martedì 9 novembre 2010

 USA, LA FORZA DEL DECLINO


Giovanni Arrighi  


Ci vorrà ancora tempo per fare un bilancio appena attendibile della recente guerra dei Balcani. Sotto il profilo umanitario per il quale si diceva essere combattuta, non si può che associarsi per il momento a Giovanni Paolo II nel dichiararne l'esito una "sconfitta per l'umanità". Oltre a questo, un qualsiasi bilancio richiederebbe la preliminare identificazione dei suoi obiettivi reali.
Noam Chomsky ed altri hanno già dimostrato, meglio di quanto potrei fare io, quanto fossero sospette le motivazioni umanitarie della guerra. Mi basti ricordare che durante tutto il conflitto l'argomento umanitario è stato legato dai guerrafondai a un problema che chiamavano di "credibilità". Gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO dovevano provare che la minaccia di usare la forza era reale, nel senso che se le condizioni poste dalla NATO non fossero state accolte, alla forza si sarebbe effettivamente ricorso e in questo caso la NATO avrebbe nettamente prevalso.
Se una cosa è chiara, è che la questione della credibilità (puro argomento di potere) è stata assolutamente prioritaria rispetto a qualsiasi obiettivo umanitario, ammesso che ce ne fossero. La cosa più impressionante è stata la durezza e l'ipocrita determinazione con la quale il comando della NATO ha minacciato di continuare senza tregua una campagna aerea sempre più distruttiva finché Milosevic (o ancora meglio chi lo avesse destituito e gli fosse succeduto) non si fosse piegato e non ne avesse accettato incondizionatamente il diktat.
Se c'era ancora bisogno di una prova, essa è stata fornita dal discorso sulla "vittoria" del Presidente Clinton il 10 giugno. Per lui "vittoria" significava che la Jugoslavia aveva ceduto più o meno incondizionatamente. Delle sofferenze umane inflitte alla popolazione jugoslava, sia serba che di etnia albanese, ha appena fatto menzione, a parte intimare ai serbi che, se non si fossero liberati di Milosevic, non avrebbero ricevuto nessun aiuto per ricostruire il paese devastato. Come doveva esser chiaro fin dall'inizio, il vero obiettivo della guerra era mostrare la forza degli USA e della NATO. Gli appelli umanitari non erano che un mezzo, camuffato da fine, per mobilitare il consenso, nel proprio paese e all'estero, attorno a un uso sproporzionato della violenza in palese violazione delle leggi internazionali.
Ma, si può chiedersi, perché premeva tanto agli Stati Uniti e alla NATO dimostrare la propria credibilità? Premeva in sé o nel quadro di un più vasto obiettivo? E in questo caso, entro che limiti la guerra è riuscita a raggiungerlo? Per cercar di rispondere a queste domande sarà utile considerare quest'ultimo exploit militare americano non isolatamente, ma come un anello in una catena di tappe significative nella traiettoria del potere globale degli USA. I quesiti possono quindi essere riformulati come segue: il bisogno di provare la credibilità dell'apparato militare USA/NATO è sintomo di un declino a lungo termine del potere globale degli Stati Uniti e il tentativo di rallentarlo? O è segno e strumento di una ulteriore crescita del loro potere mondiale? La guerra dei Balcani ne ha rallentato il declino o ha rilanciato il potere degli USA nel mondo?

Comincerò con uno schizzo elementare dell'andamento del potere mondiale americano negli ultimi trent'anni. Grosso modo esso sembra aver seguito una traiettoria ad U, dove ogni decennio indica una tendenza diversa: un rapido declino negli anni '70, un toccare il fondo negli anni '80, una spettacolosa ripresa negli anni '90. Analizziamo brevemente questa traiettoria decennio per decennio.
Il declino precipitoso degli anni '70 è segnato da due eventi chiave di portata mondiale fra il 1969 e il 1973: la disfatta nel Vietnam e il contemporaneo collasso del sistema di Bretton Woods, con il quale gli USA avevano governato le relazioni monetarie mondiali. Benché negli stessi anni avessero dimostrato, atterrando sulla luna, di poter facilmente raggiungere e superare l'URSS nella corsa agli armamenti, la loro sconfitta nel Vietnam dimostrava la debolezza del loro apparato militare, a tecnologia avanzata e forte capitale, davanti alla resistenza decisa di uno dei paesi più poveri del globo. L'enorme spesa degli USA per la guerra nel Vietnam aveva avuto come risultato un'enorme crisi fiscale dello "stato militar-sociale". Altrettanto devastante era stata la prova che l'apparato militare americano non era in grado di far altro che riprodurre l'equilibrio del terrore con l'URSS a livelli più costosi e a sempre più alto rischio. Il potere globale degli USA cadde precipitosamente, toccando il fondo alla fine degli anni '70 con la rivoluzione iraniana, il nuovo aumento del prezzo del petrolio, l'invasione sovietica dell'Afghanistan e un'altra grossa crisi di fiducia nel dollaro.
È in questo contesto che negli ultimi anni dell'amministrazione Carter, e con maggior determinazione da parte di Reagan, un cambiamento drastico nelle scelte politiche prepara le basi per una ripresa. Sul terreno militare, il governo degli Stati Uniti evita con cura (come testimonia il caso del Libano) il confronto su terra che li aveva portati alla sconfitta in Vietnam, preferendo o guerre per procura (come in Nicaragua e in Afghanistan), o confronti meramente simbolici con nemici insignificanti (come a Grenada e a Panama) o lo scontro aereo dove l'apparato high-tech americano si trovava in assoluto vantaggio (come in Libia). Allo stesso tempo, gli Stati Uniti aprono un'escalation nella corsa agli armamenti con l'URSS - anzitutto, anche se non solo, attraverso l'Iniziativa di Difesa Strategica - i cui costi vanno assai oltre le possibilità dell'Unione Sovietica. L'URSS si trovò intrappolata in un duplice confronto che mai avrebbe potuto vincere e finì col perdere: quello in Afghanistan, dove il suo apparato militare ad alta tecnologia incontrava le stesse difficoltà degli Stati Uniti nel Vietnam, e quello sulla corsa agli armamenti, in cui gli Stati Uniti potevano mobilitare risorse molto al di sopra della sua portata.
Questo mutamento nella politica militare degli Stati Uniti finì col portare l'URSS al collasso e segnò l'inizio della grande ripresa della potenza globale americana negli anni '90. Nondimeno, non si sottolineerà mai abbastanza che il cambiamento politico decisivo fu quello nella sfera finanziaria, più che quello militare. Senza di esso sarebbe stato impossibile per gli USA spendere per la corsa agli armamenti più di quanto potesse fare l'URSS.
I cambiamenti delle politiche - drastica contrazione nella disponibilità di moneta, più alti tassi di interesse, meno tasse ai redditi alti, libertà praticamente illimitata per il capitale d'impresa - liquidarono ogni vestigia del New Deal. Così gli USA cominciarono a competere aggressivamente nel capitale mondiale provocando uno straordinario mutamento di direzione nel suo flusso globale. Negli anni '50 e '60 gli USA erano la più importante fonte di liquidità mondiale e di investimenti diretti, negli anni '80 erano passati ad essere il paese più debitore e a maggior ricettività di investimenti diretti. L'altra faccia della medaglia era la crisi che danneggiava paesi a reddito basso e medio, perlopiù non in grado di competere con successo con il gigante Stati Uniti sui mercati finanziari del globo. Le economie dell'America Latina, e soprattutto dell'Africa, furono devastate. La crisi fu avvertita anche nell'Europa Orientale, riducendo ulteriormente la capacità dell'URSS di competere con gli USA nella corsa agli armamenti, e contribuendo in modo deciso alle tensioni che andavano dividendo la Jugoslavia e intensificando i conflitti etnici. Così mentre gli Stati Uniti godevano di crediti praticamente illimitati sui mercati finanziari, il Secondo e il Terzo Mondo erano messi in ginocchio dall'improvviso esaurimento del loro credito sugli stessi. Quel che l'apparato militare non era riuscito a conseguire, fu ottenuto dai mercati finanziari.
Questa vittoria presentava però un problema. Il Giappone e la grande Cina che operava fuori da Taiwan, Hong Kong, Singapore, e altri importanti centri commerciali del Sud Est asiatico cominciarono ad emergere come le più importanti nazioni creditrici del mondo e come organizzatrici e finanziatrici di una espansione industriale regionale che per ritmo e portata aveva pochi precedenti nella storia del capitalismo. Durante gli anni '80, l'Est asiatico sembrò il principale beneficiario sia della competizione interstatale per il capitale mobile sia dell'escalation nella guerra fredda. Mentre stagnavano commercio e produzione mondiale, l'espansione economica dell'Est asiatico metteva mano su una quota crescente della liquidità mondiale. Le banche giapponesi cominciarono a dominare i patrimoni internazionali e gli investitori istituzionali giapponesi dettarono il ritmo del mercato nelle tesorerie degli Stati Uniti. Pareva aver ragione chi aveva pronosticato l'ascesa di un "superstato giapponese" o di un Giappone "numero uno del mondo". Gli Stati Uniti si stavano risollevando dalla profonda crisi degli anni '70 e mantenevano sulla difensiva l'URSS e il Terzo mondo. Ma se ormai era il denaro, e non le armi, la fonte primaria del potere mondiale - come indicava anche la ripresa della ricchezza USA - il Giappone non costituiva la nuova e più insidiosa sfida alla supremazia globale degli Stati Uniti?
Questi timori sparirono nei primi anni '90 con il crollo dell'URSS e quello, quasi simultaneo, della Borsa di Tokyo fra il 1990 e il 1992 - due eventi che cambiarono la traiettoria del potere mondiale americano. Gli USA restavano la sola superpotenza militare, e non c'era prospettiva alcuna che avessero dei concorrenti nell'immediato futuro. Inoltre, l'addomesticamento della politica sovietica permetteva di premere sul Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché sostenesse e legittimasse le azioni politiche degli USA nel mondo. Invadendo il Kuwait, Saddam Hussein offrì un'opportunità che gli Stati Uniti colsero al volo montando un megashow televisivo sul loro potere tecnologico. Il tentativo di prolungarlo con la spedizione "umanitaria" in Somalia fallì perché la televisione trasmise l'immagine di un soldato americano morto in un'imboscata e trascinato per le strade di Mogadiscio. L'incidente risvegliò la sindrome del Vietnam e provocò il ritiro immediato delle truppe americane. Maggior successo ebbero le successive "missioni umanitarie" ad Haiti e soprattutto in Bosnia. In conclusione, caduta l'URSS e dopo la guerra del Golfo, il potere militare americano è rimasto inattaccato e, sul suo territorio, inattaccabile.
La guerra del Golfo aveva anche dimostrato che, nonostante la sua potenza economica e finanziaria, il Giappone era incapace di una posizione indipendente nella politica mondiale, lasciando ancora una volta egemoni gli Stati Uniti. Inoltre il suo stesso potere economico e finanziario entrava in discussione, in quanto l'economia giapponese pareva incapace di riprendersi del tutto dal crac degli anni 1997-98, quando la quasi stagnazione dell'economia stette per volgere in recessione. Da tutto il mondo, e soprattutto dall'Asia Orientale, i capitali continuavano ad affluire negli Stati Uniti, alimentando il lungo boom speculativo a Wall Street e permettendo all'economia statunitense di espandersi molto più velocemente che nell'ultimo ventennio malgrado il forte e crescente deficit commerciale. All'approssimarsi del nuovo millennio, non solo la forza militare ma l'egemonia americana sembravano intatte ed intoccabili.
Dunque la risposta più plausibile alle domande sulla volontà degli apparati militari USA/NATO di mostrarsi credibili nella guerra dei Balcani, è che essa era segno d'un rafforzamento del potere globale USA piuttosto che di un suo declino. E poiché Stati Uniti e NATO hanno dimostrato nei Balcani che le loro minacce militari non erano né vane né inefficaci, potremmo pensare che quella guerra abbia accentuato questo rafforzamento. È possibile, anzi probabile, che così la vedano i guerrafondai americani e britannici. Ma è anche possibile e probabile che la situazione non sia affatto quella che sembra nell'ottica degli anni '90 - e che si tratti di una nuova fase crescente nella traiettoria ad U cui all'inizio accennavo. È anzi possibile, a mio avviso, che l'errata lettura della situazione da parte anglo-americana, lungi dall'accentuare la crescita che imaginavano del potere globale USA, porti a un totale collasso di ciò che rimane del loro nuovo ordine mondiale.

Questo giudizio si fonda su due studi (il secondo in collaborazione con altri) nei quali ho cercato di capire quali siano le tendenze attuali attraverso l'osservazine di alcune fasi della storia del capitalismo che somigliano, per diversi e rilevanti versi, all'attuale. Il primo studio (Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano, 1996; edizione EST, 1999) è dedicato alle espansioni finanziarie che caratterizzano i processi conclusivi di ogni fase di sviluppo del capitalismo dalla modernità ai giorni nostri. Il secondo (Giovanni Arrighi and Beverly Silver et al, Chaos and Governance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis e Londra, 1999) si concentra invece su analogie e differenze tra l'attuale passaggio di egemonia (verso un approdo ancora ignoto) e due precedenti passaggi: quello dall'egemonia olandese a quella britannica nel diciottesimo secolo e dall'egemonia britannica a quella americana nel tardo diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo. Assieme questi due studi forniscono le seguenti ottiche sull'attuale dinamica del potere globale americano.
Primo: in gradi e forme diverse, la traiettoria ad U che ha caratterizzato il potere globale americano negli ultimi trent'anni è tipica anche dei precedenti leader dei processi mondiali di accumulazione di capitale nelle fasi conclusive della loro egemonia. Nel passato, come oggi, il recupero della ricchezza dello stato egemone in declino si è basato, dopo una crisi iniziale, sulla capacità di volgere a proprio vantaggio l'intensa concorrenza interstatale nell'accumulazione di capitale mobile ricavato dalla maggiore espansione del commercio e della produzione mondiali. Questa capacità era e resta basata sul fatto che lo stato dall'egemonia in declino mantiene ancora il centro del sistema economico mondiale. Nonostante cali la sua capacità di competere sui mercati dei beni mobili, la sua capacità di agire come centro di pulizia del sistema finanziario internazionale è maggiore di quella di qualsiasi altro centro, inclusi quelli che emergono come più competitivi sui mercati commerciali.
Secondo: nelle transizioni di egemonia del passato, la ripresa del potere dello stato egemone in declino è il preludio di un aumento del disordine mondiale e si conclude con il crollo dell'egemonia stessa. Tre tendenze sembrano essere decisive nel provocare l'incalzante disordine. Una è costituita dal sorgere di poteri militari che lo stato egemone in declino non riesce a mantenere sotto controllo. Un'altra, dall'emergere di stati e gruppi sociali che pretendono l'accesso alle risorse del sistema, in misura più grande di quanto possa essere consentito all'interno dell'ordine egemone esistente. E infine, la tendenza dello stato egemone in declino a usare il potere che gli resta (o riprende) per trasformare la sua egemonia (basata su una forma di consenso) in dominio dello sfruttamento (basato essenzialmente sulla coercizione).
Terzo: rispetto alle transizioni precedenti, oggi non si vede praticamente segno di un potere anche lontanamente in grado di sfidare militarmente lo stato egemone in declino. Invece dell'emergere di rivali militari, abbiamo assistito al crollo del solo rivale credibile, l'URSS. Ma se manca ogni segno di nuove potenze capaci di sfidare militarmente gli Stati Uniti, le altre due tendenze sono assai evidentememte più forti di quanto non lo fossero nelle transizioni passate. Il declino del potere mondiale degli Stati Uniti negli anni '70 è stato dovuto soprattutto alle difficoltà degli USA di far fronte alla richiesta del Terzo Mondo di accedere a una quota maggiore delle risorse mondiali. E la successiva ripresa degli USA fu dovuta soprattutto al successo della contro-rivoluzione globale di Reagan nel contenerla e financo abbatterla. La sua contro-rivoluzione consistette appunto nel trasformare l'egemonia degli Stati Uniti in crescente dominio per lo sfruttamento. L'egemonia degli Stati Uniti negli anni '50 e '60 si basava infatti non solo sulla coercizione ma sul consenso strappato ai paesi del Terzo Mondo con la promessa di un New Deal mondiale, cioè della ricchezza per tutti attraverso lo "sviluppo". Negli anni '80 e '90, invece, ai paesi del Terzo Mondo e del vecchio Secondo Mondo è stato imposto senza cerimonie di subordinare lo "sviluppo" agli imperativi dei mercati finanziari mondiali, che redistribuivano incessantemente la ricchezza agli Stati Uniti e agli altri paesi ricchi.
Nonostante l'apparente successo, questo passaggio dall'egemonia al dominio può considerarsi instabile non meno di quelli del passato. Due contraddizioni sembrano particolarmente difficili da risolvere: una è che persiste lo slittamento verso l'Est asiatico dell'epicentro del processo globale dell'accumulazione di capitale. Contrariamente all'opinione diffusa, il fatto che persista in Giappone la crisi economica dopo il crac del 1990-92, e anzi sia diventata crisi di tutto il Sud Est asiatico nel 1997-98, non significa di per sé che lo slittamento dell'epicentro verso l'Est sia cessato. Come i miei coautori ed io dimostriamo in "Chaos and Governance in the Modern World System", nelle transizioni precedenti i nuovi centri emergenti dei processi di accumulazione di capitale su scala mondiale furono epicentri di turbolenza piuttosto che di espansione, prima di acquisire capacità di guida del mondo verso un ordine diverso. Fu il caso di Londra e dell'Inghilterra alla fine del diciottesimo secolo, e ancora più di New York e degli Stati Uniti negli anni '30. Affermare che le crisi finanziarie degli anni'90 nel Giappone e nell'Est asiatico provano che l'epicentro dei processi globali di accumulazione del capitale non è passato dagli Stati Uniti all'Est asiatico, equivale a dire che il crac di Wall Street degli anni 1929-31 e la conseguente crisi americana erano la prova che l'epicentro del processo globale di accumulazione di capitale non era passato dal Regno Unito agli Stati Uniti.
Inoltre, alle crisi del Giappone e dell'Est asiatico si affianca invece la continua espansione economica della grande Cina (Repubblica popolare cinese, Hong Kong, Taiwan e Singapore). Data la dimensione demografica e la centralità storica della Cina nella regione, questa continua espansione è molto più significativa per la crescita dell'Est asiatico che i rallentamenti e le contrazioni in altre zone della regione. Certo, nonostante i suoi progressi, la Cina è ancora un paese a basso reddito. E non c'è garanzia che l'espansione economica cinese non sia anch'essa caratterizzata da crisi. È probabile che lo sarà, poiché, come già detto, le crisi sono un aspetto costitutivo dei centri economici emergenti. Nondimeno, il fatto stesso che la Cina, con la sua enorme popolazione, sia sfuggita allo strangolamento finanziario che ha messo in ginocchio il Secondo ed il Terzo Mondo è una conquista di portata storica. Se le inevitabili crisi future saranno gestite con un minimo di intelligenza politica, non c'è motivo perché non si possano tramutare in momenti di emancipazione dal dominio americano, non solo per la Cina, ma per l'Asia dell'Est e il mondo in generale.
Che così accada o no, lo slittamento persistente dell'accumulazione di capitale verso l'Asia dell'Est diminuisce la capacità degli Stati Uniti di restare al centro dell'economia globale. Già negli anni '90 la buona tenuta dell'economia degli Stati Uniti ed il boom speculativo di Wall Street sono dipesi totalmente dal denaro e dai beni a buon mercato dell'Asia dell'Est. Mentre il denaro, in forma di investimenti e prestiti, ha permesso all'economia degli Stati Uniti di continuare ad espandersi nonostante il vasto e crescente deficit commerciale, i beni a buon mercato hanno contribuito a tener bassa la pressione inflazionistica nonostante l'espansione. Non è chiaro per quanto tempo una situazione del genere potrà essere sostenuta o come gli Stati Uniti possano modificarla senza metter fine all'espansione economica. Ma è chiaro che più a lungo essa dura e più l'attuale dipendenza economica dell'Asia dell'Est dagli Stati Uniti si rovescerà nel suo contrario.
La seconda contraddizione della ripresa del potere degli Stati Uniti negli anni '90 è la crescente dipendenza dai mezzi militari, non solo politicamente ma anche economicamente. Il complesso industriale-militare degli Stati Uniti è sempre stato uno dei maggiori traini (se non il maggiore in assoluto) della loro indiscussa supremazia nella produzione e nelle attività tecnologicamente avanzate - dalla produzione di piccole armi nel diciannovesimo secolo, che dette origine al sistema americano di produzione di massa, al programma spaziale in risposta allo Sputnik sovietico, che dette origine ai sistemi satellitari e computerizzati di oggi. Questa indiscussa supremazia è attualmente il solo vantaggio decisivo dell'industria americana sui mercati globali. Più importante ancora, la combinazione fra tecnologia avanzata e produzione militare ha dotato il governo degli Stati Uniti di uno strumento potente per piegare a favore del business americano le regole del mercato globale cosiddetto "libero". Più si intensifica la concorrenza all'interno e all'estero più diventa essenziale questo non così visibile strumento di vantaggio commerciale e di auto-protezione. Ma mentre è aumentata l'importanza del complesso industriale-militare per gli interessi economici americani, la sua utilità sul campo strettamente militare è caduta drammaticamente con la caduta dell'URSS e la fine della guerra fredda.
Come abbiamo notato prima, il complesso industriale-militare americano serviva soprattuto a riprodurre l'equilibrio del terrore con l'URSS a livelli sempre più costosi e rischiosi. Ma, come ha dimostrato l'esperienza in Vietnam e quella dell'URSS in Afghanistan, questi apparati industriali-militari a tecnologia avanzata si sono rivelati piuttosto inefficienti per presidiare il mondo sul terreno nei vari continenti. Presidiare il mondo sul terreno comporta rischiare la vita dei cittadini per cause che per i cittadini hanno poco senso. Di conseguenza, non appena l'escalation degli armamenti degli anni '80 ha superato la soglia sostenibile e provocato la caduta dell'URSS, l'enorme apparato militare statunitense ad alta tecnologia ha perso il suo valore militare. Perduto l'unico credibile nemico militare, perdeva credibilità come apparato di guerra.
La contraddizione tra peso crescente del complesso militare-industriale nell'economia, anzi sua fonte primaria, da una parte, ed il suo decrescente valore sul piano strettamente militare, non è mai stata risolta. La sempre più importante, anche se non visibile, funzione economica dell'apparato militare-industriale non può essere ammessa apertamente senza togliere credibilità alla sua funzione apparente. Peggio, un'ammissione del genere denuncerebbe che l'apparato militare-industriale americano è diventato forse il più importante strumento di modifica e rottura delle regole dei "liberi mercati" che gli Stati Uniti predicano con fervore. Occorreva quindi trovare una funzione strettamente militare dell'apparato militare-industriale degli USA. Questo è stato il principale obiettivo della mezza dozzina di "guerre" calde - di fatto esercizi militari più che guerre vere e proprie - combattute dagli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda. In alcuni casi, soprattutto nel Golfo e in misura minore nei Balcani, questi esercizi militari hanno anche funzionato da megapubblicità della merce a tecnologia avanzata degli Stati Uniti.
Ma il principale obiettivo era trovare un sostitutivo alla funzione militare che l'apparato militare-industriale americano aveva perduto con la caduta dell'URSS. Quanto successo hanno avuto queste guerre in tal senso? Mi sembra scarso. Hanno dimostrato soprattutto quel che tutti già sapevano: che gli Stati Uniti sono tecnologicamente in grado di radere al suolo qualsiasi paese vogliano. È indiscutibile che, se vogliono, hanno i mezzi per far saltare in aria il mondo intero. Ma in Somalia, ad Haiti, in Bosnia ed in Kosovo, hanno anche dimostrato che la nuova apparente funzione delle guerre americane - gli "obiettivi umanitari" selezionati a discrezione - non vale la vita di un solo cittadino americano.
A conti fatti, la sindrome del Vietnam è ancora viva e vegeta, e ha lasciato l'apparato militare-industriale americano privo di una funzione credibile. Si può concludere che i fondamenti dell'attuale ripresa della potenza globale americana non sono solidi come sembrano. Usarne per consolidare il dominio di un pugno di paesi ricchi sul resto del mondo è la ricetta più sicura per il disastro globale.
È da sperare che i leader dei paesi ricchi saranno abbastanza saggi da far uso della propria potenza per risolvere piuttosto che aggravare i problemi che minano il globo. Sfortunatamente, come ebbe a dire Abba Eban: "La storia insegna che gli uomini e le nazioni si comportano saggiamente solo quando hanno esaurito ogni altra alternativa".
  

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