lunedì 24 ottobre 2011

Della misura
Potrà anche contraddittoriamente fregiarsi dell’etichetta di “marxista”, ma l’economista opererà sempre in un recinto chiuso, limitato e concavo. L’economista non può illudersi di ampliare i propri striminziti orizzonti semplicemente grazie a una tardiva, autodidattica lettura di “Leggere il Capitale” o di una eccellente “Storia critica del marxismo”. Dunque, per quanto le argomentazioni per partizioni abbiano sempre evidenti limiti intrinseci, ritengo che nei dintorni della “totalità” l’economista può solo apprendere, silente, dal filosofo.
Laddove tuttavia si entri nel ristretto novero della “misura”, la prospettiva sia pure in parte cambia. Il 5% gettato li’ da Preve è una espressione retorica, e sarebbe meschino poggiare una critica su di esso. Tuttavia credo sia utile informare che le condizioni di riproducibilità del capitale sono realmente misurabili, e che alle dinamiche inflazionistiche degli anni ’70 si può scientificamente attribuire il carattere della insostenibilità sistemica. Quelle dinamiche erano generate da vari ordini di conflitti, sociali e geopolitici. Ma una parte rilevante delle medesime può essere agevolmente ricondotta a una dinamica senza precedenti dei salari nominali e della spesa pubblica nominale destinata alla produzione di merci salario.
Detto ciò, reputo anche io la vulgata operaista per altri versi fuorviante, ed evito ormai di partecipare alle cosiddette “discussioni della sinistra”. Convinto che Preve e La Grassa abbiano fornito in questi anni contributi che personalmente non ho condiviso ma che sono stati di estrema rilevanza per liberarmi da alcune desuete incrostazioni “ortodosse”, porgo i miei saluti a loro e a tutti.
Con stima, 

Emiliano Brancaccio.


COMMENTO AL TESTO “DELLA MISURA” DI EMILIANO BRANCACCIO



di Costanzo Preve

Ringrazio Emiliano Brancaccio per almeno due ragioni. In primo luogo per le parole di cortesia verso il mio testo “Storia critica del marxismo” (ed. Città del Sole) definito eccellente. Si tratta di un testo che ha già avuto un’edizione greca e una francese, ed è in gara per il premio del testo meno recensito in Italia negli ultimi anni. In secondo luogo, per la forma urbana, cortese, sintetica e chiara dei suoi rilievi. Pur sapendo di non poter competere con lui sul piano della brevità, ritengo opportuno fare alcuni rilievi.

1. Credo che ci sia una piccola contraddizione tra l’affermare che nei dintorni della totalità l’economia può solo apprendere, silente, dal filosofo, e poi dire poche righe sotto che le condizioni di riproducibilità del capitale (inteso evidentemente come totalità dinamica riproduttiva) sono misurabili. Se questo è vero, come Brancaccio afferma, allora è il filosofo che deve apprendere, silente, dall’economista, non viceversa.
Ora, il problema non è certo personale, e cioè se debba essere Brancaccio o Preve, silenti, ad apprendere dall’altro. Il senso comune direbbe giustamente che entrambi possono imparare qualcosa dall’altro. Vale invece la pena chiarire meglio quale sia l’oggetto specifico della filosofia quando pretende di interrogare criticamente la totalità; pretesa come è noto, contestata da gran parte delle scuole filosofiche oggi accademicamente riconosciute, dal neokantismo all’ermeneutica, dal positivismo alla filosofia analitica, eccetera. La filosofia ha come oggetto solo il qualitativo, e di fronte al quantitativo deve cedere il passo alla cosiddetta “scienza moderna”, sul cui modello a fine Settecento è stata costruita anche l’economia politica, e poi la sociologia, eccetera. Di fronte a questo fatto ci possono essere solo due soluzioni fondamentali.
La prima, che è anche la mia, dopo aver preso atto senza contestazioni che la filosofia ha come solo oggetto il lato qualitativo della totalità, ne rivendica tuttavia fortemente il carattere conoscitivo e addirittura veritativo, rifiutando la limitazione del sapere filosofico al campo della logica generale e/o della epistemologia. Fra i giovani studiosi, segnalo il nome di Diego Fusaro, ma per fortuna ce ne sono anche molti altri.
La seconda, che per esempio è dei dellavolpiani e degli althusseriani (ad esempio La Grassa) rivendica il fatto che l’unica e sola ideazione conoscitiva è la scienza moderna, non ce ne sono altre, e la filosofia è poco più di una chiacchiera esistenziale a ruota libera sul senso soggettivo della vita, o al massimo un “servizio epistemologico di controllo” delle scienze naturali e sociali. Io mi oppongo con tutte le mie forze a questa concezione, e quindi prego di non confondermi con l’amico La Grassa, con il quale il conflitto su questo punto è irriducibile. Io rivendico una interpretazione idealistica, umanistica e dialettica dell’eredità di Marx (cosa distinta dalla filologia marxiana e anche ovviamente dalle ortodossie marxiste), e questo è sufficiente per provocare a La Grassa tre consecutivi attacchi di orticaria.

2. Concordo con Brancaccio che la mia espressione del 5% a proposito delle lotte operaie fordiste è un’espressione retorica “a ruota libera” gettata lì, e ringrazio Brancaccio per non avere “infierito”. Premettendo che non sono un economista, ma un filosofo e uno storico della filosofia, avevo appena letto il saggio di Harvey L’enigma del Capitale (qualcosa il povero non-specialista deve pur leggere!), in cui non c’è la minima traccia della “risposta” del capitale al ciclo di lotte operaie, e quando ho letto Ferrero ho avuto un piccolo sussulto di irritazione. Tutto lì. Il 5% è solo una dilettantesca battuta per “torcere il bastone dall’altra parte”, e non vuole essere nient’altro.

3. Brancaccio ritiene utile “informare” che le condizioni di riproducibilità del capitale sono realmente misurabili (tesi I) e che alle dinamiche inflazionistiche degli anni Settanta si può scientificamente attribuire il carattere della insostenibilità sistemica (tesi II, che però discende dalla tesi I).
Lo ringrazio sinceramente dell’informazione, e non intendo affatto scherzare. Se però Brancaccio ha ragione, devo mettermi io silente al suo magistero. Non avrei certo nulla in contrario. Qui non ci stanno di mezzo vanità personali, ma l’accertamento della realtà.
Dal momento che negli USA negli anni Settanta non si era di fronte a un ciclo sistemico di lotte operaie, e tantomeno a una insostenibilità dell’assente welfare state, si può dubitare della tesi di Brancaccio. Negli USA non si poneva nessun problema di “riportare l’ordine nella produzione di fabbrica”, tipo marcia dei 40.000 a Torino, e neppure in Inghilterra o in Giappone, salvo errore. Qui cade la tesi operaista della “risposta del capitale alla insubordinazione operaia”, come se il mondo intero fosse una unica grande Mirafiori.
Se quanto dico è vero, passa in primo piano l’ipotesi del mutamento di ciclo di accumulazione, non certo la risposta alla soggettività proletaria, e su questo punto di fatto Giovanni Arrighi e Gianfranco La Grassa diventano addirittura compatibili.

4. Distinguerei due diversi problemi, quello della misurabilità delle condizioni di riproducibilità del capitale, e quello, da tenere distinto, del concetto di insostenibilità sistemica.
Ammetto apertamente di non avere le idee chiare e di non essere portatore di posizioni personali in proposito. Spero che Brancaccio apprezzi questa ammissione “scientifica”, essendo la scienza il regno del dubbio metodico e delle ipotesi. Proprio perché rivendico il carattere conoscitivo e addirittura veritativo della filosofia nel campo della totalità qualitativa (peraltro in buona compagnia, con Aristotele ed Hegel e, credo, anche di Marx), proprio per questo ho molto rispetto per il campo del pensiero scientifico. Ciò che segue è soltanto l’esplicitazione di due opinioni rivedibili, e sostenute senza arroganza e iattanza.
A mio parere le condizioni di riproducibilità del capitale non sono misurabili. Lo sarebbero, se ci fosse soltanto uno ed un solo modello di “capitale” inteso come rapporto sociale di produzione. Ma se la logica di allargamento del rapporto di capitale è data dall’estensione del processo di mercificazione, allora vi sono molti scenari possibili distinti di queste “alternative di mercificazione”, non una sola. Se è così, ci sono distinti scenari capitalistici, ognuno dei quali dà luogo a scenari plurali di misurabilità delle condizioni di riproducibilità.
Se questo è vero, allora ne consegue che ci sono anche diversi scenari di “insostenibilità sistemica”. Ma vorrei saperne di più.

5. E’ possibile che in Italia, a metà degli anni Settanta, si sia verificata una dinamica senza precedenti dei salari nominali e della spesa pubblica nominale destinata alla produzione di merci salario. Se è così, la politica di “austerità” di Berlinguer è economicamente giustificata ex post, e fu un errore “estremistico” criticarla. Ma la stessa cosa si può dire per il mondo intero?
Non credo. In gran parte del mondo intero non c’era affatto questo abnorme aumento dei beni salario, diretti o indiretti (welfare). Se è così, risale in primo piano la tesi di Harvey (e di Giacché, al netto delle sue conclusioni compatibilistiche con la linea di Diliberto) sulla logica di allargamento finanziaria globalizzata del capitale, del tutto indipendente dalla cosiddetta “risposta” alla Ferrero-Negri. In quanto alla quantificazione, concedo ancora che il 5% era una semplificazione da bar, frutto di una reazione poco meditata alla ormai per me insopportabilità della vulgata di “sinistra”.

6. Un’ultima segnalazione, per chiarire ulteriormente il mio punto di vista. Le ragioni per cui non sopporto il modello operaista in tutte le sue varianti (faccio eccezione per Raniero Panzieri, che considero però un semplice geniale ricercatore, troppo presto mancato) non sono assolutamente “economiche”, ma sono esclusivamente filosofiche.
Il paradigma operaista è una forma di soggettivismo che pretende di essere “costituente” (addirittura una ontologia biopolitica costituente, nel linguaggio onirico di Hardt e Negri), e si oppone frontalmente alla eredità della grande filosofia classica tedesca di Fichte, Hegel e Marx, alla quale invece io mi ricollego. Non c’è qui lo spazio per chiarire, ma l’ho fatto ampiamente altrove, come io rifiuti radicalmente l’interpretazione del pensiero di Nietzsche data da Foucault (e da Vattimo), e il rifiuto della dialettica sviluppato da Negri e dai suoi seguaci, per cui la fuga in avanti del “comune” è a mio avviso un alibi grottesco per rifiutare la riqualificazione del “pubblico” e della sovranità monetaria dello stato nazionale.
Vorrei segnalare questo con forza a Brancaccio, dato che non è uno specialista in filosofia e potrebbe pensare che le mie obiezioni all’operaismo siano soltanto “economiche”. Non solo non è così (così è semmai per il solo La Grassa), ma per me questo è solo un dato minore. L’operaismo è un “capitalismo rovesciato”, e in quanto tale innocuo per le oligarchie al potere.
Ringrazio Brancaccio e gli altri eventuali lettori per la pazienza di una lettura critica.
Torino, 18 ottobre 2011

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