domenica 10 ottobre 2010

Alla ricerca dell’agorà perduta

  di Pietro Garante



In relazione al post intitolato “Da Pericle a Toni Negri: il principio dell’agorà” e pubblicato sul blog “Rivoluzione Democratica”, occorre mettere sul piatto della discussione alcuni punti.

 Partiamo da capo.

Moreno Pasquinelli striglia giustamente un Toni Negri che sembra ormai incapace o indisponibile a tornare tra di noi sulla Terra dalle angeliche altezze della “noosfera”. L’unica affermazione, tra quelle riportate, che io mi sento di condividere (e credo che condivida anche Pasquinelli) è che non esiste il lavoro immateriale, ma che anche il cosiddetto lavoro cognitivo è materiale.
E’ solo comune buon senso e lo condivido per quello che è.
Secondo Pasquinelli, se ho letto bene, questa sarebbe però anche una rottura teorica di Negri coi suoi ex sodali operaisti. In realtà credo che non sia così.
Che sia chiamato solo “cognitivo” o sia chiamato “materiale”, il punto per i tardo-operaisti è che il lavoro ormai si è sottratto alla “materialità” della legge del valore-lavoro (mi sbaglierò, ma su ciò sembra che sia invece proprio Sergio Bologna ad aver attuato una rottura teorica).
A parte le affermazioni, vergognose e che denunciano la distanza abissale che separa Toni Negri dalla realtà, sul lavoro precario e cognitivo come fluire di energia e di vita in un’atmosfera creativa e addirittura di divertimento, per altro propalate dai tempi di “Impero”, il discorso si regge su una sostanziale confusione. In estrema sintesi, la crisi di sovraccumulazione che deprime le vecchie società capitalistiche e che spinge da almeno 40 anni alla finanziarizzazione, ovvero a cercare di far fruttare i capitali principalmente tramite speculazioni finanziarie e non tramite investimenti in commercio e industria – oltre che col solito sistema di pagare il meno possibile chi lavora (picchiando duro a casa o decentrando) – tutto ciò viene scambiato dai tardo-operaisti come una sospensione della vigenza della legge del valore.

Perché questa confusione?

1) Perché il Capitale è unico e con la “C” maiuscola. Detto in altri termini: le varie società capitalistiche sono indistinguibili dal modello teorico.
2) Perché non ci sono formazioni sociali particolari: lo stato-nazione è svuotato delle sue prerogative (non dalle politiche imperialistiche, ma sostanzialmente dalla fine della legge del valore).
3) Perché la formazione antagonistica del lavoratore collettivo cooperativo alleato con le potenze mentali della produzione capitalistica si deve essere per forza concretizzata da qualche parte, pena il dover rimettersi in discussione e rimettere in discussione Marx (come ad esempio di fatto fece Lenin: non a caso Gramsci definì la – sacrosanta – Rivoluzione d’Ottobre una rivoluzione contro il “Capitale”: quello scritto da Marx). E se la concretizzazione di questo soggetto non la troviamo, allora ce la inventiamo: sono le moltitudini precarizzate, pura energia vitale che si autovalorizza al di fuori del rapporto col capitale. Versione in prosa: qui si fa l’apoteosi della precarizzazione da una parte e dell’atomizzazione individualistica dall’altra. Con l’aggravante di non spingere lo sguardo oltre il recinto occidentale, per il solito motivo che qui è nato il modello e come conseguenza (puramente astratta ma scambiata per concreta) qui c’è il motore comune del tutto globale. In realtà la fiaccola del capitalismo è storicamente passata di mano in modo discontinuo. Ad esempio, il gruppo dei capitalisti egemoni in una data epoca tipicamente non si origina dai capitalisti dell’epoca precedente. C’è una soluzione di continuità empiricamente riscontrabile che testimonia di come l’incidenza dei fattori storici e sociali impedisca di poter individuare un fil rouge e una logica riscontrabile identicamente in contesti differenti.
Arrivati alla fine ci si esercita nel salto della quaglia e dal lirismo pro-precarietà e pro-atomizzazione individualistica si passa a quello, di segno opposto, che canta il comune, l’agorà, la comunità. Una sorta di comunitarismo dipinto come praticabile alternativa. Che alcune delle questioni messe sul tappeto siano importanti e da affrontare, è un’altra questione (basti pensare a problemi che possono diventare in breve drammatici come quello dell’acqua come “bene comune”). E tuttavia la pur naturale valenza politica insita in iniziative in questa direzione possono essere del tutto disinnescate dall’iniezione di una overdose di significati politici: il “bene comune” come surrogato del “comunismo”. Infatti, che ciò diventi una praticabile alternativa al rapporto sociale detto “capitalismo” può essere vero solo sotto il vuoto spinto dipinto, intenzionalmente, dalle teorie tardo-operaiste. Una ricerca dell’agorà perduta il cui antagonismo radicale sta tutto nella sintassi delle frasi che lo formulano, perché nella realtà sarebbe possibile solo se il mondo così com’è non esistesse.
Avete in mente “Inception”? Siamo al terzo livello di sogni condivisi: un sogno nel sogno di un sogno.
Tra poco ci sarà il limbo. O forse peggio: un drammatico richiamo alla richiamo alla realtà.

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