lunedì 7 novembre 2011

La questione nazionale e la prospettiva della sinistra



conversazione con Spartaco Puttini
a cura di Mattia Nesti

Per tutte quelle realtà politiche e sociali che si pongono il problema di superare questo sistema economico, che valore assume la “questione nazionale”, anche in relazione alle esperienze di altri Paesi (pensiamo al Sudamerica) e alle continue interferenze in Italia della NATO, della BCE o del FMI? E quali implicazioni ha nella pratica politica quotidiana di un movimento che ambisce a liberare i lavoratori e le classi sociali deboli del Paese?

La questione nazionale assume grande rilevanza nell’attuale contesto storico, nell’attuale lotta contro l’imperialismo. Coloro che vogliono superare il sistema economico vigente, e non solo limitarsi a qualche ritocco di facciata che lascerebbe immutato il sostanziale sfruttamento che caratterizza il sistema stesso, devono pertanto impugnarla. La questione nazionale è la lotta in difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza (non solo formale) del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. E’ la lotta propria della nostra epoca storica, i cui limiti sono ben più ampi di quanto aveva stimato Hobsbawm nel suo “secolo breve”. La questione nazionale è estremamente attuale in un momento in cui gli Stati Uniti con i loro vari tentacoli (FMI, Banca mondiale, Nato) cercano si svuotare la sovranità nazionale dei paesi e dei popoli che si oppongono alle loro ambizioni di dominio globale per instaurare quel Nuovo ordine mondiale che giustamente Fidel Castro ha definito come la loro“dittatura planetaria”.

La questione nazionale è come un prisma, ha varie facce.
Vi è il lato economico: si tratta della difesa dell’intervento pubblico in economia con un ruolo propulsivo; della proprietà statale sui settori strategici, cioè su quei settori (acqua, materie prime, industria pesante, telecomunicazioni, energia, ferrovia, etc…) che se lasciati in mano privata possono rappresentare un’ipoteca circa lo sviluppo del paese e per lo stesso esercizio della democrazia (non a caso un tempo si parlava di “democrazia economica”). Si tratta, soprattutto, del controllo pubblico sulle leve dell’economia in modo da poter orientare lo sviluppo senza gli sprechi che caratterizzano l’anarchia produttiva tipica del capitalismo, specie nella sua versione liberista. Guardando oggi alla crisi italiana, una giusta declinazione della sovranità da questo punto di vista consisterebbe nel sostenere che è necessario, per controllare e dirigere gli investimenti, la nazionalizzazione del sistema creditizio e non delle sue perdite (come avviene oggi), e che è necessario riprendere una politica di programmazione economica.

Le ricette delle BCE non fanno che farci proseguire sulla strada che conduce al baratro, la stessa strada che abbiamo percorso in questi ultimi 20 anni. Da questo punto di vista la difesa della sovranità dovrebbe farci porre la questione della pertinenza e dell’accettabilità di una istituzione sovranazionale, non controllata da nessuno se non dalle grandi concentrazioni finanziarie e capitalistiche. Una giusta declinazione della questione nazionale su questo fronte dovrebbe spingere a denunciare l’ingerenza della BCE nelle nostre faccende domestiche come inaccettabile e dovrebbe sostenere che l’Unione europea deve essere costruita su tutt’altre basi rispetto a quelle che la caratterizzano attualmente.

Anche sostenere una più equa ripartizione del carico fiscale e lottare contro i meccanismi che favoriscono l’evasione delle classi privilegiate fa parte della questione nazionale.
Alla vigilia della rivoluzione francese la questione nazionale venne posta per la prima volta, non casualmente, in riferimento alla lotta del popolo (allora era il Terzo Stato oggi sarebbe il Quarto) contro i privilegi dei ceti privilegiati aristocratici (oggi sarebbero le oligarchie alto-borghesi e capitalistiche). Allora venne scritto un libello dal carattere fortemente rivoluzionario: “Che cos’è il Terzo Stato?”. In definitiva si rispondeva che il “Terzo Stato” era la nazione e con ciò si introduceva l’idea che gli altri ordini in cui era divisa la società d’Ancien Régime non fossero, e non dovessero contare, nulla. Tantomeno campare in modo parassitario sulle spalle della nazione.

Quel libello, se opportunamente declinato, ci indica parole d’ordine chiare e suggerisce slogan efficaci.

Infine vi è il lato più propriamente politico della questione nazionale: la difesa dell’indipendenza nazionale e la posizione sulla scacchiera internazionale. In questo caso la declinazione dovrebbe spingere ad una politica estera più autonoma da quella perseguita dall’attuale governo succube degli Usa. Andrebbero affermate le priorità del nostro paese che è un paese anfibio, euro-mediterraneo e non un paese atlantico. Andrebbero pertanto rafforzati i legami con i paesi del bacino del Mediterraneo (coi quali siamo tra l’altro economicamente complementari) e andrebbe sostenuta la costruzione di un’Europa aperta a questo spazio su basi paritetiche. L’Europa di oggi è solo la testa di ponte dell’imperialismo statunitense puntata al cuore dell’Eurasia per le sue ambizioni guerrafondaie. La triste e squallida gestione della crisi libica da parte del governo Berlusconi, che ha bellamente calato le braghe di fronte ai diktat provenienti da oltreatlantico, si trova proprio al polo opposto rispetto a quanto si dovrebbe fare. La partecipazione del’Italia alla Nato dovrebbe essere pertanto combattuta e dovrebbe essere richiesto il ritiro delle basi Usa e Nato (che sono basi Usa mascherate dietro altra sigla) dal nostro territorio. Andrebbero stretti legami con tutti quei paesi che nel Sud del mondo lottano contro l’imperialismo (a partire dalla prospettiva di collaborazione eurasiatica con la Russia e la Cina e con il blocco latinoamericano in fase di integrazione).

Occorre inoltre ostacolare la diffusione di messaggi anti-islamici, anti-cinesi o quant’altro, perché funzionali agli interessi imperialistici del dividi et impera e perché contrari agli interessi nazionali dell’Italia, che deve puntare alla collaborazione con altri popoli e che non può tollerare o sostenere la demonizzazione di minoranze, destinate ad essere sempre più consistenti, presenti all’interno della comunità nazionale.

Sulla scena internazionale sono oggi molte le realtà che dimostrano che questa strada è percorribile, anche se si tratta di una sfida difficile. Il processo di recupero della sovranità da parte dei paesi del Sudamerica (dal Venezuela al Brasile) che fino a ieri erano solo il cortile degli Usa ha del prodigioso. Come hanno fatto? Quei casi vanno opportunamente studiati nei loro nessi strategici. A un primo sguardo possiamo dirci innanzitutto questo: che laggiù non hanno creduto né alle idiozie “normalizzatrici” sulla “fine della storia”, né alle panzane “destabilizzatrici” che calcavano eccessivamente la mano sulla discontinuità con il passato al solo scopo di disorientare (ricordate lo slogan “nulla è più come prima” ripetuto ad ogni starnuto di capra?). La sinistra italiana si è lasciata invece disorientare, introiettando alcune questioni (la crisi dello stato-nazione, l’inutilità del potere, l’impero e le moltitudini, il superamento del concetto di egemonia e di quello di blocco storico…) che hanno oggettivamente disarmato le forze che volevano un cambiamento.

La questione nazionale è poi, se impugnata correttamente, un’arma che legittima chi la impugna e delegittima i propri avversari, che non fanno nulla per difendere gli interessi del proprio paese e del proprio popolo o che, addirittura, possono essere accusati di tradimento.

La Costituzione italiana rappresenta oggi un programma mai attuato per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese; a partire da questo elemento, la sinistra italiana come può sviluppare un’iniziativa politica capace davvero di fermare l’involuzione antidemocratica che ha caratterizzato gli ultimi anni?


La Costituzione della Repubblica è legata strettamente alla questione nazionale. Basti pensare che è il frutto più maturo della Guerra di Liberazione nazionale dal nazifascismo. Come ricordava, non senza ragione, lo storico di parte cattolica Pietro Scoppola la Costituzione era una sorta di “rivoluzione promessa” che indicava la via della trasformazione del Paese, la rotta da tenere e i valori cui ispirarsi. Proprio per questa sua caratteristica la Costituzione repubblicana venne sin dall’inizio profondamente osteggiata dagli ambienti conservatori e da quelli più propriamente reazionari, tanto che la sua attuazione pratica fu sempre ostacolata. Si pensi all’insediamento della Corte Costituzionale, avvenuto solo sotto la presidenza di Giovanni Gronchi (esponente della sinistra Dc) nel 1955, ben 10 anni dopo la Liberazione! Oppure si pensi al caso ancora più tormentato dell’istituzione delle regioni (posticipato fino agli anni ’70 dalle destre, timorose di abbandonare all’amministrazione dei comunisti aree rilevanti del paese). Ma sono le parti di indirizzo più radicale della Carta quelle che danno maggiormente fastidio (i primi articoli di indirizzo e l’articolo 42 che contempla l’esproprio a fini di interesse nazionale e/o sociale). Le correnti che un tempo osteggiavano la concretizzazione degli obiettivi e dello spirito della Costituzione oggi non sono solamente in grado di sabotarla, ma cercano di cancellarla, stravolgerla, tornare indietro. Ciò è stato possibile per un complesso insieme di cause. Riassumendo con una semplificazione, che spero mi si perdonerà, possiamo dire che ciò è stato possibile perché è cambiato il sistema politico. Qualsiasi patto costituzionale vive su un’articolazione del sistema politico, quando questo entra in crisi la carta che ne è la “cristallizzazione” subisce dei contraccolpi. Il nostro sistema si basava sul ruolo dei partiti di massa come collettori ed organizzatori dei cittadini nella vita politica per concorrere all’indirizzo e alla gestione della cosa pubblica. Nel bene e nel male era così. Questo sistema è stato dapprima svuotato e poi cancellato con il terremoto successivo al crollo del muro di Berlino e alla fine della guerra fredda. L’Italia, per la sua particolare posizione geopolitica, è stata il paese che ne ha risentito di più al di qua della cortina di ferro. Oggi le architravi che tenevano in piedi le promesse dell’aprile 1945 sono crollate. Che fare per salvare la Repubblica? Innanzitutto una chiara azione di informazione per spiegare quanto la Costituzione sia avanzata e mettere chiaramente in relazione l’opera di smantellamento che è in corso con la politica di massacro sociale e di vergogna nazionale (si pensi alla guerra in Libia in relazione all’articolo 11) che viene portata avanti. Purtroppo certe disponibilità a mercanteggiare sulla Costituzione sono drammaticamente presenti anche nel centrosinistra, come ha dimostrato proprio l’aggressione alla Libia.



Le formazioni neofasciste che stanno maggiormente prendendo piede nel Paese (soprattutto fra le nuove generazioni) si rifanno spesso a simboli e miti proprie della sinistra (fino al caso limite di Ernesto Che Guevara); come è possibile che ciò avvenga? Come ha potuto la sinistra italiana perdere completamente, nel corso degli anni, il rapporto con il proprio immaginario e, di conseguenza, con le classi sociali di riferimento, sempre più attratte dalle destre?

Abbandonando la questione nazionale, ed anche altre categorie interpretative della realtà o altri punti qualificanti del loro immaginario le formazioni di sinistra (eredi del movimento comunista e/o socialista) hanno lasciato un vuoto. Formazioni di estrema destra si stanno appropriando di determinati simboli di sinistra. O è in corso una mutazione, oppure siamo in presenza di una torsione strumentale che intende sfruttare quel vuoto. In politica, come in fisica, il vuoto non esiste. Quando il tuo antagonista possiede un’arma efficace o un simbolo attraente devi impossessartene e imparare ad utilizzarlo di più e meglio di lui. Il tuo antagonista farà lo stesso con te. Fa parte del processo sfida-risposta che caratterizza le reciprocità politiche. Se tu abbandoni un’arma efficace, un simbolo attraente, lui se ne impossesserà. Ed è quello che ha fatto. Il caso Che Guevara è al tempo stesso emblematico e particolare.

Emblematico perché rappresenta in modo eloquente fino a che punto sia possibile strumentalizzare una figura e compiere un’opera di riappropriazione/travisamento di questo tipo. Ma è particolare perché è da parecchio tempo che la figura di Che Guevara è sottoposta allo strazio e alla deformazione. Di volta in volta se ne è fatto un guerrigliero solitario anarcoide, un libertario senza meta, quando non una rock star da stampare sulle magliette o una sorta di poeta maledetto della rivoluzione (senza ulteriori aggettivi). Che Guevara era più semplicemente un uomo animato da una profonda umanità che, da un’iniziale radice cattolica, era approdato al comunismo. Era un patriota della grande e dilaniata nazione latinoamericana e un internazionalista al tempo stesso. Era soprattutto un combattente antimperialista.

Ben altre figure sono state utilizzate (con grande efficacia) a destra. Penso al recupero e alla rilettura di Gramsci fatta dal leader missino Pino Rauti alla fine degli anni ’80. Forse è il paradosso più eloquente. Intuizioni come quella dell’egemonia culturale sono state “conquistate” dalla destra, ben oltre e ben al di là dello spazio e dei mezzi di cui disponeva Rauti. La sinistra le ha dichiarate ferri vecchi, Berlusconi le ha assunte come parte del proprio bagaglio e, grazie anche ad una potenza di fuoco massmediatica senza precedenti, ha dimostrato che sono vincenti.

Come mai la sinistra abbandonò quei riferimenti, quelle armi?
Vi sono state diverse sinistre in Italia e per proprietà transitiva vi sono state varie modalità di abbandono o, se si preferisce, di disarmo. Tutte legate ad un passaggio cruciale: l’integrazione negativa nel sistema di potere democristiano. L’integrazione nasceva dall’idea di incontrarsi per fare alcune riforme progressive senza toccare alcuni nodi fondamentali. Tra questi vi era la sudditanza atlantica. Il Psi venne risucchiato in questa logica negli anni ’60 e ne uscì sfigurato con il volto di Craxi. Al Pci toccò, con modalità un poco diverse, il decennio dopo. Ad una ad una, dopo la questione nazionale, furono le altre questioni ad essere rimosse o annacquate, tra cui, per allargare i propri orizzonti con un infausto eclettismo, le categorie interpretative della realtà, i riferimenti più solidi alla propria cultura e al proprio immaginario. Ciò non ha tolto solo la capacità di orientare e di unificare le lotte e le rivendicazioni popolari ma ha lasciato addirittura disorientati di fronte ai cambiamenti le stesse élites politiche di sinistra. Ieri come oggi del resto questa rimozione si faceva in nome della lotta contro i settarismi “identitari”. Non si scorgeva, o si fingeva di non farlo, il carattere strategico che avevano quei riferimenti nell’interpretazione della realtà, nell’orientarsi e nell’orientare in un mondo che cambiava velocemente. Da lì in poi sarebbero state recise tutta una serie di radici fino all’accettazione del discorso e dell’immaginario astratto dell’avversario. Restano ancora da soppesare le responsabilità storiche di quanti (nei partiti tradizionali della sinistra ma anche nella galassia della sinistra extraparlamentare e nei così detti movimenti) contribuirono a inoculare il morbo, e lungo quali direttrici questo finì per essere a poco a poco letale. In attesa di sviluppare lo studio possiamo almeno sostenere con certezza che abbiamo di fronte i risultati di quel disastro involutivo e che occorre misurare i nostri passi nel presente forti di quell’esperienza.

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