a tutti coloro che intendano prendere atto dell’evidenza.

In terzo luogo, il capitalismo è certamente sfruttatore e distruttore, ma si è dimostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, a differenza di come Marx ipotizzava. In questo non vedo niente di male, e certamente niente di cui scandalizzarsi. Il sapere umano procede fisiologicamente per tesi ed ipotesi, conferme e smentite, prove ed errori, e Marx non era un profeta, ma un normale filosofo e scienziato sociale.

Lenin e Stalin si trovarono di fronte ad una teoria seducente e ad uno stupendo mito di mobilitazione (Sorel), ma del tutto inservibile ed inapplicabile. Furono così costretti, per tenere in piedi l’intenzione rivoluzionaria anticapitalistica, a trasformare il pensiero di Marx nel suo contrario, e cioè in una dittatura burocratica dello stato-partito. C’è chi parla di tradimento del pensiero di Marx (Trotzky, Bordiga, eccetera), ma io perso che non di tradimento si tratti, quanto di una dialettica storica del rovesciamento.

Ebbene, io penso che questa analogia funzioni anche per il rapporto fra l’originario liberalismo liberista di Locke, Hume e Smith e l’odierno dirigismo finanziario di Draghi e di Monti. L’originario liberismo di Smith era “tarato”, alla Luigi Einaudi, per un mercato praticamente puro, ed in quanto puro anche inesistente (lo stesso Locke era azionista di una compagnia di commercio di schiavi). Ma lo sviluppo capitalistico ha totalmente smentito, o più esattamente “svuotato”, il capitalismo “utopico” di Smith, almeno altrettanto utopico di come era utopico il comunismo di Marx.

Il modello capitalistico di Smith ed il modello comunista di Marx avrebbero entrambi dovuto funzionare senza stato, o con uno “stato minimo” tendente asintoticamente a zero. Pura utopia modellistica astratta. Il comunismo di Marx nel Novecento funzionò unicamente con lo stato, anzi con uno stato autoritario di partito monopolista del potere, dell’economia e della cultura.

Il capitalismo di Locke e di Smith funzionò unicamente incrementando il dirigismo statale al servizio dell’accumulazione capitalistica.
Personalmente, non credo che avrebbe potuto andare diversamente. Un mercato puro, senza intervento riequilibratore di un potere statale, getterebbe nella miseria più nera la stragrande maggioranza della popolazione. Finchè sono ancora in funzione le solidarietà comunitarie precapitalistiche (famiglia, tribù eccetera), c’è ancora riparo, ma con la generalizzazione dell’individualismo anomico ci sarebbe solo la guerra di tutti contro tutti, e non certo la spontanea armonia del mercato (ancora una volta, si consideri la Grecia di oggi).

E’ dunque del tutto triste, ma anche fisiologico, che al bel comunismo utopico ma inapplicabile di Marx succeda il comunismo autoritario ma “realistico” di Lenin e di Stalin. Ed è pertanto fisiologico che al capitalismo utopico di Locke e di Smitth succeda il capitalismo oligarchico ma “realistico”, di Draghi e di Monti.

La dittatura oligarchica dei mercati di Draghi e di Monti non può quindi in alcun modo essere compresa e studiata in base alle teorie classiche del liberalismo politico e del liberismo economico studiate nelle facoltà universitarie di economia e di scienze politiche. Si tratta di uno scenario completamente nuovo, di un capitalismo assoluto o “speculativo”. Personalmente, ho fatto grandi sforzi per tentarne la concettualizzazione almeno filosofica, e colgo l’occasione per annunciare che presto verrà pubblicata un’opera che ne rappresenta una prima sistematizzazione coerente ed analitica (cfr. Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012).

Ma non siamo che all’inizio del necessario riorientamento gestaltico. Il relativo isolamento in cui ci troviamo non è un isolamento rispetto alla società delle persone comuni, ma è esclusivamente un isolamento rispetto alle caste universitarie, politiche e giornalistiche, che saturano quasi al cento per cento lo spettacolo pubblico manipolato, in specie quello televisivo.

Non possiamo aspettarci a breve termine un risveglio di coscienza e di conoscenza. Troppo forti sono le forze inerziali della simulazione Destra/Sinistra, dell’identitarismo di partito di origine PCI, dell’antifascismo in assenza di fascismo e dell’anticomunismo in assenza di comunismo, oltre alle cantilene del Politicamente Corretto. Questa dittatura dei mercati è ancora relativamente nuova ed inedita, ed é normale che in questo momento domini la paura ed il ricatto del mancato pagamento dei salari e delle pensioni.

Siamo appena all’inizio del “tempo di cottura” che la storia ci prepara. La ricetta vuole il suo tempo.



Luigi Tedeschi

In Italia, al di là del dissenso manifestatosi nelle piazze, non si riscontra ancora la coscienza della trasformazione sistemica in atto e non è stata valutata l’incidenza sociale delle manovre governative, i sui effetti saranno tuttavia visibili tra pochi mesi. Il successo di Monti è dovuto al senso di panico collettivo diffuso dai media, che hanno creato uno stato virtuale di eccezione, sulla base della situazione greca.

La massa ha avvertito uno stato di pericolo esistenziale, poiché sono state messe in dubbio le sue stesse fonti di sopravvivenza, quali gli stipendi e le pensioni. La sopravvivenza e lo stato di eccezione si sono dunque rivelate le fonti di una nuova forma di sovranità, quella finanziaria della BCE, che tramite Napolitano ha imposto un governo del presidente, oltre e fuori della costituzione. Quindi oggi Monti può affermare legittimamente la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”.

Le abitudini si identificano in questo caso con le convenzioni, la morale condivisa di una collettività, la vita stessa degli individui. Dinanzi ai presupposti di un tale mutamento epocale, non si è manifestato un dissenso di massa diffuso, se non episodicamente, perché la società italiana si è dimostrata frantumata in una miriade di egoismi individuali e corporativi che spingono i singoli a difendere sé stessi e la propria condizione, ignorando ogni possibile sentimento appartenenza comunitaria, ogni possibile legame che colleghi le problematiche individuali ad una visione generale dell’interesse pubblico.

Questa situazione ha evidenti origini storiche. La politica italiana da dopoguerra in poi (i governi DC insegnano), è stata improntata ad un laissez faire degli individui e delle categorie, ad una legalità apparente ed indipendente da un paese reale che si è autogovernato (con il consenso tacito o esplicito della politica), e la società si è frantumata in migliaia di interessi diffusi. La politica ha ottenuto consensi sulla base della difesa degli interessi individuali e di categoria attraverso la corruzione e/o la loro legalizzazione. I governi che si sono succeduti fino ad oggi, si sono fatti interpreti di una visione dello stato sociale intesa come politica di tutela degli interessi privati e quindi si è verificato nel corso di oltre mezzo secolo un processo di progressiva privatizzazione dello stato e della politica, che ha condotto inevitabilmente alla scomparsa della politica stessa, intesa come problematica sociale legata alla res pubblica, per tramutarsi in fonte di elargizione e/o riconoscimento di privilegi piccoli e grandi.

La politica è divenuta gestione autoreferente di interesso privati. Gli stessi privilegi della casta, rappresentano il dovuto compenso reso alla politica a fronte della protezione offerta a interessi piccoli e grandi. In tale contesto, si comprende come le proteste contro la casta dei politici non hanno mai sortito effetti di rilievo. Lo stesso dissenso contro il governo Monti è stato espresso per lo più da corporazioni dotate di rilevanti referenze politiche spesso trasversali alla destra e alla sinistra. La stessa protesta è quindi espressione di uno stato di avanzata disgregazione sociale italiana: esso non è tanto animato da una condizione sociale svantaggiata, quanto ispirato alla difesa delle nicchie di interessi lobbistici piccoli e grandi. L’obiettivo di tale dissenso non è la politica liberista di Monti, ma il mantenimento dello status quo.

La mentalità diffusa è questa: che le trasformazioni liberiste antisociali avvengano pure, Monti cambi anche la vita degli italiani ma con le dovute esenzioni. Lo stato di eccezione dovrebbe per taluni convertirsi in stato di esenzione. Per il resto, per le categorie non protette, precariato, disoccupazione espropriazione delle pensioni (la protesta di è risolta in 2 ore di sciopero), sono fenomeni impliciti alla trasformazione in atto: il liberismo riguarda solo i poveri. Eppure è ben visibile la malcelata volontà della classe dominate di suscitare nuove e devastanti conflittualità sociali mediante la contrapposizione tra produttori e consumatori, nord e sud, lavoratori occupati e disoccupati, precari e stabili, dipendenti e autonomi, statali e privati.

Le categorie sono destinate a dilaniarsi in una guerra intestina devastante, che farà prevalere solo le grandi corporazioni bancarie ed industriali. La recessione e lo stato di necessità scatenano inevitabili guerre tra poveri a vantaggio delle classi dominanti. Secondo l’orientamento di Monti & C., cambiare la vita degli italiani non comporta l’instaurazione di una nuova società classista, strutturata cioè su centri di interesse contrapposti cui corrispondono funzioni economiche e ruoli sociali differenziati, ma semmai una società a struttura piramidale oligarchico - finanziaria composta da una elite dominante cui fanno riscontro solo dominati.

Costanzo Preve

Sono contento che tu abbia colto (e non era certamente facile al primo sguardo!) il carattere “antropologico” della proposta della giunta di eccezione Monti, e la sua volontà di “cambiare le abitudini degli italiani”. C’è qui una novità storica qualitativa rispetto al consueto “pessimismo” dei cosiddetti “anti-italiani” (le cui versioni di destra sono stati Prezzolini e Montanelli e le cui versioni di sinistra sono state Gobetti e Bobbio), che per secoli hanno criticato i cosiddetti “difetti atavici” degli italiani, per cui siamo peraltro largamente conosciuti in Europa, nonostante la rara presenza di personalità eccezionali (di cui nel mondo intero Garibaldi è la più conosciuta).

L’anti-italiano tradizionale è un pessimista cosmico sull’impossibilità di modificare radicalmente i comportamenti umani, ma spesso è mosso da una sorta di tensione morale che vorrebbe ristabilire un senso comunitario di esistenza nazionale, ed é per questo che gli anti-italiani si sono sempre equamente distribuiti a destra ed a sinistra, anche se i “partitari” fanatici hanno sempre e solo riconosciuto come legittimi i propri, e mai gli avversari. Ma con Monti siamo su di un terreno nuovo.

Monti vuole attuare un progetto di ingegneria antropologica tipica del fanatico liberista che è.

Mettendosi consapevolmente sulla scia di chi ha definito i giovani “bamboccioni” e “sfigati”, e non vittime di un ignobile sistema di lavoro flessibile e precario, Monti vorrebbe una sorta di artificiale anglosassonizzazione forzata della figura storica dell’italiano. Come tutti gli economisti professionali, egli è probabilmente del tutto ignaro di storia e di filosofia, che ha certamente abbandonato con la fine degli studi liceali. Eppure l’utopia dell’uomo “nuovo”, dell’uomo rinato, eccetera, non nasce affatto con l’ingegneria economica oligarchica neo liberale, e le sue ignobili porcherie sul “lavoro fisso noioso”, la cui oscenità raggiunge quella di chi mette un affamato in guardia contro i pericoli dell’obesità e del colesterolo.

L’“uomo nuovo”, ovviamente, non esiste. Esiste certamente l’Uomo (scritto con la maiuscola, contro ogni nominalismo relativistico), che percorre tre età della vita (la gioventù, la mezza età e l’anzianità), in ognuna delle quali ha esigenze comuni da soddisfare, fra cui la relativa sicurezza del lavoro e la stabilità nel tempo che gli permette anche il miglioramento del proprio profilo disciplinare (in cui Hegel rintracciava anche la base della sua morale comunitaria, la cosiddetta “eticità”). Questo è ciò che i greci chiamavano la “buona vita” (eu zen), in cui non si parlava certamente di “monotonia”, ma di “misura” (metron). Credere che da questa robusta base antropologica possa e debba nascere un “uomo nuovo” può soltanto essere o un’utopia burocratico-comunista, o un’utopia ultraliberale della flessibilità e della precarietà assolute gioiosamente vissute.

Stalin fu un grande sostenitore della “creazione sovietica dell’uomo nuovo”. Ne abbiamo visto le conseguenze a medio termine (poco più di mezzo secolo). Ma l’uomo non può essere ridotto a “materiale umano” di un progetto utopico. Il filosofo critico cinese Ji Wei Chi, che ha studiato il passaggio antropologico-sociale di massa dalla vecchia Cina comunistico-egualitaria di Mao alla Cina dei nuovi ricchi e dell’impetuoso sviluppo capitalistico ne ha effettuato un’analisi dialettica che certamente sarebbe piaciuta a Hegel. Tutte le vecchie virtù morali tradizionali cinesi furono concentrate e sublimate al servizio dell’utopia politica comunista, e quando quest’ultima cadde e fu abbandonata caddero con essa le vecchie virtù morali precedenti, e furono sostituite unicamente dal nuovo consumismo.

Il risultato è a mio avviso riassumibile così: chi vuole realmente “cambiare” l’uomo, migliorandolo e rendendolo più solidale e comunitario, non deve perseguire una ingegneria antropologica di tipo manipolatorio, né in direzione di un comunismo utopico, né tantomeno in direzione di un capitalismo utopico.

Ancora una volta, tu ti lamenti che non sia ancora visibile una vera opposizione di massa a questo progetto teratogenico, e te lo spieghi con la frammentazione corporativa della società, per cui ognuno spera in cuor suo che siano solo gli altri a dover cambiare, e non il proprio gruppo politico e professionale. C’è certamente molto di vero in questo, ma credo che la ragione di fondo sia altrove.

Il progetto di americanizzazione antropologica forzata dagli italiani, iniziata sul piano del costume con la sconfitta militare del 1945 (addossata al solo fascismo), solo ora nel 2012 può realmente dispiegarsi senza ostacoli, con l’integrazione completa in questo progetto del ceto politico e del clero intellettuale, giornalistico ed universitario. Sono ottimista sulla nascita di anticorpi di resistenza, ma ci vorrà sicuramente del tempo, e probabilmente molto più tempo di quello che resta alla nostra generazione.

Luigi Tedeschi

La crisi dell’Europa e dell’euro è evidente e aperta ad ulteriori a nuove degenerazioni, dato il divario incolmabile tra i paesi guida (Francia e Germania) e gli altri stati, condannati ad una crisi del debito insolubile. L’Europa non è uno stato. Come tu hai scritto, l’Europa è un progetto politico, ma, “un progetto politico, anche nobile, non può costituire una nazione”. L’Europa si identifica con la UE e l’euro, ma resta un insieme di stati - nazione non dotati di una piena sovranità politica, data la presenza di basi Nato nel vecchio continente.

Se l’Europa fosse uno stato dovrebbe liberarsi dalla subalternità agli USA e al dollaro. Inoltre, se l’Europa fosse una confederazione di stati, la crisi dell’euro non avrebbe avuto luogo, perché il debito degli stati sarebbe un debito interno e il potere centrale svolgerebbe la sua politica di sostegno perequativo tra i vari stati membri. La stessa crisi del debito ha la sua origine nel dato di fatto che l’euro non è una moneta rappresentativa di uno stato, ma della BCE, che non ha credibilità nei mercati finanziari, perché, non essendo emanata da uno stato, non esiste nemmeno un debitore in ultima istanza che ne garantisca la sussistenza e la sua solvibilità. Si è affermato che, secondo i dettami del dogma liberista imperante che anche gli stati possono fallire. Alcuni stati americani sono infatti falliti.

Perché allora non permettere il default della Grecia, anziché costringerla a manovre finanziarie economicamente suicide, che certamente non risolveranno il problema della insolvibilità del suo debito. Attraverso il default potrebbe invece svalutare il debito e rilanciare la propria economia. Perché l’agonia della Grecia e gli aiuti della BCE potranno garantire l’esposizione delle banche francesi e tedesche che hanno speculato sul debito greco. L’Europa non è una nazione e tu giustamente affermi che “le nazioni ed i popoli non si clonano dall’alto con una decisione economica. Nessuna BCE e nessuna giunta tecnocratica Monti potrà mai farlo”.

L’idea di nazione è estranea alle istituzioni finanziarie della BCE. Tuttavia dobbiamo costatare che l’arroganza e la volontà espropriatrice espressa dalla Germania della Merkel, seguita dalla Francia di Sarkosy, sono evidenti manifestazioni di una perversa riviviscenza dello stato-nazione, che si può riassumere nel concetto di nazione come corporazione finanziaria. Gli stati-nazione, non sussistono che nella loro versione degenerata, come espressione di interessi egoistici organizzati in lobbies finanziarie, le cui classi dirigenti hanno la funzione di garantire gli equilibri finanziari esterni (vedi BCE), e preservare lo status quo di un relativo benessere interno alimentando gli egoismi individuali e locali con legittimazione nazionale, a discapito delle altre nazioni condannate alla subalternità politica e alla espropriazione economica.

Il prezzo della sopravvivenza dell’euro è il suicidio delle nazioni. Nella politica italiana si va rafforzando il governo Monti, che probabilmente concluderà la legislatura. La grande stampa e i media sono allineati nel sostenerlo, esaltandone i prestesi successi e il prestigio internazionale sia in Europa che in America, dovuto all’assenso ricevuto per le manovre strutturali in corso di realizzazione. Il consenso “entusiastico” ricevuto da Monti dalla Merkel, Sarkozy e Cameron fa seguito alla esecuzione puntuale delle manovre imposte dalla BCE: l’allievo ha riportato buoni voti.

Monti è un tecnico che esegue e accetta i diktat, non un politico responsabile della sovranità del suo paese. Ma soprattutto la posizione di Monti si è rafforzata a seguito del plauso ricevuto da Obama. Come tutti i suoi predecessori, si è recato negli USA per ricevere l’investitura dell’imperatore dell’occidente, alla pari di un feudatario medioevale. Ma il plauso di Obama ha motivazioni diverse ed ulteriori. Obama vede in Monti non un leader italiano, ma il referente della BCE, del gruppo Bilderberg, il plenipotenziario della finanza internazionale in Europa ed in tale veste è stato considerato un interlocutore privilegiato dagli USA.

Monti è l’uomo che può imporre in Italia un modello liberista omologato agli USA, che in Europa nessuno ha accettato così integralmente. Non a caso il “Time”, afferma che Monti è l’uomo che cambierà l’Europa, perché egli è l’uomo della svolta anglosassone dell’Europa. Non lo è la Merkel, che non ha saputo governare la crisi dell’euro e non fa mistero delle sue mire espansionistiche. Non lo è Sarkozy, i cui consensi in Francia sono in rapida discesa proprio a causa della sua politica liberista. Sia la Francia che la Germania sono paesi che dovuto salvaguardare il welfare, anche a prezzo di dolorosi tagli, hanno un ruolo nella politica internazionale, mantengono aspirazioni nazionalistiche di fondo che possono ostacolare il primato degli USA.

Gli Stati Uniti sono una grande potenza, anche se decadente, hanno necessità non di alleati, ma vassalli europei affidabili perché privi di sovranità e dignità nazionale. Chi meglio dell’Italia di Monti può essere candidato a questo ruolo? La svolta di Monti in senso liberista, prelude a trasformazioni non solo economico-finanziario, ma anche geopolitico: vuole conferire all’Italia il ruolo di quinta colonna americana in Europa, paese importatore integrale del modello anglosassone e disposto ad accettare supinamente le avventure imperialiste americane.

Monti, forte della investitura americana pone una seria ipoteca sull’avvenire della politica italiana, presentandosi come credibile candidato leadership italiana post seconda repubblica. E’ stata inaugurata una nuova forma di leadership che prescinde dai consensi elettorali, non politica ma cooptata dagli USA. In America si è anche detto che non sembra nemmeno un italiano, infatti non lo è davvero.

Costanzo Preve

Chi è Monti, un uomo dei tedeschi (e della Merkel in particolare) o un uomo degli americani (e di Obama in particolare)? Cercherò di rispondere, sia pure in modo sintetico: tatticamente, è un uomo dei tedeschi, strategicamente è un uomo degli americani, ed è il terreno strategico quello fondamentale.
Sul piano tattico superficiale, Monti sembra l’uomo dei tedeschi, perché da essi mutua la politica recessiva e l’ossessione anti-keynesiana del pareggio del bilancio. Ma in realtà è l’uomo degli americani, come del resto tu dici con ammirevole chiarezza, quando parli di uomo della svolta anglosassone non solo dell’Italia, ma dell’intera Europa. Si è credito a lungo che una Europa unificata dall’euro potesse in prospettiva fare da contraltare strategico all’arroganza unipolare degli USA, e con questo argomento l’unità europea fu “venduta” alla sinistra ed al suo variopinto circo intellettuale. Ma oggi sappiamo che così non è, e che è anzi esattamente il contrario, in quanto la prospettiva eurasiatica si è rivelata (per ora) inconsistente, e non è uscita dal novero di rivistine semisconosciute.
La tradizionale disattenzione degli italiani per la politica estera, tipica di un paese privo di sovranità politica e militare, ha fatto sì che passasse praticamente inosservato il fatto che i nuovi ministri degli Esteri e della Difesa (un diplomatico di carriera amico della Clinton ed un ammiraglio bombardatore in Afghanistan, per conto della NATO), che hanno sostituito i precedenti pittoreschi berlusconiani Frattini e La Russa, sono “servi degli USA al cento per cento”.
Personalmente, non avevo mai avuto dubbi sul fatto che Berlusconi non fosse di pieno gradimento per gli americani. Non si trattava solo del suo stile di vita immorale di puttaniere, improponibile all’ipocrita puritanesimo USA. Si trattava dei suoi “giri di valzer” con Gheddafi e con Putin, fatti non certo per ragioni politiche o geopolitiche, ma per il vecchio fiuto del faccendiere e del venditore “chiavi in mano”.
E così come Berlusconi non aveva saputo normalizzare la politica interna, così non aveva saputo normalizzare la politica estera. Con Monti l’Italia ha finalmente trovato il capo del suo partito americano senza se e senza ma. Dove questo potrà portarci in un’epoca di crescente contrapposizione strategica USA con la Cina e di pericoli di guerra contro l’Iran, io non lo so e solo il cielo lo sa. E’ una povera consolazione rilevare che almeno noi ce ne siamo accorti.
 

venerdì 9 marzo 2012

 LA BUSSOLA SI E’ ROTTA



di Costanzo Preve



1. Non si può decentemente chiedere al marinaio di scendere in mare senza bussola, in particolare quando il cielo è coperto e non ci si può orientare con le stelle. Ma cosa capita quando si pensa che la bussola funzioni, mentre invece è magnetizzata e falsificata da un pezzo invisibile di calamita che gli sta al di sotto? Ecco, questa è una metafora abbastanza precisa della nostra situazione di oggi.



2. Con il governo Monti le cose si sono fatte a un tempo più chiare e più oscure. Si sono fatte più chiare (almeno per quel due per cento di bipedi umani che intendono fare uso del proprio libero intelletto, e non intendo prendere in considerazione il restante novantotto per cento), in quanto è evidente che la decisione politica democratica - tutta la decisione politica democratica, di sinistra, centro e destra - è stata svuotata, e siamo di fronte a una situazione del tutto imprevista nei manuali di storia delle dottrine politiche.

In breve, siamo di fronte a una dittatura di economisti a indiretta e formale legittimazione elettorale referendaria. E’ chiaro che questa dittatura di economisti avviene per conto di qualcuno, ma sarebbe sbagliato “antropomorfizzare” troppo questo qualcuno: i ricchi, i capitalisti, i banchieri, gli americani, eccetera. Questa dittatura di economisti è al servizio di una entità impersonale (Marx l’avrebbe definita “sensibilmente soprasensibile”) che è la riproduzione in forma “speculativa” della forma storica attuale del modo di produzione capitalistico (cfr. D. Fusaro, Minima Mercatalia. Filosofia e Capitalismo, Bompiani, Milano 2012). Da questo punto di vista le cose sono chiare.

Non è affatto chiaro, ma anzi è oscuro, il modo in cui questa giunta dittatoriale di economisti può “portare l’Italia fuori dalla crisi”. Essa è al servizio esclusivo di creditori internazionali, e il suo unico orizzonte è il debito. La logica del modello neoliberale è quella di delocalizzare la fabbricazione delle calze Omsa da Faenza in Serbia, in modo da poter pagare le operaie duecento euro.

In questa situazione, il mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra non è più soltanto un errore teorico. E’ potenzialmente un crimine politico.

3. Ultimamente, sono rimasto imbambolato a leggere un volantino del gruppetto “Sinistra Critica”. Non capivo neppure io stesso perché. Poi improvvisamente mi è sembrato di capire. Il termine “sinistra critica” è una contraddizione in termini, perché il presupposto massimo ed essenzialissimo di ogni critica, senza il quale la stessa parola “critica” perde ogni significato, è proprio il superamento della dicotomia Destra/Sinistra. Non si può essere critici e contemporaneamente di sinistra (o di destra, non cambia nulla).

Ho prima accennato al libro di Diego Fusaro pubblicato da Bompiani. In questa storia filosofica del capitalismo, dalle sue origini seicentesche fino a oggi non ci sono mai, ma proprio mai, ma assolutamente mai, le parolette Destra e Sinistra, per il semplice e nudo fatto che la mondializzazione economica capitalistica e la dittatura degli economisti che ne è necessariamente la forma, ha svuotato del tutto queste categorie. Norberto Bobbio poteva ancora parlarne in assoluta buona fede, perché ai suoi tempi esisteva ancora la sovranità monetaria dello Stato nazionale, e partiti di “sinistra” potevano mettere in atto politiche economiche redistributrici in misura maggiore di partiti di “destra”. Ma oggi, con la globalizzazione neoliberale, il discorso di Bobbio non corrisponde più alla realtà storica.

Esiste ovviamente un problema, dal momento che la dittatura “neutrale” degli economisti ha pur sempre bisogno di essere costituzionalmente legittimata da elezioni, sia pure svuotate di ogni significato decisionale. A questo punto si mette in scena una commedia all’italiana: la “sinistra responsabile” (Bersani, D’Alema, Veltroni, tutto il comunismo togliattiano riciclato); il “buffone di copertura” Vendola di cui si sa a priori che i suoi voti andranno comunque al PD; i “testimoni” del buon tempo antico Diliberto e Ferrero i cui voti andranno comunque al PD con la scusa del pericolo fascista, razzista, populista, eccetera; i partitini da prefisso telefonico Turigliatto e Ferrando che seguono il principio olimpico per cui l’importante non è vincere, ma partecipare; infine, i Testimoni di Geova del comunismo (Lotta Comunista) in attesa che il salvifico gigante buono, la classe operaia e salariata mondiale, si svegli.

L’ideale sarebbe quello ipotizzato dal romanziere portoghese José Saramago, e cioè che nessuno andasse a votare, sottolineo nessuno. Se nessuno andasse a votare, cadrebbe la legittimazione formale della dittatura degli economisti. Certo, il capitalismo troverebbe modo egualmente di estrarre un nuovo coniglio dal cappello, ma intanto ci sarebbe da divertirsi. Purtroppo si tratta solo di un sogno irrealizzabile. La Macchina Acchiappa-Babbioni è troppo buona per lasciarla andare in disuso.



4. Eppure, la soluzione sarebbe a portata di mano: una nuova forza politica radicalmente critica del capitalismo liberista mondializzato, del tutto estranea alla dicotomia Destra/Sinistra. Una forza politica che lasci cadere tutti i progetti di “rifondazione del comunismo” (il pensiero di Marx è ancora vivo, ma il comunismo storico è finito), e che riprenda invece le ispirazioni solidaristiche e comunitarie.

In teoria, è l’uovo di Colombo. Ma appunto perché lo è, ci vorranno ancora decenni e decenni, salvo improbabili accelerazioni storiche impreviste, perché si capisca che la bussola è rotta, e sinistra e destra sono soltanto segnali stradali.



5. Ora darò l’occasione a tutte le vipere, i ragni e gli scorpioni di gridare al “Preve fascista”. Eppure, se si ha paura di rompere i tabù tanto vale leggere solo romanzi polizieschi. Ultimamente un caro amico francese mi ha spedito il libro di Marine Le Pen (cfr. Perché la Francia viva, in lingua francese, Grancher, Paris 2012). So già che si parlerà di astuta manovra di infiltrazione populista del fascismo eterno, ma provate a leggerlo. C’è da restare stupiti. Io non sono stupito, perché conosco la dialettica di Hegel, l’unità dei contrari, e la logica di sviluppo dell’ultimo ventennio sia della sinistra che della destra.

Ma veniamo ai fatti. A pagina 135 Marine Le Pen scrive, traduco letteralmente: “Non ho da parte mia nessun patema d’animo a dirlo: la dicotomia fra destra e sinistra non esiste più”. I principali riferimenti filosofici sono a due pensatori di “sinistra”, Bourdieu e Michéa (pagina 148). Il vecchio comunismo francese di Marchais è citato positivamente e quindi, niente Pétain e Vichy. Sarkozy è vituperato sia per la sua politica estera filo-USA che per quella interna, favorevole alle diseguaglianze sociali. Sul mercato il principale riferimento teorico è Polanyi (pagina 26). Si rivendica il no alla guerra dell’Iraq 2003 (pagina 37). Marx è citato (pagina 61), e si sostiene, citando ripetutamente l’economista Allais, l’incompatibilità di mercato e democrazia. Ma soprattutto ci ho ritrovato quello che mi seduceva nel comunismo degli anni Sessanta, il fatto che la chiacchiera polemica di piccolo cabotaggio è messa in fondo e non all’inizio, perché all’inizio vi è un lungo capitolo intitolato, alla francese, “Il Mondialismo non è un Umanesimo”. La globalizzazione è correttamente definita “un orizzonte di rinuncia”, e si riafferma che “l’impero del Bene è prima di tutto nelle nostre teste”, ed infatti è così.

E potrei continuare, ma so già che ho dato alle vipere e agli scorpioni l’occasione per insolentirmi, ciò che non mancherà certamente di avvenire. In realtà voglio soltanto far riflettere.



6. Per capire che cosa sono oggi Destra e Sinistra non bisogna rivolgersi ai difensori “idealtipici” della permanenza della dicotomia, nei termini valoriali delle categorie dello Spirito, alla Marco Revelli. Bisogna leggere i difensori del sistema come Antonio Polito (cfr. Corriere della Sera, 25 febbraio 2012). Polito dice apertamente che la competizione politica può oramai avvenire solo sul presupposto, dato per scontato, dei vincoli del modello neoliberale di economia globalizzata. Il resto è un agitarsi inconsistente, dal pagliaccio Vendola a Forza Nuova. Questo è il nostro destino.

Che cosa propongono i “sinistri” ancora in attività, da Andrea Catone a Giacché a Brancaccio? Un rilancio del keynesismo e della spesa pubblica in deficit dentro l’Unione Europea? Una ennesima messa in guardia contro i pericoli del razzismo, del leghismo, del populismo? Una globalizzazione alternativa dal volto umano? Ora che il Grande Puttaniere non occupa più il centro della scena con cosa si continuerà a babbionare il tifo sportivo identitario del popolo di sinistra?

Se si legge il documento “Cina 2030” della Banca Mondiale, recentemente presentato a Pechino, si vedrà che la dittatura degli economisti si estende al mondo intero. Le ricette sono le stesse. Ora, la rivoluzione non è matura, e non è certo all’ordine del giorno, sia nella variante stalinista (Rizzo) che in quella trotzkista (Ferrando). Ma neppure il riformismo è all’ordine del giorno, perché il riformismo implica sovranità dello Stato nazionale. E allora? C’è ancora chi si balocca con il comunismo contro il fascismo o con il fascismo contro il comunismo? Oggi il nemico è la dittatura degli economisti neoliberali. Con essa non si può fare nessun compromesso. Questo è il primo passo. I successivi, se si fa questo primo passo, potranno seguire.

Sulla votomania compulsiva.

E’ probabile che l’americanizzazione integrale e radicale (altro che europeismo!) portata dal governo Monti e dalla sua dittatura di economisti porti a una diminuzione della partecipazione elettorale degli italiani, che dopo il 1945 ha sempre avuto livelli di delirio. Questa votomania compulsiva, evidente fra gli anziani, è legata alla contrapposizione DC-PCI, ed è rimasta come “lunga durata” anche nel periodo craxiano, prodiano e berlusconiano. Ma oggi che lo Stato non dà più niente e prende soltanto dovrebbe diminuire, ma purtroppo non abbastanza. C’è sempre spazio per i Casini, Veltroni, Vendola, eccetera.

A fianco della diminuzione probabile della votomania compulsiva, si nota un secondo aspetto della americanizzazione, il declino della politica estera come oggetto di dibattito. Negli USA è normale che la gente non sappia neppure dove sia l’Afghanistan, l’Iraq o la Siria, il cui bombardamento è delegato a esperti specializzati. I tempi in cui tutti erano informati della Corea e del Vietnam sonmo passati, per ora irreversibilmente. L’intera classe giornalistica, senza nessuna eccezione, è diventata una “gioiosa macchina da guerra” di menzogne integrali.

Al tempo della guerra del Golfo del 1991 c’era ancora discussione, poi non più. Ci fu quella che Carl Schmitt definì in latino reductio ad Hitlerum, cioè riconduzione al feroce dittatore di tutti i mali della società, unita con l’invenzione (questa invece di origine di “sinistra”) di tutto un popolo unito contro un dittatore. I popoli furono mediaticamente uniti contro sempre nuovi Hitler nemici dei diritti umani. Il gioco cominciò con Ceausescu, poi con Noriega, Saddam Hussein, Ahmadinejad, Milosevic, Gheddafi, adesso Assad. La storia fu abolita e al suo posto si insediò un canovaccio di commedia, sempre lo stesso: i Popoli uniti contro il Feroce Dittatore; il Silenzio Colpevole dell’Occidente; i Dissidenti “buoni” cui è riservato il diritto di parola. In un anno di televisione manipolata non ho mai sentito intervistare un solo sostenitore di Assad, eppure la Siria ne è piena.

Solo quando il gioco si fa duro, ha senso che i duri comincino a giocare. Fino a che regna la pagliaccesca simulazione italiana Destra/Sinistra le cose saranno sempre come quegli incontri americani di catch in cui è sempre e solo tutta scena per i babbioni spettatori.

Stato nazionale, sovranità nazionale, programma solidale e comunitario, no alla globalizzazione in tutte le sue forme e alla sua dittatura di economisti anglofoni!

Torino, 3 marzo 2012

mercoledì 7 marzo 2012


QUELL'AMERICANATA DELLA MMT (2)

Una teoria economica imperialistica?
La Modern Money Theory o il mito della Cornucopia 


(seconda parte)


di Moreno Pasquinelli


«Potevamo andare al summit di Rimini a dire queste cose? Meglio di no. E comunque non sarebbe stato possibile, visto che il Barnard l’ha organizzato alla stregua di un simposio di sacerdoti gnostici, quasi si trattasse di un rito per seguaci o iniziati».


La bacchetta magica fasulla della MMT



La MMT non ci convince. Ciò non dev’essere inteso come una perorazione delle politiche degli eurocrati —che tengono duro con la linea contraria, quella del ferreo pareggio di bilancio (salvo erogare, vedi la decisione della Bce di Mario Draghi, una montagna di danaro fresco alle banche per evitare il loro fallimento). Né vogliamo negare (fermo restando il diverso universo concettuale) i punti di accordo con gli MMtisti, quattro fondamentalmente: l’attacco all’architettura stessa dell’Unione europea, la necessità per uno Stato di esercitare pienamente la propria sovranità monetaria, quindi la preferenza per l’uscita dall’eurozona, ed infine che la banca centrale di uno stato sovrano dovrebbe usare la leva monetaria in favore degli interessi del popolo lavoratore e non di quelli di ristrette oligarchie finanziarie e della pletora di ceti sociali parassitari.

Quel che cerchiamo di sostenere è che il sistema economico capitalistico ha delle sue proprie leggi di movimento, che la recessione deve seguire sempre il periodo di crescita, che le crisi catastrofiche sono connaturate ad esso, che per uscirne, come aveva sottolineato Marx, il capitale deve compiere per intero il suo ciclo di svalorizzazione e che per ri-valorizzarsi e rilanciare il ciclo di accumulazione esso deve passare per una guerra fratricida tra capitali (i liberisti, con pelosa metafora, la chiamano distruzione creativa) e vincere quella col lavoro salariato, riducendolo in condizioni di schiavitù. Cerchiamo di sostenere che la terapia che ci propongono gli MMTisti per porre fine al marasma, tutta fondata sulla centralità della moneta e quindi sull’idea che la banca centrale debba stampare moneta a gogò per finanziare ad libitum la spesa pubblica è una pia illusione.

Se la crisi degli anni ’60-’70 revocò in dubbio la validità della teoria economica keynesiana —col che ribadiamo il nostro dissenso con la tesi, come minimo semplicistica del Barnard (domanda: ma i teorici della MMT la condividono?), per il quale le politiche economiche di tipo keynesiano vennero abbandonate a causa del complotto di ristrette cricche di plutocrati—, l’attuale impasse dell’economia americana mostra l’inefficacia della terapia anti-ciclica fondata su una politica monetaria espansiva e sull’indebitamento pubblico.

Non c’è dubbio infatti che nella disperata ricerca evitare che il capitalismo precipiti nell’abisso, di contro alla cura deflattiva perseguita dagli eurocrati, le autorità politiche e monetarie anglosassoni stiano agendo di rimessa in base alla Keynesiana Trappola della liquidità.

La trappola descrive la situazione in cui la politica monetaria non riesce più a sortire effetti sull’economia in recessione. Si cade nella trappola quando i tassi d’interesse pur essendo prossimi allo zero e non potendo scendere ulteriormente non riescono a far ripartire il motore economico. Per spiegare l’arcano Keynes la butta in psicologia: non i tassi d’interesse, afferma, sono il fattore decisivo, bensì “la fiducia” dei capitalisti. Quando i loro sentimenti sono dominati dall’incertezza e dalla paura essi non investono, tesaurizzano anziché spendere. Così la domanda si blocca e sopraggiunge la recessione, questa crea la disoccupazione, la quale, a sua volta determina minori redditi e calo dei consumi.

Con tutto il rispetto per Keynes, la sua spiegazione emotiva delle crisi capitalistiche non sta né in cielo né in terra. Mette in luce due cose: che egli non aveva compreso l’essenza stessa del modo capitalistico di produzione, e dunque la sua distanza siderale dal pensiero Marx. E qui cade la pretesa di alcuni degli MMTisti, tra cui L. Randall Wray per cui la MMT sarebbe, tra l’altro, l’incontro tra Keynes e Marx. Il tentativo di ottenere un cocktail tra i due è come pretendere di mescolare olio e acqua, i due elementi alla fine si scorporano per tornare al loro irriducibile stato fisico.

La MMT è invece, come abbiamo detto, una versione sesquipedale del keynesismo, solo con più attenzione etica a nobili valori sociali. Ascoltiamo quel che dice l’americanissimo Barnard nella sua vulgata ad uso e consumo dei suoi compatrioti.
E una citazione lunga, ma ne vale la pena, perché contiene la quint’essenza della MMT:



«In primo luogo, il governo americano potrebbe retribuire ogni disoccupato con uno stipendio che gli rende possibile vivere, anche a quelli che attualmente hanno un salario bassissimo. Ha tutti i soldi del mondo per farlo, perché il nostro governo possiede il dollaro USA e può pagare qualsiasi salario voglia (sotto vi darò una semplice spiegazione).
Voi chiederete: questo non provocherebbe un aumento del già enorme debito pubblico? No, per niente, semplicemente perché una classe lavoratrice americana ben pagata può creare tanta nuova produzione, nuove infrastrutture, nuovi investimenti e nuovi servizi che forniranno più ricchezza nelle tasche degli americani e nelle casse del suo governo. Si tratta di una spesa pubblica che finirebbe per pagare in gran parte sé stessa, a beneficio di tutti. Non c'è bisogno d'aver paura di un debito ingente.
In secondo luogo, il governo potrebbe pagare adeguati servizi per tutti gli americani, vale a dire una copertura sanitaria universale, una buona istruzione, l’assistenza sociale per i bisognosi e gli anziani e un buon sistema pensionistico. Di nuovo, non provocherebbe ulteriore debito a Washington, perché ci renderebbe di nuovo migliori lavoratori, migliori studenti e anziani meno bisognosi.
In sintesi: saremmo una nazione ancora più competitiva che crea valore invece di sprecarlo per problemi sociali gravissimi. E una società dove il senso di sicurezza sostituisce il dolore e la paura porta a meno mali sociali, a meno disintegrazione della famiglia, a meno criminalità.
Suona bene, vero? Ma il governo ha davvero tutti questi dollari da spendere per noi? (…) Solo il nostro governo può farlo [stampare dollari, Nda]. Lo fa presso la Tesoreria e alla Federal Reserve.
Pensate in questo modo: il governo crea dollari mettendo la sua firma su pezzi di carta (banconote e obbligazioni), oppure sui trasferimenti di moneta elettronica. Può mai essere a corto della propria firma?
Ha bisogno di prenderli in prestito da qualcun altro? Ha bisogno di tassare la gente per riavere quelle firme che lui ha creato? No, certo che no. Quindi, per ricapitolare: il governo crea nuovi dollari, non deve mai prenderli a prestito, non può mai finirli, non ha bisogno di tassare nessuno per questo. E così può usare i suoi dollari per fare qualsiasi cosa voglia, come creare occupazione per tutti noi, educare tutti noi, prendersi cura di tutti noi. E non dimenticate: questa forma di spesa del governo finisce per pagarsi in gran parte da sola, a causa del circolo virtuoso della nuova ricchezza nazionale netta che crea.

E questo non richiede super-tasse per nessuno. In realtà, tutto funziona proprio come se il governo ci desse più dollari di quanti ne preleva con la tassazione.
Si combatte anche l'inflazione grazie a tutte le cose nuove che saranno prodotte e così il governo riuscirà a smettere di aumentare la sua spesa (oppure ulteriori emissioni di dollari) quando tutti noi avremo più posti di lavoro». [Paolo Rossi Barnard, La moderna teoria monetaria spiegata alle mamme]

Come detto: il paese della Cuccagna.
Anzi, ci vengono in mente le parole del Boccaccio quando descriveva il paese di Bengodi:

«Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de' Baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un'oca a denaio e un papero giunta; ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú, e chi piú ne pigliava piú se n'aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d'acqua».

Come si può credere a simili sciocchezze? Vero è che la MMT è una teoria più complessa di quanto Barnard tenti di far credere, che la sua è una volgarizzazione forse maldestra. Tuttavia il succo non gli è sfuggito. Come ha confermato Michael Hudson a commento dell’incontro di Rimini:


«Quindi, qual è l’aspetto fondamentale? È avere una banca centrale che opera nel modo per cui sono state fondate: per monetizzare il passivo di bilancio e per spendere fondi nell'economia, nel modo adatto a promuovere la crescita economica e la piena occupazione. Questo era il messaggio della MMT per cui cinque di noi sono stati invitati a Rimini».

La gallina dalle uova d’oro non esiste…

E’ stato giustamente fatto notare che il modello proposto dalla MMT, semmai avesse un luogo in cui potesse funzionare, questo sarebbe soltanto quello di un paese ad economia chiusa e pienamente protezionista. In altre parole esterno al mercato mondiale. Lo staliniano “socialismo in un solo paese” verrebbe da pensare, o l’autarchia fascista.
Monetizzare un passivo di bilancio crescente emettendo titoli di debito, autorizzare la banca centrale a stampare illimitatamente moneta per accrescere e finanziare la spesa pubblica, non porterebbe al collasso catastrofico solo in un luogo immaginario posto fuori dal mercato capitalistico mondiale.
Ancora deve nascere un sistema economico che possa starsene fuori dal sistema di vasi comunicanti rappresentato dal mercato mondiale. Accadde alla Cambogia dei Khmer Rossi, tuttavia Pol Pot non farneticava che il suo paese sarebbe potuto sopravvivere a lungo isolandosi dal mondo. Nel suo piano i lavori forzati per rilanciare la produzione su larga scala di riso, erano solo il male necessario per dare vita ad un’accumulazione primitiva che avrebbe consentito al paese di superare la soglia dell’autosufficenza alimentare, raggiungere livelli produttivi che avrebbero permesso in un secondo momento di esportare riso in cambio di beni strumentali per avviare l’industrializzazione. Pol Pot, al contrario degli MMtisti, aveva capito Marx, che in ultima istanza la Legge del valore l’avrebbe spuntata.

Un paese “evoluto”, non con un’economia claustrale (ma le abbazie benedettine non lo erano nemmeno loro), cioè con un sistema industriale avanzato e una popolazione dai bisogni molteplici, è costretto a importare tutto quanto serve alla sua economia. Con che pagherebbe questi prodotti? Dando in cambio a chi li offre la sua propria moneta? Ma come sperare che essi la accettino se detto paese sta fuori dai mercati finanziari e monetari internazionali? Essi la rifiuterebbero, per la semplice ragione che non gli attribuirebbero alcun valore e chiederebbero di essere rimborsati con una terza moneta di conto che abbia per loro valore, o con un equivalente come l'oro.

A questo punto al nostro paese non resterebbero che tre scelte: o l’autarchia, appunto, ma ciò a spese del proprio sviluppo e del benessere dei cittadini che dovrebbero vivere con quello che passa il proprio convento (altro che Bengodi!); o proporre uno swap, un baratto, dando in cambio al fornitore le proprie merci; o decidersi, allo scopo di disporre di una terza moneta o di oro, ad entrare nei circuiti finanziari e monetari internazionali internazionali, con tutto quanto ne consegue.

E’ evidente che il baratto (seconda scelta) ha limiti intrinseci, di sicuro è una gabbia per scambi generalizzati, poiché l’altra parte potrebbe non avere alcun bisogno dei beni che tu offri in cambio, e viceversa. Esso avverrebbe comunque in base alle leggi di mercato (ecco che non sfuggi alla Legge del valore). Come stabilire che ad una data quantità di merce X debba corrispondere questo e non un altro ammontare di merce Y? Da che dipende il loro valore di scambio se non dalla quantità di lavoro, vivo e passato, in esse contenuto? Ma allora ciò che verrebbero qui a confrontarsi faccia a faccia sono i livelli di produttività: se una mia giornata lavorativa produce (grazie ad esempio ad un uso di tecnologie più avanzate e a tassi di sfruttamento della forza lavoro più alti) il doppio della tua, in base al principio dello scambio tra equivalenti, minor tempo di lavoro si scambierà con maggior tempo di lavoro, col che avremo un drenaggio di ricchezza dal paese meno produttivo a quello che lo è di più. Se il paese A impiega il doppio di tempo e risorse per estrarre un barile di petrolio rispetto ad un suo concorrente non è che io, B, che ti offro, che so, macchinari, te lo pago il doppio del tuo concorrente. Il valore di una merce, sottolineava Marx svelando l'arcano su cui si erano impigliati i classici, dipende non dal mero tempo di lavoro speso per produrla (che aaltrimenti il prodotto di uno scansafatiche che impiega il triplo di tempo di un altro avrebbe il triplo del valore), ma dal lavoro medio socialmente neecessario effettivamente erogato.

Ma questa seconda ipotesi è del tutto virtuale. Se non vuole perire sotto questa forma di autarchia capitalstica mascherata, un paese quale che sia, che adotti o non adotti la MMT, deve tornare sui mercati finanziari e monetari internazionali. Ma se torna nel grande gioco degli scambi capitalistici (la qual cosa è appunto data per scontata dagli MMTisti) esso non può farsi regole su misura, deve soggiacere alle leggi che presiedono questi scambi. Allora esso dovrà fare i conti con la bilancia dei pagamenti, con la legge della domanda e dell’offerta, con le partite correnti, con la politica dei cambi (fissi o flottanti), con la convertibilità o meno della sua valuta e dei suoi tassi di cambio, con le politiche monetarie degli altri, quindi svalutazioni competitive, inflazioni, default e spietata concorrenza. E dovrebbe forse trovare acquirenti stranieri affinché acquistino i titoli di Stato emessi per finanziare la propria macchina pubblica o il suo welfare. Una volta entrati nel circuito si possono adottare politiche protettive, non abolire e nemmeno sterilizzare le sue dinamiche effettuali.

Col che addio al dogma della MMT. Te lo scordi che il governo e la tua « banca …possano… monetizzare il passivo di bilancio e per spendere fondi nell'economia, nel modo adatto a promuovere la crescita economica e la piena occupazione», se sono incapsulati nel mercato mondiale, con banche e aziende che operano sui mercati globali, a borse aperte. Tutto potrebbero fare, meno che applicare una politica economica realmente indipendente.


La moneta, per quanto abbia tre funzioni (mezzo di scambio, unità di conto e riserva di valore) resta pur sempre una sovrastruttura. Essa è il simbolo, per quanto astratto, della ricchezza sociale e questa consiste, in ambiente capitalistico, in merci, in merci il cui valore dipende anzitutto dal lavoro (vivo e passato) in esse contenuto.


E’ quindi, oltre alla natura, il lavoro è la sola sorgente da cui sgorga la ricchezza sociale —che il denaro rappresenta e di cui consente la circolazione. Hanno voglia gli MMTisti a dire il contrario: il denaro non se ne sta sospeso nella stratosfera, dev’esserci una relazione tra soggetto e predicato, un legame indissolubile tra il simbolo e ciò di cui esso è segno astratto. A meno che non si vogliano accettare i meccanismi perversi e fasulli del capitalismo-casinò (per cui ti vendo, come Totò, anche la Fontana di Trevi, ma abbiamo visto dove siamo arrivati), non posso scambiare che ciò che effettivamente produco, e se metto in circolazione una quantità di moneta eccessiva, prima o poi, più prima che poi, il simbolo si deprezzerà, avrò svalutazione e, se non corro ai ripari riducendo la quantità di moneta in circolazione, essa potrebbe avere il valore della... carta straccia. Non posso stampare carta moneta a gogò, come se il suo valore, come la manna, scendesse dal cielo, e non invece dal lavoro, dalla produzione complessiva di beni.

…a meno che…

O il valore della moneta (che per quanto metamorfica è pur sempre una merce) dipende dal valore di chi la emette? E da che dipende questo valore dell’emittente? Dalla sua solvibilità. E da cosa dipende la sua solvibilità se non dalla capacità di creare surplus, ricchezza eccedente (e quindi destinata allo scambio)? Il mercato se ne fotte del blasone di questa o quella banca centrale. Il mercato si è già vendicato nel settembre 2009 dei trucchi del capitalismo-casinò sui derivati e la montagna dei collaterali spazzatura. Repetita juvant: il valore di un segno monetario così come quello dei titoli di debito di uno Stato vengono stabiliti in base ai fondamentali, ovvero in base alla potenza del sistema produttivo di cui sono semplici rappresentanti. Per dire che piena occupazione e benessere dipendono dalla produttività del sistema dato di produrre motu proprio quantità crescenti di sovraprodotto sociale e nient’affatto dalla quantità di moneta circolante.

I teorici della MMT dovrebbero dirci, una buona volta: com’è che il loro sistema può funzionare senza uscire dai mercati finanziari mondiali? Com’è che la banca centrale può finanziare a piacimento la spesa pubblica in ambiente capitalistico? A borse aperte in cui si transa il grosso dei capitali? Col sistema creditizio in mano al capitale privato? Con le banche oramai prima di tutto banche d’affari e non più meramente commerciali? Con i mezzi di produzione concentrati in mano a ristretti gruppi oligopolistici? Con il sovraprodotto sociale che in quanto plusvalore è accaparrato dal capitale? Dovrebbero dirci questo invece di menare il cane per l’aia e di camuffare questo loro razzolare con i loro tecnicalismi e le loro fumisterie algebriche, che tradiscono la loro adesione alla teoria economica post-marginalista e quantitativa?

Ci viene un dubbio lancinante…

Esiste teoricamente un altro ambiente oltre ai tre da noi descritti (autarchia, baratto, libero scambio) in cui gli MMTisti potrebbero mettere in pratica la loro dottrina. In linea teorica le loro ricette potrebbero essere applicate in un paese imperialista forte, anzi in un paese super-imperialista. Una paese che sia al contempo la prima potenza industriale, agricola, finanziaria, tecnologica e militare, ovvero un paese che abbia una dispiegata supremazia mondiale, e che grazie alla sua posizione dominante possa drenare e captare surplus da tutte la aree del mondo e spalmare ai quattro angoli del globo il proprio debito pubblico e la propria inflazione, e che al contempo li minacci tutti e li soggioghi con la sua deterrenza militare.

Uno stato simile, non lo escludiamo, potrebbe applicare, con relativo successo, le dottrine della MMT.

Ci viene in mente che questo Stato in effetti esiste, per quanto oramai profondamente ferito e malato: sono gli Stati Uniti d’America. Così verrebbe fuori non solo che le teorie degli MMTisti sono nate in ambiente yankee, e che solo in quello potevano nascere, ma che la loro teoria si attaglia e solo può attagliarsi agli Stati Uniti in quanto super-potenza imperialistica.

Il dubbio è questo: non sarà che la MMT è una teoria economica imperialistica? Proprio gli americani usano dire: «Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera».

Potevamo andare al summit di Rimini a dire queste cose? Meglio di no. E comunque non sarebbe stato possibile, visto che il Barnard l’ha organizzato alla stregua di un simposio di sacerdoti gnostici, quasi si trattasse di un rito per seguaci o iniziati.

Ma l’economia, abbiamo detto, è sempre economia politica, le idee economiche sono sempre idee politiche, che non solo dovrebbero giungere alle masse, ma debbono essere sottoposte al vaglio della critica. Due cose che non interessano per niente al Paolo Rossi Barnard. Peggio per lui.