giovedì 18 novembre 2010

BELLO E POSSIBILE
Riflessioni su comunismo e utopia




…non si sogna solo di notte.
Purtroppo o per fortuna, dipende, si sogna anche di giorno

Ernst Bloch, Addio all’utopia

Il comunismo è davvero - come sostengono spesso i suoi critici - una “utopia”
strutturalmente incompatibile con la “vera natura umana” ? E a proposito: esiste
una “vera natura umana” e da cosa essa è - eventualmente - caratterizzata ?
Per rispondere a queste domande probabilmente non basterebbero migliaia di pagine;
tuttavia, qualche piccolo elemento di riflessione è possibile introdurlo anche in
poche righe.
Al comunismo è toccata spesso la sorte di essere considerato “bello e impossibile”,
un’utopia irrealizzabile perché contraddittoria con la “vera natura dell’uomo” -
“lupo”, egoista, individualista -; un’utopia, inoltre, che quando viene proposta come
progetto concreto finisce inevitabilmente per divenire “totalitaria” proprio perché
pretende di violare le regole della “natura umana”.
Insomma, la gamma della critica anti-comunista si svolge entro due poli: quello
della irrealizzabilità del progetto utopico-ideale e quello della realizzabilità solo
della versione totalitaria di tale progetto. Non si sfugge: il comunismo sarebbe bello,
ma non si può fare, oppure si può fare, ma non è bello.
Da lì a dire che i comunisti sono - quando va bene - degli ingenui sognatori o - più
frequentemente - dei potenziali criminali (rigorosamente “stalinisti”) il passo è breve.
Cominciamo, dunque, dall’utopia.
Etimologicamente, utopia sta per “in nessun luogo”1. Nell’accezione comune si dice
“utopico” di qualcosa di magari auspicabile, ma certamente irrealizzabile; insomma,
una definizione che si attaglia perfettamente alla percezione che del comunismo
intendono dare i suoi critici e denigratori.

1 Dizionario etimologico on line: “Utopia = b.lat. UTOPIA composto di U = gr, OY. non e
TOPOS luogo (v. Topino). Voce foggiata da Tommaso Moro, Gran Cancelliere
d’Inghilterra |sec XVII|, che dette questo titolo ed una sua teoria di legislazione e di governo
modello per un paese immaginario, che chiamò Utopia. Progetto promosso da buona intenzione,
ma che non può aver luogo, che non si trova in alcun luogo, cioè, non attuabile”
.

Eppure, chiunque comprende che non necessariamente ciò che non esiste non può
esistere; allo stesso modo, non necessariamente ciò che non esiste non è mai esistito.
Anche quello di “utopico”, come tanti altri, è un concetto storicamente determinato.
Basti ricordare, infatti, che siccome generalmente per utopico si intende “non
realizzabile”, si rischia il paradosso di considerare come “utopiche” (quindi non realizzabili)
anche cose che invece non solo possono benissimo essere realizzate, ma
che addirittura sono già state realizzate.
Probabilmente se oggi noi pretendessimo che tutti i contratti di lavoro fossero a
tempo indeterminato ci sentiremmo rispondere che si tratta di una richiesta “non
realizzabile” (in questo senso, dunque, utopica), non compatibile con le leggi
dell’economia moderna. Eppure, in un passato neppure tanto distante, tutti i contratti
di lavoro erano a tempo indeterminato.
Dunque, ciò che era possibile (anzi reale) in una certa società, in una certa epoca,
è divenuto “utopico” nella stessa società, in un’epoca diversa.
Quella che viene definita come utopica è dunque la pretesa di immaginare ciò che
non è compatibile con l’esistente. E in un esistente dominato dalle leggi dell’autoriproduzione
dei rapporti capitalistici di produzione2 è ovvio che non vi sia alcuno
spazio per pensare una società dove le relazioni sociali non siano basate sul profitto.
Ci mancherebbe altro.
Non soddisfatti di aver decretato l’incompatibilità del comunismo con il presente
gli apologeti del capitalismo ne decretano l’incompatibilità anche con il futuro. E’
il tema della “fine della storia”.
Ma la storia è veramente “finita” ?
Beh, intanto se la fine della storia fosse quella vagheggiata da personaggi come
Francis Fukuyama3 ci sarebbe davvero di che preoccuparsi dal momento che Fukuyama
fa parte di quella schiera eletta di “intellettuali” organici ad alcuni dei più potenti
“think thank” nord-americani4 fautori della guerra infinita e preventiva.
Il fatto è che in ogni epoca la classe dominante ha tentato di descrivere il sistema
politico-sociale vigente come talvolta migliorabile, ma in ogni caso ultimo, insuperabile.
A questa affermazione ideologica i comunisti hanno spesso risposto con una
affermazione specularmente ideologica: il comunismo è il destino ineluttabile
dell’umanità perché “gli uomini tendono naturalmente verso il bene” e il bene è il
superamento reale della disuguaglianza.
E per sostenere l’idea - un po’ hegeliana - di un percorso lineare e progressivo di
sviluppo dell’umanità5 verso il Bene si suggerisce l’esistenza in Origine di

2 Il capitale è innanzitutto un rapporto sociale. L’accumulazione di capitale è dunque al
tempo stesso riproduzione del modo di produzione e del rapporto sociale che gli corrisponde.
3 Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, 1992.4 Il Project for a New American Century. Vedi: Statement of principles, 3 giugno 1997.5 Criticata anche da Eric Hobsbawm nella sua Prefazione al testo di Marx Forme economiche
precapitalistiche (Editori Riuniti, pag. 36, 1974) tratto dai Grundrisse.


un’embrionale “uguaglianza primitiva” successivamente superata dalla disuguaglianza
della divisione in classi - dovuta allo sviluppo delle forze produttive - che
sarà anch’essa, prima o poi, superata da un forma superiore di uguaglianza, dalla
società senza classi, dal comunismo appunto.
Alla domanda “il comunismo è mai esistito nella storia dell’umanità ?” possiamo
rispondere che, se per comunismo intendiamo una forma “più o meno sviluppata”
di proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di uguaglianza giuridica tra i
membri della comunità6 allora, forse, qualche embrione di “comunismo” è effettivamente
esistito, o comunque è stato pensato.
Ma bisogna intendersi sulla definizione “più o meno sviluppata”.
Ad esempio, quello che spesso è stato chiamato il “comunismo” platonico7 assomigliava
più che altro ad una sorta di ascetismo comunitario-egualitario di élite che
ammetteva tranquillamente l’esistenza degli schiavi (che anzi rappresentavano la
condizione per la “liberazione dal lavoro” necessaria alla pratica della riflessione
filosofica) e la subalternità dei cittadini a questa élite, subalternità garantita dalla
classe dei guerrieri, tutori dell’ordine generale della società. Questo genere di
“comunismo élitario” può andare benissimo anche ai più convinti anti-comunisti
che dell’elitarismo e della mancanza di uguaglianza in senso universale (da riservare
semmai solo all’élite, ai pari, ai “migliori”) fanno la propria bandiera.
Anche l’uguaglianza comunitaria degli uomini primitivi non era un comunismo
come lo intendiamo noi perché la messa in condivisione dei beni e dei mezzi di
produzione non derivava dalla scelta del rapporto sociale comunista, ma dalle necessità
di sopravvivenza di individui che ad un certo punto iniziarono a cooperare
proprio per affrontare meglio questo compito immediato. E dopo la cooperazione,
la ricerca di migliori territori in cui vivere, lo scontro con altre comunità, la guerra,
la sottomissione e schiavizzazione degli sconfitti, la creazione di classi. E nello
stesso tempo la maggiore specializzazione nelle attività legate alla riproduzione
della vita materiale, la divisione del lavoro e - di nuovo - le classi.
Lo stesso livellamento “egualitario” ultra-capitalistico, che annulla progressivamente
ogni individualità in nome di una generalizzazione del modello di uomoconsumatore
standardizzato, non è certo un tipo di “uguaglianza” da auspicare perché
interpreta la tendenza alla sussunzione reale del lavoro al capitale, la progressiva
subordinazione dei lavoratori alle leggi del modo di produzione capitalistico:
produci, consuma, crepa.

6 Come proposto già da alcuni “utopisti” del XVI, XVII e XVIII secolo, da Tommaso Moro
a Tommaso Campanella, da Morelly a Mably, che avevano vagheggiato forme di società
ideali o “comuniste”, con tanto di abolizione della proprietà privata e ripartizione del tempo
di lavoro tra tutti i membri della comunità. Cfr F. Engels, L’evoluzione del socialismo
dall’utopia alla scienza, Laboratorio politico, pag. 45 e nota 76.
7 Ne La Repubblica Platone divideva la società in 3 classi (governanti, guerrieri, lavoratori);
per la classe dei governanti prevedeva l’eliminazione della proprietà privata, la comunanza
delle donne e dei figli, la parità tra uomo e donna.




Continua:  http://www.antiper.org/approfondimenti/bello.pdf

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