venerdì 1 ottobre 2010

Il clandestino, lo Stato e la violenza



di Stefano Moracchi

Dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri abbiamo visto crescere una serie di Stati Nazionali. Guerre di liberazione hanno acceso la fantasia per il coraggio di popoli che fino a qualche tempo prima si riteneva impensabile potessero arrivare all’autodeterminazione. La guerra d’Algeria si caratterizzò per la forza e il coraggio del suo popolo. La Rivoluzione Cubana ha alimentato  un certo mito e una certa cultura per diverse generazioni. Perché, che cosa hanno di affascinante queste lotte?
A che cosa serve arrivare ad uno Stato Nazionale?
Cosa significa Nazione?
Perché si è disposti a sacrificare la propria vita per la Nazione?
Il nostro Risorgimento ha ancora un valore?
Tutte queste domande hanno diritto di esposizione e considerazioni ulteriori, perché da esse discendono tutta una serie di problematiche che oggi vengono racchiuse impropriamente con il termine globalizzazione.
La globalizzazione c’è sempre stata da quando l’uomo ha cominciato a navigare e ad esplorare nuove terre (anche ferocemente e con genocidi inauditi).
La politica dovrebbe dirigere l’economia e non, al contrario, l’economia che impone alla politica uomini, mezzi e strategie.
Quindi l’Unione Europea, da queste considerazioni, non poteva che essere una comunione di interesse fondata sulla moneta.
Se ci poniamo in questa ottica non è difficile comprendere la riduzione del concetto di cittadinanza a mero punteggio.
Il punteggio è entrato nella nostra vita da quando l’efficienza e l’efficientismo si sono basati sulla falsa prerogativa di valutare ciò che si poteva contare e pesare.
Cosa più della moneta e dell’interesse è soggetto a contabilizzazione?
Il punteggio è facile da acquisire se si è disposti a rinunciare a tutto ciò che di più caratteristico ha un individuo: la sua umanità, la sua dignità (lavoro, sicurezza, salute. Istruzione), la sua credenza, i suoi valori irrinunciabili.
Il punteggio è facile da acquisire nel momento in cui si accetta un ordine dato e stabilito.
Il punteggio è, altresì, facile da perdere se si rimane fedeli a se stessi.
Dall’etica del lavoro (che impose il modello della piena occupazione, per cui chi non era disposto sottostare all’interno delle fabbriche e ai ritmi di lavoro frenetici e alienanti, veniva confinato nei manicomi o nelle galere), si è passati all’estetica del consumo, dove la disoccupazione non è più un problema per lo Stato, ma solo per l’individuo. Nella società dei consumatori non ha importanza l’ordine dei valori, ma la capacità di spendere del soggetto, che è un essere privato nella doppia concezione ( privato dei valori che sorreggono l’identità e la persona) e privato in quanto soggetto atomizzato escluso dalla vita come cittadino portatore di prerogative politiche e sociali, e quindi, come puro soggetto passivo chiamato ad esercitare il solo diritto di voto.
In questo contesto l’escluso, il diverso è per comodità l’immigrato clandestino ma in verità vi rientrano tutti coloro solo che sfuggono alla logica dell’ordine costituito.
La sua clandestinità è pericolosa non in quanto soggetto delinquente, ma come soggetto non oggetto classificazione. Paradossalmente la sua condizione richiama quella del Pirata che spaventava, ma suscitava anche meraviglia e stupore, perché le sue gesta erano possibili solo a lui, in quanto viveva in una terra di nessuno dove non c’era giurisdizione.
Oggi il clandestino è un pericolo perchè sfugge alla statistica, e a tutte quelle scienze classificatorie che devono contemplare gli esseri umani sul principio del numero.
Analizziamo il sistema carcere dalle sue motivazioni. Il carcere è il bisogno della società di essere protetta dalle sue paure. Queste paure sono sia collettive che individuali. Le paure collettive hanno una dimensione emotiva, incostante, irrazionale, induttiva.
Quelle individuali sono propriamente sentimentali e patrimoniali: quelle sentimentali fanno leva appunto sul sentimento affettivo che riguarda la famiglia; quelle patrimoniali sono rivolte alla proprietà cioè ai beni materiali dell’individuo. Le paure collettive non sono la somma delle paure individuali anche se hanno più di qualche collegamento tra loro.
Le paure individuali hanno una loro razionalità fintanto che si basano su dati personali e concreti che vengono dall’esperienza. Divengono irrazionali quando passano o meglio sconfinano dall’esperienza al collettivo: questo passaggio non è spontaneo ma indotto.
Queste paure che ingenerano insicurezza hanno bisogno di giustificazioni. Il problema della giustificazione serve da normalizzatore, in quanto paure infondate, cioè senza un vero elemento conturbante, rientrerebbero nella patologia. La giustificazione va, quindi, ricercata. La collettività che non è un individuo ma una somma di individui, non la trova con la ragione ma con l’irrazionalità istintiva. L’istinto è un archetipo, una figura mitica. Dato che le paure sono paure inconsce, la collettività trova la sua giustificazione nel diverso, nell’altro da sé. Ora il diverso nell’antichità lo si poteva cercare nelle divinità, nella figura del maligno, cioè in una figura che non rientrava nell’uomo, e anche quando era un uomo, lo era solo in quanto posseduto. Nella società moderna la giustificazione della paura viene ricondotta al contratto sociale, cioè al contratto stipulato da tutti i cittadini per la comune convivenza. Chi rompe questo patto non fa parte della comunità umana e di conseguenza è disumano. Il disumano è la classica figura del mostro, del diverso, dell’altro. Lo Stato, con il suo apparato di guerra, controlla che il patto stipulato attraverso il contratto sociale venga rispettato.
La comunità non ha memoria del patto ma percepisce una continua insicurezza, una minaccia che gli viene continuamente sollecitata da coloro che sono preposti a tutela di quel patto. La collettività per sconfiggere la paura generata dal senso di insicurezza (indotto) chiede agli stessi che gli venga consegnato il presunto responsabile.
Si è così creato un circolo vizioso della repressione della violenza: l’ordinamento sociale è una condizione necessaria del contenimento della violenza: la violenza è una condizione necessaria del mantenimento dell’ordinamento sociale. D’altro canto già Hobbes, il padre del moderno Stato, ha teorizzato lo Stato come il detentore del monopolio della violenza. Lo Stato è un atto fondativo della violenza nelle sole sue mani. Come possiamo ben capire da un atto di violenza non può germogliare certo un fiore. Questa violenza viene velata, rimodellata, concettualizzata, introiettata, espressa, repressa, comunicata, stravolta, ridotta, amplificata, indotta, prodotta sistematicamente attraverso tutte le sovrastrutture di cui lo Stato si dota. Una struttura efficace a comunicare senso di paura e instabilità alla collettività è la comunicazione.
La comunicazione (una volta propaganda) è l’opposto della conoscenza. Fonda se stessa nell’opinione e non nella conoscenza. La comunicazione è anche volontariamente contraddittoria e questa è la sua forza. Valori che si contrappongono l’un l’altro, oppure stessi valori “vestiti” con abiti diversi: uno “amico”, l’altro “nemico”. La comunicazione è nemica del sapere anche perché corre veloce su questioni che hanno bisogno di riflessione e analisi e riflette a lungo su questioni futili che non necessitano di attenzione. In questo modo la collettività ingerisce continuamente insicurezza. Come singolo, l’individuo è ancora capace di razionalità, ma non riesce a concettualizzarla perché non ha la sua eticità, il suo nucleo fondante in un’idea di uomo-mondo, di comunità E’ chiuso nella sua solitudine individualistica in difesa della proprietà e della famiglia.
Sfocia in irrazionalità appena si percepisce massa collettiva, cioè un insieme collettivo di paure infondate, o meglio, fondate su una paura veicolata da coloro che sono a difesa del patto sociale fondato sul monopolio della violenza. Lo Stato moderno è uno Stato produttivo. Questa produzione non riguarda soltanto l’economia monetaria ma anche e soprattutto l’economia della violenza. Dobbiamo vedere questo intreccio tra violenza e stato come ad una complessità che ha trovato la sua unità nelle forme di guerra e formazioni politico-sociali. Noi troviamo la giustificazione del nesso tra guerra (violenza) e società nell’età contemporanea.
E’ stato, infatti, in questa fase che si è elaborata la dicotomia tra dentro e fuori, tra amici e nemici, tra vicino e lontano e si è costruito l’Edificio Sociale dell’esclusione. Come dicevo, il massimo pensatore dell’età del giusnaturalistica, Thomas Hobbes, fece derivare la sua concezione del contratto, che separava drasticamente e irrevocabilmente l’immagine interna e quella esterna dello stato, ovvero il regno della pace e quello della guerra. Nel suo sforzo di concettualizzare la necessità dello stato, Hobbes ricorre a un’astrazione, tra un originario ( e ipotetico) stato di natura (nel quale vigerebbero esclusivamente le leggi naturali) e un artificiale ed effettiva società civile.
Nel primo, verrebbe a determinarsi in sostanza una condizione di esistenza talmente insostenibile che si verificherebbe una condizione di “bellum omnium contra omnes” tale da convincere gli individui a dare vita alla seconda, cedendo una parte di quella specie di sovranità naturale che tutti avrebbero su tutto: il destinatario ne sarebbe il Leviatano, ovvero il sovrano (che può essere una persona sola, o più persone) costituito per così dire dall’insieme delle volontà individuali (la collettività ) garantendo a ciascuno, in cambio della cessione della sua inutile (o indesiderabile) libertà, la conservazione della pace.
Tanto salda e sicura sarà la condizione pacifica che si realizza così all’interno dei limiti della sovranità detenuta dal sovrano, quanto instabile e insicura si rivelerà, conseguentemente, la condizione di ciascun stato nei suoi rapporti con tutti gli altri, per il semplice fatto che quel contratto che ha potuto essere stipulato (seppur metaforicamente) tra gli individui (ormai divenuti cittadini) è oggettivamente improponibile se i soggetti sono gli stati i quali, se cedessero una parte della loro sovranità, cesserebbero addirittura di esistere. La chiave di volta dell’argomento è l’idea, quindi, di esclusione e di nemico-amico. Di conseguenza una volta tirata la linea di separazione, viene individuato chi sta fuori e chi sta dentro.
Irreparabilmente e senza possibilità di ritorno. Il nemico è tale a prescindere.
Lo stato moderno è uno stato di potenza che esercita tutta la sua violenza per le sue ragioni che sono “ragioni di stato”. Sappiamo benissimo che per ragioni di stato si può fare tutto perché tutto è lecito per lo stato, e non c’è un principio di legalità: in questa fase la legalità coincide con lo stato stesso che ne è il detentore. Machiavelli in questo campo ha fatto scuola.
Questa separazione tra dentro e fuori, vicino e lontano, buono e cattivo è l’essenza stessa della giustificazione dello stato, senza la quale non potrebbe esistere.
Allo stesso modo viene concepito l’Edificio Sociale, ovvero l’istituzione carceraria. La popolazione carceraria è nemica perché ha rotto il patto sociale, ha infranto le regole. Lo stato punisce la popolazione dell’Edificio Sociale con le stesse regole con cui lui stesso si è posto fuori dalla comunità del genere umano, stabilendo un confine tra chi è dentro e chi è fuori.
Una volta tracciato il confine tra il dentro e il fuori nello stato, si pone il problema del che fare tra coloro che nello stato così concepito non intendono sottostare. La prima cosa che lo stato applica è la sovranità. La sovranità dello stato moderno è un retaggio del passato. Con la nascita dello stato moderno la sovranità passa simbolicamente al popolo: dico simbolicamente perché tra il popolo e lo stato ci sono “distanze” insormontabili e tutto un apparato di èlites che formano la classe dirigente. E’ all’interno di questa classe che si svolgono le lotte per la detenzione del potere, ma è la stessa classe di èlites a formare per sé un potere.
Il potere nello stato moderno è formato dall’interazione tra i vari settori produttivi: economico, burocratico, politico, giornalistico, religioso, imprenditoriale. Al di sotto di questo apparato c’è il popolo dei consumatori (una volta dei produttori). Chi consuma è considerato per quanto consuma, di conseguenza chi non ha questa possibilità, è tagliato fuori dalla società dei consumi. E’ un invisibile e non ha nessuna possibilità di protezione e quindi soggetto ad essere schiacciato dal sistema. A questo proposito voglio citare un passo di Carlyle, nel suo saggio sul cartismo del 1837:
se i poveri vengono resi miseri, per forza di cose scompariranno in massa. E’ un segreto palese a tutti i cacciatori di topi: otturare le crepe di tutti i granai, affliggeteli con centinaia di miagolii, allarmi e scatti di trappole e i vostri “lavoratori a carico” scompariranno e lasceranno lo stabile. Un metodo ancor più rapido e forse anche più dolce, là dove fosse permesso sarebbe quello dell’arsenico.
Gertrude Himmelfarb, nella sua monumentale storia dell’idea di povertà, commenta così la proposta del famoso scrittore inglese:
in questo modo, i poveri e i derelitti potevano essere in effetti eliminati o quanto meno sottratti alla vista degli altri. Bastava trattarli, senza esitazione, come topi, considerandoli solo degli scocciatori di cui sbarazzarsi e da annientare.
Se queste considerazioni ci sembrano un retaggio del passato è solo perché è cambiato il linguaggio, in quanto considerato inopportuno. Il moderno linguaggio parla più pulito, più consono al nuovo corso di produzione e quindi si esprime con termini discinti quali: flessibilità, mobilità, riconversione, formazione, educazione, sostegno, reintegrazione per dire licenziamento, disoccupazione, emancipazione, segregazione e questo nel migliore dei casi e per i più fortunati.
Nell’altro caso, invece, abbiamo il buio assoluto, il mondo degli invisibili, di coloro dei senza identità, quelli di cui parlava il famoso scrittore Carlyle che avrebbe visto come soluzione radicale il problema povertà attraverso l’utilizzo dell’arsenico come si fa con i topi. Questa popolazione in una società dei consumi è una popolazione rifiutata.
Alla stessa stregua con cui una società che consuma produce rifiuti così anche produce una fetta di umanità rifiutata che vive come può ai margini e nei lembi delle periferie e si avvicina ai scarti dei ricchi e dei benestanti così come essi stessi sono scartati dal resto della popolazione.
L’idea di scarto, di rifiuto è così ricomparsa con tutta la sua forza e violenza, quella violenza dalla quale eravamo partiti per concettualizzare lo stato moderno.
L’Edificio Sociale sta sempre là in piedi minaccioso pronto ad accogliere chi sta fuori dalla concezione del patto originario e riportarlo dentro, inesorabilmente e fuori dalla vista del cittadino moderno inconsapevole strumento di un’atavica violenza progettata.

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